Per cittadinanza si intende generalmente la condizione giuridica (o status) degli appartenenti a una comunità politica nazionale denominata popolo, a cui consegue la titolarità di alcuni specifici diritti – in particolare, i diritti politici (Diritti costituzionali) – nonché di alcuni specifici doveri, quali, ad esempio, quello di difendere la patria (art. 52, co. 1, Cost.) e di fedeltà (art. 54, co. 1, Cost.). Va detto, però, che, in virtù del fenomeno della cd. globalizzazione, il nesso esistente tra quanti compongono il popolo (cd. cittadinanza-appartenenza), che caratterizzava le carte costituzionali novecentesche, si è in parte attenuato, facendo parlare di una crisi della cittadinanza.
La nozione di cittadinanza aveva un’importanza fondamentale già nel mondo antico, in quanto nasce e si afferma con la polis greca, ma non ne segue l’eclissi, finendo con il caratterizzare anche l’esperienza giuridica romana. Così, nella Roma repubblicana solo i cives potevano esercitare il diritto di voto nelle assemblee popolari, porre in essere i negozi solenni previsti dal ius civile, essere titolari della patria potestas e del dominium su cose e schiavi, con i relativi poteri di emancipazione ecc. In conseguenza dell’espansione territoriale di Roma, la cittadinanza fu estesa ad altre popolazioni: nell’89 a.C., a conclusione delle c.d. guerre sociali, venne concessa a tutti gli uomini liberi dell’Italia; nel 49 a.C. fu estesa anche ai transpadani; nel 212 d.C., infine, l’imperatore Caracalla la concesse a tutti gli uomini liberi dell’Impero, ponendo con ciò le premesse per una successiva eclissi della nozione, protrattasi sino alla fine del XVIII secolo.
Con la Rivoluzione francese, la cittadinanza riacquista la centralità perduta: alla figura del suddito si sostituisce quella del citoyen, quale componente della nazione, depositaria della sovranità (art. 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese del 1789; artt. 1 e 2, tit. III, Cost. Francia 1791; Sovranità popolare). Va detto, tuttavia, che all’interno di una concezione unitaria della nazione – secondo la riflessione e la pratica costituzionale di J.-E. Sieyès – sussisteva la distinzione, fondata su base censitaria, tra cittadini attivi e cittadini passivi, rimasta sino all’affermazione del suffragio universale (Diritto di voto).
La Costituzione italiana, oltre a proclamare nella sua prima parte in capo ai cittadini la titolarità di alcuni diritti e di alcuni doveri, si occupa specificatamente della cittadinanza solo all’art. 22, stabilendo il principio per cui non si può essere privati di essa, così come del nome e della capacità giuridica, per motivi politici. La ratio di questa disposizione va inquadrata nella contestazione degli arbitri compiuti dal fascismo, che non solo aveva privato della cittadinanza italiana tutti gli antifascisti in esilio (l. n. 108/1926), ma aveva altresì stabilito (R.d.l. n. 1728/1938) delle gravi limitazioni alla cittadinanza e alla capacità giuridica nei confronti dei cittadini di «razza ebraica».
Per avere un quadro esauriente della disciplina vigente in tema di cittadinanza intesa quale legame dell’individuo con lo Stato (c.d. cittadinanza-nazionalità), occorre, invece, fare riferimento alla legislazione ordinaria (l. n. 555/1912 e, successivamente, l. n. 91/1992). In particolare, per ciò che riguarda l’acquisto della cittadinanza, la l. n. 91/1992 fissa tre criteri fondamentali: il c.d. ius sanguinis, secondo cui è cittadino italiano chi nasce da uno o da entrambi i genitori italiani, principio accolto anche nella vecchia normativa; il c.d. ius soli, secondo il quale è cittadino italiano chi nasce nel territorio italiano, se i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non abbia acquistato la cittadinanza dei genitori in base alla legge del loro Stato; la volontà dell’interessato, secondo cui lo straniero o l’apolide possono chiedere la cittadinanza, qualora si trovino in determinate condizioni, cioè rapporti di parentela con cittadini italiani, ovvero una residenza legale e ininterrotta nel territorio italiano per un non breve periodo di tempo (dieci anni nel caso dello straniero; cinque in quello dell’apolide), ovvero avere prestato servizio, anche all’estero, alle dipendenze dello Stato italiano.
La l. n. 91/1992 non prevede più, nel caso di cittadini che acquistino anche la cittadinanza di altri Stati, la decadenza automatica da quella italiana, ma, anzi, configura l’ipotesi non più eccezionale della doppia cittadinanza. In virtù di questo cambiamento, si è reso più impellente il problema di garantire l’esercizio del voto ai cittadini italiani residenti all’estero, che ha portato all’approvazione della l. cost. n. 1/2000 e della l. cost. n. 1/2001 (Diritto di voto).
La decadenza dalla cittadinanza italiana viene limitata in due ipotesi tassative: quando il cittadino abbia accettato un impiego pubblico o una carica pubblica da uno Stato estero o da un ente internazionale cui l’Italia non partecipa, ovvero abbia prestato servizio militare per uno Stato estero e non ottemperi all’intimazione rivoltagli dal Governo italiano di abbandonare la carica, l’impiego o il servizio militare, oppure quando il cittadino, durante lo stato di guerra con uno Stato estero, abbia accettato o non abbia abbandonato un impiego pubblico o una carica pubblica o abbia prestato servizio militare per quello Stato senza esservi obbligato, ovvero ne abbia acquistato la cittadinanza volontariamente. Al di fuori di queste ipotesi, la cittadinanza italiana si può perdere per rinunzia espressa. Nel caso di perdita della cittadinanza italiana, è prevista, comunque, la possibilità di riacquistarla, se si soddisfano alcune condizioni, quali, ad esempio, la prestazione del servizio militare o l’assunzione di un impiego pubblico o lo stabilimento della propria residenza in Italia.