Giurista romano (n. metà sec. 2º d. C. - m. 212), oriundo forse della Siria. Discepolo, secondo la tradizione, di Scevola, ebbe fama di giurista principe, dovuta, oltreché alle sue opere (principali, tra quelle di sicura attribuzione, 37 libri di quaestiones, 19 di responsa e 2 di definitiones), che eccellono per profondità di analisi e potenza critica, all'elevatezza del suo carattere. Occupò cariche pubbliche (praefectus praetorio e magister libellorum) sotto Marco Aurelio e Settimio Severo; fu trucidato coi seguaci di Geta per ordine di Caracalla; ma è forse leggenda che sia stato ucciso per essersi rifiutato di giustificare il fratricidio di Caracalla. La cosiddetta legge delle citazioni di Teodosio II e Valentiniano III (426) stabilì che P. fosse uno dei cinque sommi giureconsulti dei quali soli si potevano allegare in tribunale le opinioni, e che in caso di parità di suffragi l'opinione accolta da lui prevalesse senz'altro.