Costituzione emessa nel 426 a Ravenna dall’imperatore romano d’Occidente Valentiniano III e diretta a disciplinare in giudizio le modalità con cui le parti, al fine di vincere la lite, potevano richiamare i pareri forniti sul caso di specie, o su casi simili, dai giuristi di età classica. La legge si prefiggeva di limitare la discrezionalità dei giudici, i quali avrebbero dovuto pronunciare sentenza favorevole: a chi avesse citato a proprio sostegno uno o più fra i cinque giuristi contemplati dal provvedimento (i quattro maggiori di età tardo-classica, Emilio Papiniano, Domizio Ulpiano, Giulio Paolo ed Erennio Modestino, cui venne aggiunto Gaio, così insignito di un riconoscimento ufficiale postumo), purché la controparte non ne avesse citato alcuno, o almeno uno in meno; a chi avesse citato Papiniano, qualora la controparte avesse invece citato lo stesso numero di giuristi; a chi il giudice ritenesse più opportuno, qualora le parti avessero citato lo stesso numero di giuristi, ma non Papiniano. La previsione di norme automatiche per la risoluzione delle controversie e la sopravvivenza del principio del libero convincimento del giudice in casi del tutto residuali rappresentano la prova evidente della crisi della scienza giuridica di quel tempo. La legge delle citazioni si rivelò di grande utilità pratica, tanto che la sua abrogazione non avvenne che un secolo dopo, allorché Giustiniano pose mano al Digesto. Nel frattempo era stata estesa alla parte orientale dell’impero, dove però vennero apportati dei correttivi alla sua applicazione, così da consentire di citare anche il parere di giuristi diversi dai cinque suddetti, a condizione che fossero citati da quest’ultimi e che, per dimostrare l’autenticità del parere in questione, fosse addotta in giudizio idonea documentazione.