Giurista romano (sec. 3º d. C.). Si conoscono di P. ottantasei opere (in 319 libri), oltre le note a opere altrui. Fra le maggiori sono i commenti ad Edictum e ad Sabinum. Grande fu la fama che godette presso i contemporanei e i posteri: fu uno dei cinque giuristi indicati nella cosiddetta legge delle citazioni di Teodosio II e Valentiniano III, alle cui opinioni i giudici dovevano attenersi nel decidere; e nell'Occidente postclassico fu uno degli autori preferiti: alcune sue dottrine, contrarie alla dominante corrente classica, riuscirono a prevalere.
Di patria ignota, probabile discepolo di Cervidio Scevola, assessore di Papiniano nella prefettura del pretorio, poi con Papiniano membro del consiglio imperiale, collega di Ulpiano nella prefettura del pretorio sotto Alessandro Severo. È uno dei più fecondi giuristi romani. Benché più volte raccogliesse materiali tratti da altri autori, fu tuttavia pensatore indipendente ed equilibrato; né vi fu campo del diritto ch'egli non esplorasse. Gli inizi della sua attività letteraria sono da collocare sotto Commodo. Si conoscono di lui ottantasei opere (in 319 libri), oltre le note a opere altrui. Fra le maggiori sono il commento ad Edictum (in 78 libri) e il commento ad Sabinum (in 16 libri), integrati da numerosissime monografie su argomenti singoli. Scrisse quaestiones (in 26 libri), responsa (in 23 libri). I due libri di decreta e i sei libri di imperiales sententiae in cognitionibus prolatae sono il frutto della sua attività nel consilium imperiale. Numerosi scritti sono attinenti al diritto pubblico. All'insegnamento e alla pratica erano dedicati invece i due libri di institutiones, i sei libri di regulae, un liber singularis regularum, i tre libri manualium. Gli si attribuiscono anche i cinque libri sententiarum pervenutici in estratto attraverso la Lex romana Wisigothorum, ma si tratta in realtà di una tarda compilazione con passi ricavati in parte da sue opere.