Scioglimento legale del matrimonio durante la vita dei coniugi, ammesso nella maggior parte delle culture e società antiche e moderne, ma rifiutato da alcune confessioni religiose, fra cui quella cattolica.
Il ricorso all’istituzione del d. è presente in quasi tutte le società umane. Sterilità, adulterio, conflitti e violenze tra i coniugi sono i motivi più frequenti di divorzio. La frequenza dei d. in una società dipende da molte variabili: la natura e la quantità dei beni che sanciscono l’alleanza (dote e ricchezza della sposa); il sistema di trasmissione dell’eredità; il tipo di alleanza che si instaura tra il gruppo del marito e quello della moglie; il luogo di residenza dei coniugi. In genere i sistemi di discendenza matrilineare e la residenza matrilocale (in cui il marito va a vivere presso i parenti della sposa) facilitano la richiesta di d. da parte delle donne. La nascita di figli rende problematico il divorzio. Tra i Nuer studiati da E.E. Evans-Pritchard, il gruppo del marito manteneva i diritti sulla prole qualora il gruppo della moglie, dopo il d., non restituisse il bestiame donato al momento del matrimonio dai parenti dello sposo. In questo caso la donna non poteva risposarsi. Lo stesso Evans-Pritchard nota tuttavia che le norme concernenti il d., così come quelle riguardanti il matrimonio, raramente sono applicate in maniera rigida. In alcune società neppure la morte comporta lo scioglimento del matrimonio, inteso come alleanza tra gruppi, come mostrano le istituzioni del levirato e del sororato.
In Grecia, per l’antichissima legge di Gortina, nel d. il marito doveva restituire la dote accresciuta degli interessi per il tempo della convivenza coniugale e, nel caso che il d. fosse accaduto per sua colpa, doveva versare una somma alla moglie. Ad Atene, si distingueva il d. voluto dal marito (ἀπόπεμψις, «ripudio») da quello voluto dalla moglie (ἀπόλειψις «abbandono»). Il marito aveva l’obbligo di cacciare la moglie (pena la perdita dei diritti civili), se questa fosse stata adultera, dovendo peraltro restituire la dote; quando la moglie lasciava il marito, essa era tenuta solo a far registrare dall’arconte l’avvenuta separazione e anche in questo caso il marito doveva restituire la dote. Accanto a queste due forme più comuni, c’era il d. per mutuo consenso e, infine, il d. provocato da terzi.
Nel diritto romano invece l’istituto del d. era conseguenza diretta del concetto di matrimonium. Come questo si fondava sulla perdurante continuità del consenso (affectio maritalis), così con il venir meno dell’affectio maritalis il matrimonio si scioglieva e si aveva il divortium. Almeno per l’uomo, il d. appare praticato in Roma con grande libertà e frequenza. Il legislatore colpiva indirettamente tale pratica inasprendo le pene contro gli adulteri, colpendo il coniuge colpevole nei modi di restituzione della dote, rivestendo il d. di forme tali da richiamare l’attenzione sulla gravità dell’atto.
La vera lotta contro il d. iniziò con gli imperatori cristiani, rivolgendosi dapprima contro il d. unilaterale (il ripudio), per il quale furono fissate le iustae causae, determinati motivi legali, cioè, fuori dei quali il ripudiante era punito; ma anche in questo caso il matrimonio si scioglieva. Giustiniano, fino al 542, restò fermo alla tradizione stabilendo (Cod. 5, 17, 10, Nov. 22, cap. 4 e seg.) quattro specie di ripudio: per mutuo consenso, sempre lecito; in base alle iustae causae, nel qual caso era punito il coniuge colpevole; sine causa, nel quale il matrimonio si scioglieva, ma il ripudiante era punito; per iusta causa non derivante da colpa di nessuna delle parti (divortium bona gratia). Ma la vera battaglia contro il d. fu iniziata da Giustiniano nel 542 con la Nov. 117 che, fra l’altro, stabiliva le pene per il d. illecito. Il successore Giustino II tra i suoi primi atti restituì il d. per mutuo consenso.
I popoli germanici, che invasero l’Impero tra il 5° e il 6° sec., praticavano il d. in misura anche più estesa. Il caso più comune era il d. per mutuo consenso, che i coniugi si dichiaravano per lettera o anche oralmente alla presenza di testimoni. Certamente più antico era il d. unilaterale, dapprima riconosciuto solo all’uomo e senza limiti, più tardi limitato dalle leggi a casi determinati e consentito anche alla donna.
Il d. è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano dalla l. 898/1970, che tuttora lo disciplina (benché successivamente modificata dalla l. 436/1978 e dalla l. 74/1987). Il diritto di chiedere il d. spetta a ciascuno dei coniugi nei casi tassativamente indicati dall’art. 3 della l. 898, e cioè quando: a) l’altro coniuge sia stato condannato, dopo la celebrazione del matrimonio: 1) alla pena dell’ergastolo o a una pena superiore ad anni 15 per uno o più delitti non colposi; 2) per i delitti di cui agli art. 564, 609 bis e seg. c.c., ovvero per induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione; 3) per omicidio volontario di un figlio o per tentato omicidio del coniuge o di un figlio; 4) per lesioni personali gravissime, violazione degli obblighi di assistenza familiare, maltrattamenti o circonvenzione di incapace, ai danni del coniuge o di un figlio; in tutti questi casi, la domanda non può essere proposta dal coniuge condannato per concorso nel reato, ovvero quando la convivenza coniugale è ripresa; b) quando l’altro coniuge sia stato assolto per vizio totale di mente da uno dei delitti elencati ai nr. 2 e 3, sempre che il giudice accerti la sua inidoneità a mantenere o ricostituire la convivenza familiare; c) quando il procedimento penale promosso per i delitti elencati ai nr. 2 e 3 si sia concluso con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, laddove il giudice ritenga che nei fatti commessi sussistano gli elementi costitutivi e le condizioni di punibilità dei delitti stessi; d) quando sia stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero sia stata omologata la separazione consensuale, ovvero sia intervenuta separazione di fatto iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970; in ogni caso, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno 3 anni dall’avvenuta comparizione dei coniugi davanti al presidente del tribunale (➔ separazione); e) quando l’altro coniuge, cittadino straniero, abbia ottenuto all’estero l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio o abbia contratto all’estero nuovo matrimonio; f) quando il matrimonio non sia stato consumato; g) quando sia passata in giudicato la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso.
Il diritto di chiedere il d. è indisponibile e intrasmissibile. È possibile presentare un ricorso congiunto da parte di entrambi i coniugi. Il d. è pronunciato, al termine del relativo procedimento, con una sentenza costitutiva che comporta, a far data dal giorno dell’annotazione della sentenza nei registri dello stato civile, la definitiva perdita dello status di coniuge e il venir meno di tutti gli effetti del matrimonio, tra cui in particolare gli obblighi coniugali. La sentenza dichiara a quale genitore sono affidati i figli e adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Dal punto di vista patrimoniale, quando un coniuge non abbia mezzi adeguati di sostentamento e non possa procurarseli per ragioni oggettive, ha diritto a un assegno di mantenimento periodico; in questo caso la sentenza deve stabilire un criterio di adeguamento automatico alla svalutazione monetaria, ma le parti possono anche prevedere la corresponsione di una somma in unica soluzione. Questo accordo preclude la possibilità di proporre ulteriori domande di natura economica. L’obbligo di corrispondere l’assegno cessa se il beneficiario passa a nuove nozze. Qualora l’obbligato premuoia al beneficiario e quest’ultimo versi in stato di bisogno, il tribunale può attribuire un assegno periodico a carico dell’eredità; anche in questo caso si può sostituire l’assegno con una somma da corrispondersi in unica soluzione; il diritto all’assegno si estingue se il beneficiario passa a nuove nozze o viene meno il suo stato di bisogno (ma, in quest’ultimo caso, qualora risorga lo stato di bisogno l’assegno può essere nuovamente attribuito). In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il beneficiario dell’assegno di mantenimento che non sia passato a nuove nozze ha diritto alla pensione di reversibilità, purché il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza. Inoltre, il beneficiario dell’assegno non passato a nuove nozze ha diritto a una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza, pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.
Il divorzio procedimento di d., che ha come scopo quello di operare lo scioglimento o la cessazione degli effetti legali del matrimonio, è disciplinato dall’art. 4 della l. 898/1970, così come modificato dall’art. 8 della l. 74/1987 e dalla l. 80/2005, che ha sostanzialmente unificato i procedimenti di separazione e di divorzio. Il giudice competente per materia è sempre il tribunale ed è prevista la partecipazione necessaria del pubblico ministero. Legittimati ad agire sono solo i coniugi. Il procedimento inizia con ricorso e si articola in due fasi: quella davanti al presidente e quella davanti al collegio. Davanti al presidente devono comparire le parti personalmente; il presidente deve sentire i coniugi e tentarne la conciliazione; se la conciliazione non riesce, il presidente dà i provvedimenti temporanei e urgenti ritenuti opportuni nell’interesse della prole e dei coniugi. Si passa perciò alla fase davanti al collegio, nell’ambito della quale la fase istruttoria viene delegata al giudice istruttore. Può essere pronunciata sentenza non definitiva di scioglimento di matrimonio, mentre il procedimento prosegue per la determinazione dell’assegno di divorzio. La sentenza di d., provvisoriamente esecutiva per quel che concerne le disposizioni di natura economica, deve essere annotata per ordine del giudice dall’ufficiale dello stato civile del luogo ove è stato celebrato il matrimonio. L’appello è deciso in camera di consiglio. In caso di domanda congiunta dei coniugi il procedimento, che ha comunque natura contenziosa, si svolge con un rito semplificato, nell’ambito del quale vi è comunque la fase presidenziale e un’istruzione durante la quale è necessario verificare l’esistenza dei presupposti per lo scioglimento del matrimonio.
Il regime di diritto internazionale privato del d. e della separazione personale dei coniugi è regolato dalla l. 218/1995. L’art. 31 di tale legge prevede che la separazione personale e lo scioglimento del matrimonio siano regolati dalla legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda di separazione o di scioglimento del matrimonio. Nel caso di coniugi con diversa cittadinanza, la ricerca della legge applicabile è rimessa al prudente apprezzamento del giudice che dovrà individuare il paese in cui la vita coniugale è prevalentemente localizzata. Il criterio della localizzazione della vita della coppia è un criterio di carattere sussidiario introdotto dalla nuova normativa, e regola, altresì, i rapporti personali tra i coniugi (art. 29.2), l’adozione (art. 38.1) e i rapporti tra adottato e famiglia adottiva (art. 39). La separazione personale e lo scioglimento del matrimonio, qualora non siano previsti dalla legge straniera applicabile, sono regolati dalla legge italiana.
In materia di nullità e di annullamento del matrimonio, di separazione personale e di scioglimento del matrimonio (art. 32), la giurisdizione italiana sussiste, oltre che in alcuni casi espressamente previsti dalla legge 218 (per es., quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma dell’art. 77 c.p.c. e negli altri casi in cui è prevista dalla legge), anche quando uno dei coniugi è cittadino italiano o il matrimonio è stato celebrato in Italia. Al riguardo va in particolare rilevato che l’applicazione della legge italiana non presuppone la cittadinanza italiana del coniuge richiedente e può essere invocata anche da uno straniero, sia in un matrimonio misto sia in un matrimonio fra stranieri.
Poiché la Chiesa cattolica considera il matrimonio indissolubile, nel diritto canonico non è contemplato d.; tuttavia, in alcuni specifici casi ai cattolici può essere concesso un annullamento. Al fine di ottenerlo è necessario un procedimento che constati, da parte della legittima autorità canonica costituita (Tribunale), che il matrimonio non è mai esistito, in quanto carente di quelle che la Chiesa cattolica ritiene condizioni essenziali affinché si possa celebrare un matrimonio valido. Tipico caso di annullamento è quello che si verifica quando uno o entrambi i coniugi negavano in partenza qualcuna delle proprietà essenziali del matrimonio (indissolubilità, unicità, procreazione ecc.), oppure quando uno o entrambi i coniugi non erano in grado, per qualche specifico motivo, di assumersi tutte le responsabilità e i doveri discendenti dal matrimonio (per incapacità di intendere e di volere, mancanza di libertà, costrizione da parte dei genitori).
Il regime dell’annullamento comporta applicazioni e regole differenti per la Chiesa cattolica e lo Stato. Una coppia, per es., potrebbe ottenere il d. dallo Stato ma non avere il matrimonio annullato dalla Chiesa cattolica. Lo scioglimento del matrimonio religioso ha effetto solo dopo la doppia sentenza conforme del tribunale canonico e può essere successivamente resa efficace nel diritto dello Stato attraverso il processo di delibazione presso la Corte d’appello degli ex coniugi. Al contrario, lo scioglimento del matrimonio religioso attraverso l’istituto del d. del diritto dello Stato non è permesso e questo poiché la Chiesa dichiara che «ciò che Dio unisce, l’uomo non può dividere». Ne consegue che le persone che ottengono un d. civile sono ancora considerate sposate di fronte alla Chiesa cattolica, che non consente loro di celebrare un nuovo matrimonio religioso pur potendo contrarre un matrimonio civile.