Tendenza ad attribuire aspetto, facoltà e destini umani a figure immaginarie, animali e cose. In particolare, l’attribuzione alla divinità di qualità umane fisiche, intellettuali e morali.
Il corpo umano, le sue emozioni e i suoi sentimenti sono stati assunti, nella mediazione linguistica dell’esperienza religiosa e della relazione dell’uomo con il divino, come risposta elementare a quell’esigenza di determinare la ‘forma’ del divino che accompagna costantemente il cammino degli uomini lungo la storia. Altrettanto costante appare tuttavia la coscienza dei pericoli di tali mediazioni linguistico-figurali. Già nel 6° sec. a.C. il filosofo greco Senofane di Colofone critica l’a. di Omero e di Esiodo, responsabili di aver attribuito agli dei tutto ciò che per gli uomini è obbrobrio e vergogna; dopo di lui altri filosofi polemizzano con l’a., in particolare le scuole platoniche del 2° sec. a.C., dalle quali l’impossibilità di comprendere e di ‘dire’ Dio è ritenuta un dogma. In ambito cristiano e giudaico, la spiegazione dei passi biblici in cui sono presenti elementi di rappresentazione antropomorfa di Dio, per i Padri della Chiesa, come per una parte dell’esegesi rabbinica, è che si tratti di metafore rese necessarie dall’incapacità dell’uomo di cogliere l’essenza del divino se non per analogia con l’esperienza umana. In epoca moderna la polemica contro l’a. si ritrova in I. Kant, che parla di un a. ‘simbolico’, per il quale l’uomo attribuisce alla relazione di Dio con il mondo quelle proprietà con le quali pensa gli oggetti di esperienza. Ma è soprattutto L.A. Feuerbach a insistere sul tema dell’a., che proverebbe la genesi del tutto umana del fatto religioso: nell’oggetto della religione che l’uomo chiama Dio non si esprime altro che l’essenza dell’uomo stesso, che vi proietta le sue esigenze e le sue aspirazioni di giustizia, pace e salvezza.