aggressività In psicologia, stato di tensione emotiva generalmente espresso in comportamenti lesivi e di attacco. Il problema dell’a. ha assunto crescente importanza per le scienze naturali e umane.
In S. Freud, accenni a una fonte dell’a. indipendente dalla pulsione sessuale affiorano già in Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie (1905), dove l’interesse è volto al ‘fattore aggressivo’, presente nella libido e responsabile delle perversioni sadica e masochistica della sessualità. Il saggio metapsicologico del 1915 Triebe und Triebschicksale affronta il rapporto fra ‘odio’ e pulsioni dell’Io. La polarità si ripristina, in Jenseits des Lustprinzips (1920), attraverso l’analisi di un particolare fenomeno psicologico, la ‘coazione a ripetere’ e la sua interpretazione congetturale. Si contrappongono pulsioni di vita, denominate platonicamente Eros, e pulsioni di morte, che riceveranno il nome di Thanatos dall’analista P. Federn: le prime tendono a conservare la sostanza vivente e ad aggregarla in unità sempre più complesse, le seconde invece a ricondurla al primitivo stato inorganico. Dalla pulsione di morte derivano – afferma Freud in Das Ich und das Es (1923) – «tendenze distruttive», che sono propriamente autodistruttive, posizione che ribadirà nell’ultima serie delle lezioni introduttive alla psicoanalisi, sostenendo che il soggetto umano tende a distruggere altre cose o persone per sfuggire alla tendenza verso l’autodistruzione. In Freud, il concetto di a. non trova, dunque, una definizione univoca: le idee si precisano successivamente, nei programmi di ricerca, autonomi e correlati, degli psicologi, degli etologi e degli antropologi culturali.
The anatomy of human destructiveness (1973) di E. Fromm è un organico tentativo di analizzare le componenti comprese nel concetto di aggressività. La distinzione fondamentale di Fromm è fra aggressione ‘benigna’, biologicamente adattativa e utile alla vita, e ‘maligna’, non adattativa. La prima rappresenta una reazione a minacce contro interessi vitali, è programmata filogeneticamente, è comune a uomini e animali, non è spontanea e mira a eliminare il pericolo, quando l’altro mezzo per ottenere lo stesso scopo, la fuga, non serve o è posposto alla reazione di attacco. L’aggressione maligna, specificamente umana, non deriva dall’istinto animale, e nascerebbe «dall’interazione di varie circostanze sociali con i bisogni esistenziali dell’uomo». Con E. Fromm la psicoanalisi ha cercato di trascendere i dati della psicologia animale e della stessa etologia, valorizzando piuttosto le nuove vedute sulle società primitive e, in particolare, sulla guerra nelle società di cacciatori-raccoglitori di cibo: a questo livello organizzativo, la guerra non sarebbe istituzionalizzata. La propensione alla guerra sarebbe subentrata con la pastorizia e l’agricoltura, confermando il legame della guerra con l’organizzazione economica. In tal modo, la psicoanalisi postfreudiana ha distinto, nella vaga connotazione dell’istinto distruttivo di Freud, alcuni nuclei passibili di delimitazione: la reazione al pericolo, nella duplice espressione di attacco e fuga, e la struttura caratteriale nella sua interazione con l’ambiente.
Altri studi di psicologia animale (v. fig.) hanno apportato al problema dell’a. l’ulteriore distinzione tra aggressione predatoria, aggressione interspecifica e aggressione intraspecifica. Quest’ultima, l’aggressione fra animali di una stessa specie, ha impegnato a fondo psicologi comportamentisti ed etologi. In K. Lorenz (Das sogenannte Böse. Zur Naturgeschichte der Aggression, 1963), l’aggressione intraspecifica acquista la funzione di evitare «il pericolo che, in una parte del biotopo a disposizione, una popolazione troppo densa di una specie animale esaurisca tutte le sorgenti di nutrimento e soffra la fame, mentre un’altra parte resterebbe inutilizzata». Essa è vista come strumento che plasma l’organizzazione degli esseri viventi per conservarne i sistemi. Il valore del concetto di aggressione intraspecifica per quanto riguarda l’uomo è, del resto, reso discutibile dalla tendenza umana alla «pseudo-speciazione» (E.H. Erikson), per cui l’individuo tende a veder raffigurata l’umanità solo nei membri del proprio gruppo culturale. Gli studi sull’a. compiuti negli ultimi decenni del 20° sec., pur prendendo le mosse da diverse modalità d’indagine, convergono nell’affermare il carattere essenzialmente intersoggettivo dell’apprendimento e della maturazione delle condotte aggressive. In tale prospettiva si colloca, in particolare, la ricerca di A. Bandura (Aggression: a social learning analysis, 1971), che, rifiutando sia le posizioni innatiste, sia il legame tra frustrazione e a., identifica l’aggressione con una strategia adattiva regolata da processi di imitazione, valutazione della convenienza, ricerca del consenso sociale, disinibizione e disinvestimento morale in funzione di un rimodellamento degli standard interni di comportamento.
In psicologia dinamica, l’a. perde progressivamente lo statuto di motivazione istintiva per assumere quello di risposta più o meno adattiva ai fallimenti ambientali (cure parentali inadeguate, condizioni precoci di deprivazione ecc.); ne segue, sul piano della teoria della tecnica psicoanalitica, un approccio che tratta l’a. come non necessariamente distruttiva, ma come un segnale da saper cogliere e rimodulare nella terapia.