Indirizzo filosofico del 19° sec., il cui iniziatore è il francese A. Comte e i cui maggiori rappresentanti sono in Inghilterra J. S. Mill e H. Spencer, e in Italia R. Ardigò. Più in generale, il termine indica una cultura il cui atteggiamento fondamentale è riconducibile ai principi elaborati da tale indirizzo filosofico. Ne parteciparono scienziati, storici, letterati, nel quadro della situazione europea caratterizzata dagli sviluppi della società industriale e dalla crescita delle scienze e della tecnica. I filosofi positivisti sono pienamente consapevoli di essere interpreti di questo tempo e tracciano anche il disegno di una società industriale razionale, ossia regolata secondo criteri scientifici.
Per il positivismo logico ➔ neopositivismo.
Diverse sono le accezioni elencate da Comte nel Discours sur l’esprit positif (1844). La prima è quella di reale, in opposizione a chimerico; e con questo si indica il volgersi della nuova filosofia a ricerche accessibili all’intelligenza umana, con esclusione dei misteri impenetrabili di cui si occupava la filosofia anteriore. La seconda accezione è quella di utile, in contrapposizione a ozioso; indica cioè il carattere pragmatico della nuova filosofia, rivolta al miglioramento della condizione dei singoli e della società. In una terza accezione il termine indica l’opposizione tra certezza e indecisione, ossia l’attitudine della filosofia positiva a costituire «l’armonia logica nell’individuo e la comunione spirituale nella specie», in luogo di perseguire i continui dubbi delle filosofie precedenti. Una quarta accezione è quella di preciso in contrapposizione a vago, e designa la tendenza della filosofia positiva a raggiungere il grado di precisione compatibile con la natura dei fenomeni e con l’esigenza dei nostri bisogni, mentre la vecchia filosofia conduceva a nozioni vaghe che potevano diventare patrimonio comune attraverso una disciplina imposta e fondata su un’autorità soprannaturale). La quinta accezione designa il positivo in contrapposizione al negativo, e indica che la filosofia positiva non ha il compito di distruggere ma di organizzare. Tali definizioni possono valere come caratterizzazione dello stadio più avanzato dello sviluppo intellettuale (e storico) dell’uomo, il raggiungimento della sua piena maturità. Questo stadio viene chiamato da Comte appunto ‘positivo’, ed è il terzo stadio dopo quello teologico e quello metafisico. Tale successione è per Comte la legge dei tre stadi che ha validità universale ed è verificabile sia nel corso storico (con riferimento particolare alla storia europea), sia nello sviluppo delle scienze, sia infine nello sviluppo psicologico individuale. Raggiungere lo stadio positivo significa liberarsi da criteri non scientifici nella considerazione dei fenomeni; significa non ricorrere più a entità immaginarie soprannaturali come nello stadio teologico, o ad astrazioni personificate come nello stadio metafisico. Nello stadio positivo l’intelletto si limita rigorosamente ai fatti e alle loro relazioni: alla causa subentra la legge, alla ricerca del perché la ricerca del come, all’assoluto subentra il relativo. Il nuovo mondo comtiano realizza l’imperativo dell’altruismo ed è aperto a una religione il cui dio è l’Umanità e che non lascia alcun posto al trascendente.
Con J.S. Mill il p. assume una configurazione diversa da quella conferitogli da Comte. In realtà Mill si collega alla tradizione empiristica inglese e in sostanza ha in comune con Comte soprattutto la parte negativa della sua filosofia, il rifiuto di ogni ricorso a spiegazioni teologiche o metafisiche: il suo System of logic (1843) si fonda sul più rigoroso sperimentalismo. Sul piano politico la concezione di Mill è individualistica e liberale, mentre lo Stato di Comte è rigidamente organizzato. Mill è vicino a Comte in fatto di filosofia della religione, anche se poi svolge diversamente questo punto comune. Si è visto che Comte non esclude il sentimento religioso, e anzi prospetta una sua espansione nello stadio positivo. Neppure Mill lo esclude. Nei suoi Three essays on religion (postumi, 1874) parla di un dio finito, ossia non onnipotente, un principio buono non assoluto, che dunque deve fare i conti con il mondo materiale e le sue leggi spesso crudeli: l’uomo è così un collaboratore di questa divinità finita e il sentimento religioso rafforza la speranza di realizzare le sue esigenze morali. Sia in Comte sia in Mill il presupposto antropologico è quello sentimentale (l’uomo non è soltanto e neppure prevalentemente ragione); il presupposto teorico (e in Mill più ancora che in Comte) è la propensione agnostica: la spiegazione razionale non esclude un certo margine di non-sapere e di inverificabilità.
Un atteggiamento analogo si riscontra anche in altri pensatori che si richiamano al positivismo. C. Bernard nella sua Introduction à l’étude de la médecine expérimentale (1865) è sostenitore di un rigoroso sperimentalismo e respinge quello che egli chiama il ‘sistema’, ossia la spiegazione unitaria dei fenomeni (materialismo, spiritualismo ecc.). Considera la filosofia diversa dalla scienza perché si occupa dell’indeterminato, di ciò che la scienza non può sperimentare, e attribuisce per questa via alla filosofia una funzione di stimolo per la scienza stessa, ritenendo ineliminabili le esigenze che danno luogo alla filosofia e alla religione. Anche in J.-R. Renan, pur fra qualche oscillazione, resta l’esigenza di non identificare il verificabile con il vero, di non appagarsi delle operazioni razionali.
Un analogo presupposto gnoseologico è presente in H. Spencer, che parla di una conoscenza relativa del condizionato e di un incondizionato inconoscibile. La religione rappresenta la consapevolezza di questo mistero e la rappresenta tanto meglio quanto più rinuncia a raffigurarlo e si limita a prendere atto della sua presenza-assenza. Da una parte dunque la scienza, dall’altra la religione, con due ben distinte sfere di competenza. Tuttavia per Spencer queste due sfere non sono irrelate, perché il condizionato, il fenomeno è manifestazione della realtà assoluta, e dell’incondizionato abbiamo tuttavia coscienza senza averne conoscenza. La filosofia ha il compito di generalizzare i risultati delle scienze, e questi risultati consentono a Spencer di formulare una teoria dell’evoluzione di applicazione universale. Nell’evoluzione sociale egli prevede un punto di approdo in cui i contrasti saranno appianati, in cui individuale e sociale, privato e pubblico saranno conciliati. In vista di questo approdo Spencer sostenne in sede di dottrina politica tesi contrarie a ogni intervento dello Stato. Spencer fu il filosofo positivista che ebbe maggior fortuna: negli ultimi quarant’anni dell’Ottocento la sua filosofia ebbe una diffusione enorme. Critico dell’inconoscibile di Spencer è l’italiano R. Ardigò, il quale non ammette un diverso e più autentico piano di realtà, ma si attiene al fatto e al verificabile. Il fatto viene accertato attraverso l’apprensione diretta, alla quale seguono le operazioni riflessive che distinguono. Questo passaggio da un originario indistinto a successive distinzioni è un fatto del pensiero, ma è anche un fatto reale: la realtà stessa viene specificandosi in questo senso, onde ogni distinto è a sua volta indistinto rispetto a distinti ulteriori.
Il p. ebbe diffusione anche in Germania, ma più che di una vera scuola positivistica tedesca si può parlare di ‘atmosfera positivistica’ (antimetafisica, attenzione rivolta ai risultati delle scienze, problema dei limiti della conoscenza scientifica, problema dei rapporti tra scienza e filosofia). Si possono ricondurre al p., in particolare al dualismo spenceriano, le posizioni del fisiologo E. du Bois-Reymond, che presuppongono l’esistenza di un aspetto della realtà precluso alla scienza. Du Bois-Reymond elenca alcune difficoltà fondamentali della ricerca scientifica, alcuni ‘enigmi’ di fronte ai quali essa si arresta: l’essenza della materia e della forza, l’origine del movimento, l’origine della vita, il finalismo naturale, l’origine della coscienza, il pensiero razionale e il relativo linguaggio, la libertà del volere.
La mentalità positivistica fu feconda di risultati nel senso che promosse lo studio ‘scientifico’ di molti fenomeni. Particolarmente notevoli furono le suggestioni che dalla nuova mentalità vennero agli studi storici e alle discipline sociali. Nacque un nuovo metodo storiografico, attento soprattutto a fattori ambientali, sociali, razziali, teso a comporre su queste basi il quadro d’insieme entro cui comprendere gli avvenimenti nelle loro molteplici connessioni, il ruolo delle singole personalità storiche (H.T. Buckle, W.E.H. Lecky, H.-A. Taine, P. Villari). In Francia, É. Durkheim intese fornire basi scientifiche alla sociologia, adottando come principio di spiegazione il fatto sociale inteso come una modalità del fatto collettivo che eserciti la sua costrizione sull’individuo (correnti d’opinione, istituzioni educative, credenze). L’esigenza scientifica si estese nel contempo all’antropologia e alla psicologia (basti pensare all’opera di Taine De l’intelligence, 1870, d’ispirazione rigidamente analitica, in cui la vita psichica è vista come riconducibile ai suoi elementi più semplici). In linguistica ricevettero nuovo impulso le ricerche di carattere genetico e comparativo; la letteratura e le arti nel nuovo clima accentuarono in senso ‘sperimentale’ il realismo romantico; il metodo positivo si affermò nella critica letteraria, si indagarono le basi fisiologiche di fenomeni complessi come quelli del gusto; l’attenzione al fatto stimolò innumerevoli ricerche filologiche e di erudizione; negli studi sulle religioni si tese a mettere in rilievo i fattori umani nello sviluppo dell’esperienza religiosa, mentre fiorivano ricerche etnografiche e paleoetnografiche volte allo studio comparato delle diverse forme e stadi della civiltà.
Né vanno dimenticati i meriti del p. nei riguardi del rinnovamento della legislazione scolastica e penale. Si ebbe l’affermarsi di un p. pedagogico (in Italia A. Gabelli, R. Ardigò ecc.), teso a promuovere le tendenze spontanee e creative dell’alunno, e di una scuola positiva del diritto penale (massimi esponenti C. Lombroso ed E. Ferri), che riteneva che il criminale fosse il prodotto di una serie di componenti biologiche (ereditarietà, dati anatomici e fisiologici) e sociali, e spiegava il delitto al di fuori di considerazioni morali, intendendo la pena non in senso afflittivo, ma in funzione della difesa sociale e della rieducazione del colpevole.