Lo stato di sofferenza di un organismo in toto o di sue parti, prodotto da una causa che lo danneggia, e il complesso dei fenomeni reattivi che ne derivano. Elemento essenziale del concetto di m. è la sua transitorietà, il suo andamento evolutivo verso un esito, che può essere la guarigione, la morte o l’adattamento a nuove condizioni di vita.
Le m. delle piante sono state classificate in base all’agente eziologico (parassiti vegetali, fattori nutrizionali, fattori ambientali ecc.) oppure secondo l’ordine sistematico delle piante ospiti; in ambedue i casi per le m. parassitarie è preso in considerazione solo uno dei componenti del complesso pianta-ospite. Finora, data la complessità dei rapporti che intercorrono tra i vari agenti e le m., non si ha una classificazione accettata universalmente. Di solito in patologia vegetale si adotta la seguente: a) m. di agenti parassitari organizzati, e cioè da animali e da piante (Batteri, Funghi, Fanerogame); b) m. da virus; c) alterazioni di natura non parassitaria, dovute a condizioni edafiche, quali deficienza o eccesso di qualche elemento nutritivo ecc., a sfavorevoli condizioni dell’ambiente meteorico, quali il freddo, il gelo, l’eccesso di umidità e simili, a processi industriali (gas e polveri dannose alle piante) e infine a cause fisiologiche intrinseche o a cause diverse poco note.
La definizione moderna del concetto di salute come condizione di «completo benessere» dell’individuo (OMS, 1946) ha modificato nella medicina occidentale anche il concetto di m., non più definita solo da una condizione biologica di patologia, ma da qualsiasi condizione di malessere esistenziale, conseguenza anche di scelte di vita o di valore. In tal senso, si è superata la concezione meramente organicistica della m. (disease), che viene estesa alla dimensione etica e soggettiva di essa (illness, sofferenza). Ciò contribuisce a rendere il concetto di m. un prodotto politico-sociale al limite tra natura e cultura, carico di implicazioni etiche significative per il singolo e per la società. Va inoltre considerato che l’incremento delle capacità diagnostiche della medicina e della genetica porta con sé il rischio di estendere ulteriormente il concetto di m., mediante l’identificazione dei portatori sani di patologie e definendo come patologiche determinate predisposizioni genetiche, con l’effetto di modificare i concetti di normalità/anormalità.
La m. è un processo che consta di un concatenamento di manifestazioni essenzialmente consistenti in: a) alterazioni prodotte dalla causa di m.; b) fenomeni reattivi, locali (dei tessuti), o generali (febbre, manifestazioni vasomotorie ecc.); c) processi riparativi o di adattamento. Va però notato che esiste una categoria sui generis di malattie – i tumori – in cui vari fenomeni morbosi hanno caratteristiche del tutto peculiari (➔ tumore). Dal concetto di m. sono esclusi i cosiddetti stati patologici, ossia quelle stazionarie condizioni di anormalità morfologica o funzionale, ereditaria, congenita o acquisita, in cui vi sono tessuti od organi in condizione di sofferenza e che sono compatibili con uno stato generale di buona salute: anomalie e deformità varie, postumi di malattie (cicatrici ecc.) ecc.
Le classificazioni delle m. sono diverse: le più comuni sono basate su criteri eziologici (m. infettive, parassitarie, cronico-degenerative) oppure di sede (m. della pelle, degli occhi, del sistema nervoso, m. mentali); su criteri sociali (m. del lavoro; m. professionali). In base al decorso le m. si distinguono in acute e croniche; secondo che abbiano origine dall’interno dell’organismo o dall’esterno, in endogene ed esogene; con riferimento alla modalità di trasmissione, in acquisite, ereditarie, congenite, connatali.
La nomenclatura nosologica non segue regole fisse; la denominazione può riferirsi: all’organo colpito al cui nome si aggiunge il suffisso -ite (polmonite ecc.) per m. infiammatorie o quello -osi se invece si tratta di m. degenerativa (artrosi ecc.); al nome dell’autore o degli autori che per primi le hanno descritte (m. di Hodgkin ecc.); alla località in cui l’affezione è stata riscontrata per la prima volta o risulta essere particolarmente diffusa o esclusiva (per es., m. di Bornholm); al segno clinico più saliente; all’agente o al momento eziologico fondamentale.
Condizioni patologiche a bassa prevalenza e incidenza. Tuttavia la dimensione numerica di questi due parametri non è precisata in alcun modo nella letteratura scientifica: una legge degli Stati Uniti (Orphan drug act), che ha lo scopo di favorire la ricerca e lo sviluppo di nuove cure per queste m., definisce rara una m. che in termini epidemiologici ha una prevalenza di 1 a 1250 (si tratta nella maggior parte dei casi di m. genetiche). Alcune di esse sono abbastanza conosciute: l’emofilia, la distrofia muscolare, il lupus eritematoso sistemico; altre sono così rare che di ciascuna solo pochissimi casi sono stati descritti nella letteratura scientifica e risultano sconosciute perfino alla gran parte dei medici, quali, per es., la m. di Alagille, una malformazione congenita delle vie biliari; la m. di Cogan, un’infiammazione dei vasi dell’occhio; il leprecaunismo, una m. congenita caratterizzata dall’associazione di malformazioni del viso che danno al neonato l’aspetto di un folletto, con inoltre un difetto dei recettori dell’insulina; la sindrome di Rett, una grave forma di ritardo mentale che colpisce solo le bambine; la m. della maschera kabuki, una complessa malformazione congenita nota solo in Giappone (le fattezze dei pazienti che ne soffrono ricordano quelle della maschera del teatro kabuki).
Le m. rare colpiscono ogni apparato del corpo umano, e quindi ogni specialità della medicina ne annovera tra le proprie patologie un buon numero. La precisa definizione è spesso ostacolata da difficoltà di classificazione: una m. ben conosciuta e studiata può essere ripetutamente sottoclassificata in varianti che raccolgono così pochi pazienti da soddisfare i criteri che definiscono una m. rara. Al contrario, m. rare non ancora bene inquadrate da un punto di vista nosologico potrebbero sfuggire a un adeguato riconoscimento, perché i sintomi somigliano a quelli di altre condizioni cliniche e non sono chiaramente distinti da esse. Infine, la scarsa diffusione di molte m. rare rende spesso difficile il loro riconoscimento e quindi una corretta diagnosi.
Molte m. sono scarsamente diffuse in alcune aree geografiche o in alcune popolazioni e più frequenti in altre, per ragioni legate a fattori genetici, alle condizioni ambientali che influenzano la diffusione di agenti patogeni, alle abitudini di vita. Per es., la talassemia o anemia mediterranea è una m. genetica relativamente frequente nel bacino mediterraneo (molto frequente in Sardegna e nel Sud dell’Italia) e rara negli Stati Uniti, se non tra i discendenti di immigrati italiani o greci; m. infettive o parassitarie come la dengue, la m. di Chagas o la malaria sono endemiche nelle aree tropicali e subtropicali e rarissime in altre parti del mondo; la m. di Gaucher, una m. metabolica ereditaria, ha tre varianti, una delle quali è frequente soprattutto tra gli Ebrei aschenaziti. La frequenza di molte m. rare potrebbe essere erroneamente stimata e, in ogni caso, la raccolta di corretti dati epidemiologici è molto difficile. Per la maggior parte di esse mancano documentazioni precise sulla loro incidenza e prevalenza, perché non esistono sistemi di notificazione dei casi a livello nazionale o internazionale, eccetto la segnalazione tramite pubblicazione nella letteratura scientifica. Quando di una determinata m. rara è stato descritto un certo numero di casi, i nuovi non sono di solito più segnalati e quindi viene a mancare un dato epidemiologico preciso.
Oltre alla difficoltà di condurre studi clinici, sia per la scarsità del numero di pazienti potenzialmente disponibili a partecipare alla ricerca e per la loro dispersione sul territorio, sia per la mancanza, nella quasi totalità di tali m., di registri centralizzati di casi, cioè di banche di dati clinici, gli scarsi finanziamenti per la ricerca, sia di base sia clinica, se l’oggetto degli studi è una m. rara sono il fattore che impedisce di fare progressi nella scoperta delle sue cause e quindi nella messa a punto di una terapia adatta. Se il potenziale mercato di un farmaco non è sufficientemente ampio per ripagare gli investimenti, la linea di ricerca su quel farmaco si interrompe e il progetto muore. Per questo motivo è stata coniata la definizione di farmaco orfano, cioè prodotto che potenzialmente è utile per trattare una m. rara, ma non ha un mercato sufficiente a ripagare le spese del suo sviluppo. Nel 1983, fu approvata dal Parlamento degli Stati Uniti la citata legge Orphan drug act, con cui si assumeva come principio fondamentale la necessità, per svolgere ricerche in quest’area, dell’aiuto dell’industria privata e si stabiliva, quindi, di incentivare l’interesse di quest’ultima. In particolare, veniva accelerata la procedura di registrazione del prodotto, indispensabile per l’immissione in commercio, pur mantenendo le garanzie sulla sicurezza del farmaco. Il Giappone, seguendo l’esempio degli Stati Uniti, a partire dal 1985 ha introdotto norme atte a favorire lo sviluppo di farmaci orfani. In Italia, nel 1992 l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, che si occupa di ricerca in campo biomedico, ha aperto un Centro di ricerche cliniche per le m. rare.
Con tale espressione si indica ogni alterazione dello stato di salute che comporti un’incapacità al lavoro, con l’esclusione delle fattispecie che rientrano nella specifica disciplina sugli infortuni sul lavoro e le m. professionali. La tutela opera nei confronti dei casi che rendono il lavoratore inidoneo allo svolgimento delle proprie mansioni; queste ultime, infatti, sono individuate con riguardo al tipo di prestazione contrattualmente dovuta. La m., infatti, incide in maniera e misura differente sull’abilità al lavoro dell’individuo, in relazione all’attività da svolgere e all’ambiente di lavoro. La m. sospende il rapporto di lavoro; durante la sua assenza, il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto, per il periodo di tempo previsto dalla legge o dai contratti collettivi, e vede inoltre decorrere l’anzianità di servizio. Per quanto concerne il trattamento economico, al lavoratore è dovuta la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalla legge, dalla contrattazione collettiva, ovvero dagli usi o secondo equità (art. 2110 c.c.).
Tra le fattispecie di m. che giustificano l’assenza dal lavoro: l’impossibilità a svolgere la prestazione dovuta derivante dal doversi sottoporre a terapie mediche che non consentono la presenza sul luogo di lavoro; la necessità di effettuare emodialisi; gli interventi di chirurgia necessari per eliminare vizi funzionali; l’alterazione psichica derivante dall’assunzione continuata di bevande alcoliche. Anche la convalescenza deve essere computata al fine di determinare il periodo di assenza per malattia.
Ai lavoratori con qualifica di impiegato sono riconosciuti, ai sensi dell’art. 6, r.d.l. 1825/1924, i seguenti periodi di comporto (periodi durante i quali il datore di lavoro non può validamente esercitare il suo diritto di recedere dal contratto): 3 mesi, per anzianità di servizio non superiore a 10 anni; 6 mesi, per anzianità di servizio superiori. I contratti collettivi contengono, generalmente, periodi superiori, sia per impiegati sia per gli operai. Ciascuna delle parti contrattuali può recedere dal contratto al termine di tale periodo (art. 2118 c.c.). La contrattazione collettiva consente di chiedere, prima della scadenza del termine, un periodo di aspettativa, senza retribuzione e senza decorrenza dell’anzianità di servizio, da aggiungersi al periodo di m.; ma il datore di lavoro non è tenuto a concedere tale prolungamento. Al fine di evitare il superamento del periodo di comporto, la giurisprudenza ritiene che il lavoratore possa chiedere la fruizione delle ferie già maturate; il datore di lavoro non è tenuto a concedere le ferie per tale ragione, motivando tale diniego. È ritenuto inefficace il licenziamento intimato in costanza di comporto.
In linea generale, non è consentito svolgere altra attività lavorativa durante la m., in virtù dell’interesse del datore di lavoro alla guarigione del lavoratore. Se assente per m., il lavoratore deve comunicare tempestivamente il suo stato, con le modalità stabilite dai contratti collettivi, e sottoporsi a visita presso il proprio medico curante, il quale rilascia un certificato, che il lavoratore deve trasmettere in copia al datore di lavoro, indicando il proprio domicilio durante la malattia. Nei casi in cui il lavoratore ha diritto all’indennità di m. da parte dell’INPS, deve inviare copia del certificato anche alla sede dell’Istituto sita nel luogo in cui risiede.
Patologia che si sviluppa a causa della presenza di stimoli nocivi nell’ambiente di lavoro. Possono esserne responsabili molteplici agenti, alla cui azione i lavoratori sono spesso esposti senza un’adeguata informazione. I settori di attività in cui si presentano maggiormente questi rischi sono l’agricoltura, l’edilizia e tutte le lavorazioni industriali che prevedono l’impiego di agenti cancerogeni. Sia nell’industria sia in campo agricolo, infatti, si assiste all’impiego di sostanze chimiche altamente tossiche e dannose per la salute. Altri fattori di rischio sono legati all’organizzazione del lavoro – campo in cui il fattore umano ormai riveste un ruolo marginale – e si possono riassumere in: ambienti di lavoro carenti dal punto di vista igienico; ritmi di lavoro elevati e mansioni ripetitive; scarsa manutenzione degli impianti. A questi vanno aggiunti inoltre i fattori di rischio emergenti, legati principalmente alle molte tipologie di m. professionale proprie del lavoro d’ufficio.
Dal punto di vista legislativo, il d.p.r. 1124/1965 ha introdotto in Italia un’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le m. professionali, facente capo all’INAIL, e un elenco delle m. riconosciute con causa professionale. Questo elenco è stato aggiornato nel 1994; tra le m. specificamente elencate dalla legge, e soggette a revisione ogni due anni, troviamo la silicosi e l’asbestosi. A seguito delle sentenze della Corte costituzionale 179/1988 e 206/1988, devono considerarsi m. professionali sia quelle elencate dalla legge (cosiddette m. tabellate), sia quelle non espressamente indicate come tali (cosiddette m. non tabellate).
Al fine del riconoscimento dell’origine professionale della m., devono ricorrere alcune caratteristiche: la m. deve essere stata contratta a seguito dell’esposizione al rischio specifico determinato dalle lavorazioni assicurate (ai sensi del d.p.r. 1124/1965); deve sussistere un rapporto di causalità diretta; il lavoratore deve essere assicurato; la m. deve essere l’effetto di una progressiva azione cagionata da fattori professionali. In caso di m. professionale, il lavoratore deve trasmettere il relativo certificato medico al datore di lavoro, non oltre 15 giorni dalla manifestazione della m., a pena di decadenza del relativo indennizzo (art. 52, d.p.r. 1124/1965). Il datore di lavoro, deve trasmettere all’INAIL competente, entro 5 giorni, la documentazione relativa alla denuncia di m. inoltrata dal lavoratore.