intenzionalità Nelle filosofie di F. Brentano e di E. Husserl, il carattere per cui un fatto di coscienza è ‘coscienza di’ qualche cosa, vi si riferisce, pur non essendo tale cosa necessariamente reale o esistente. Mentre però Brentano considerava l’i. come il carattere essenziale dei fenomeni psichici, e sulle varie forme di i. fondava la loro classificazione, Husserl, sotto l’influenza di B. Bolzano e G. Frege, sottrasse l’i. all’ambito dell’esperienza psichica portandola in quello della pura validità logico-oggettiva. Il richiamo a Brentano (più che a Husserl) è diventato ricorrente in quasi tutti i filosofi che, nella seconda metà del Novecento, hanno fatto dell’i. il loro oggetto di studio; il valore argomentativo di tale riferimento consiste fondamentalmente nell’indicare una qualità tipica dei fenomeni mentali che rende implausibile tanto il monismo materialista quanto la riduzione del vocabolario della psicologia all’unico linguaggio delle proposizioni della scienza fisica. Nell’ambito della psicologia filosofica l’i. è quella dimensione relazionale per cui ogni fenomeno psichico mette in atto un riferimento ad altro da sé, dimensione evidentemente assente nel mondo puramente fisico, come già rilevava Brentano, che considerava l’i. il contrassegno del mentale.
La questione dell’i. fu inizialmente discussa sul piano linguistico: il primo a proporre delle coordinate linguistiche per l’i. è stato R.M. Chisholm, secondo cui il linguaggio non può fare a meno di ricorrere al ‘mentalese’, in quanto ogni uso di segni presuppone qualche stato intenzionale. Negli anni 1980 l’i. ha ricevuto una rinnovata attenzione da parte di quanti, nell’ambito della filosofia della mente, hanno cercato una via d’uscita dalle pastoie della prevalente teoria dell’identità mente-cervello. In tale prospettiva le teorie dell’i. di maggiore rilievo sono quelle di J.R. Searle e D.C. Dennett. Per Searle, quando l’organismo vivente si rapporta al mondo il suo cervello/mente si dispone necessariamente in certi stati intenzionali, etichettabili come azione, credenza, desiderio, aspettativa ecc. Come modello esplicativo degli stati intenzionali Searle usa la sua teoria degli ‘atti linguistici’. Per Dennett, l’insieme dei fenomeni che vanno sotto il nome di i. è essenzialmente funzionale a una pratica interpretativa – l’intentional stance, l’atteggiamento intenzionale operante nella psicologia del senso comune – basata su credenze, desideri e intenzioni (i tipici stati intenzionali) e applicabile in uguale misura a qualsiasi sistema biologico (umano e animale) e anche ai calcolatori provvisti di software opportuni (per es., quelli che consentono di giocare a scacchi).
Si può infine citare un ulteriore modo di concepire l’i., quello che la vede strettamente connessa alla dimensione culturale in cui l’uomo sviluppa le sue caratteristiche psicologiche. In tale prospettiva, l’i. consente di delineare un progetto di reinterpretazione dell’umano in termini non ‘naturali’, ma ‘culturali’. È quanto si è proposto J. Margolis definendo l’i. nei termini di precise pratiche sociali e di determinate istituzioni culturali che reggono le condotte umane.