Interruzione della gravidanza con espulsione del prodotto del concepimento entro la 22a settimana (196° giorno) di età gestazionale (OMS). Autori anglosassoni abbassano il limite dell’a. alla 20a settimana, epoca in cui il feto può avere capacità di vita autonoma.
Le sue cause si distinguono in materne, fetali e da incompatibilità materno-fetale (condizione fisiopatologica che è alla base della malattia emolitica del neonato). Quelle materne comprendono molte malattie, tra cui il tifo, il colera, la scarlattina, lo scompenso cardiocircolatorio, le nefropatie, le metriti, alcune malattie endocrine, gli stati di malnutrizione, le malformazioni congenite dell’apparato genitale. Le cause fetali consistono nelle malattie degli annessi e nelle alterazioni ovulari. Tutti questi fattori realizzano il momento essenziale dell’a., cioè il distacco dell’uovo dalle pareti uterine, cui seguono le successive fasi (contrazioni uterine, dilatazione del collo ecc.), che conducono all’espulsione del prodotto del concepimento. Clinicamente si distinguono la minaccia d’a., l’a. in atto e l’a. incompleto. La minaccia d’a. comporta emorragia, lievi dolori, scarsa dilatazione del collo e integrità dell’uovo. L’a. in atto è caratterizzato da grave emorragia, dolori intensi, dilatazione dell’orifizio uterino ed espulsione dell’uovo o di parti di esso (a. incompleto). La diagnosi presuppone quella di gravidanza e si completa con i sintomi materni ma, soprattutto, con l’esame del materiale espulso. La complicanza di maggior rilievo dell’a. è l’infezione; la prognosi è condizionata da un’appropriata assistenza. La cura della minaccia d’a. è delicata e va condotta da un ginecologo; consiste nella somministrazione di progestativi e antispastici, e nel riposo assoluto. L’a. in atto richiede la revisione della cavità uterina o raschiamento.
L’interruzione viene generalmente praticata mediante isterosuzione. In anestesia generale o loco-regionale, il prodotto del concepimento viene estratto dall’utero aspirandolo con una sottile cannula introdotta nell’utero stesso. Le complicazioni immediate (lacerazioni della cervice uterina, perforazione dell’utero, metrorragie, evacuazione incompleta) o ritardate (infezioni pelviche, aborti del secondo trimestre e parti pretermine in gravidanze successive) si verificano in non più del 2-5% dei casi e dipendono dall’epoca gestazionale in cui viene effettuato l’intervento. In alternativa alla pratica chirurgica è stata introdotta, per epoche molto precoci della gravidanza, quella farmacologica, basata sull’utilizzo di antiprogestinici (RU 486) associati a prostaglandine.
Nel diritto vigente l’a. è disciplinato dalla l. n. 194/1978, dove però sia nel titolo sia nel testo (con una sola eccezione all’art. 1) il termine a. è sostituito con la perifrasi ‘interruzione volontaria della gravidanza’. La legge regola due forme di a.: la prima ipotesi può avvenire entro i primi 90 giorni della gravidanza, ed è ammessa solo quando la prosecuzione, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica della madre, in relazione o al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche, sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, al quale l’ordinamento riconosce sia la soggettività giuridica (art. 1 l. n. 40/2004), sia il diritto alla vita. La seconda ipotesi ricorre una volta che siano trascorsi più di 90 giorni: in questo caso l’a. può essere praticato esclusivamente quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. La formulazione della legge esclude che si possa configurare nel nostro ordinamento un diritto all’aborto. Un problema attualmente assai dibattuto riguarda la tutela del padre del concepito, cui la l. n. 194/1978 non garantisce né il diritto di partecipare alla decisione né di essere informato della procedura abortiva in corso.
Nel diritto canonico per a. si intende l’uccisione del feto procurato in qualunque modo e in qualunque tempo dal momento del concepimento. È qualificato tra i delitti contro la vita e la libertà umana. Chi procura l’a. ottenendone l’effetto incorre sempre e comunque nella scomunica latae sententiae. Non si configura l’a. in caso di espulsione del feto immaturo.
Per quanto la legge 194 dichiari di tutelare la vita umana ‘sin dal suo inizio’ e non consenta di riconoscere un vero e proprio ‘diritto all’a.’ della donna, tuttavia, l’estrema elasticità delle ipotesi cui è condizionata la possibilità di interrompere la gravidanza – soprattutto in relazione all’ampio concetto di salute psichica – tende a favorire la ‘libertà di abortire’ della donna, in nome del suo diritto alla salute e all’autodeterminazione. Emerge così una sproporzionalità tra il valore assoluto attribuito al bene salute della donna e la relatività del bene vita riconosciuto al concepito. Dalle indagini statistiche e conoscitive risulta, infatti, che le motivazioni eugenetica (fondata su diagnosi anche solo predittive e incerte di anomalia fetale), contraccettiva (figlio non desiderato) e socioeconomica sono le cause più frequenti di a., a prescindere da un’oggettiva gravità delle condizioni di salute della donna. In tal senso, dottrina e giurisprudenza sono ripetutamente intervenute a ribadire: a) che la legge non ha liberalizzato l’a., ma lo ha depenalizzato sulla base di uno stato di necessità costituito dalla tutela della salute della donna, che va pur sempre contemperata con il diritto alla vita del concepito (Corte cost. 35/97); b) che perciò va valorizzata la ‘preferenza per la nascita’, dando maggiore spazio alla prevenzione dell’a., incentivando i consultori familiari nel loro compito di aiuto e sostegno alla maternità; c) che la legge non può essere utilizzata come strumento di selezione eugenetica dei feti, solo perché malati o indesiderati. Specifica rilevanza bioetica hanno anche alcune forme ‘nascoste’ di a., impropriamente definite ‘contraccettive’, consistenti nella somministrazione alla donna di pillole ormonali (minipillola, pillola del giorno dopo, RU 486), dispositivi intrauterini (spirale), iniezioni, impianti sottocute, capaci di intercettare l’embrione e di impedirne l’annidamento in utero (abortivi intercettivi), o di provocarne il distacco dalla parete uterina (contragestativi), in entrambi i casi interrompendo la gravidanza. La diffusione degli abortivi solleva problemi di carattere non solo etico, ma anche giuridico, trattandosi di modalità ‘private’ di a. che sfuggono alle procedure e ai controlli previsti dalla legge 194.