sublime In estetica, concetto elaborato in ambiente neoplatonico tra il 1° e il 2° sec. a.C., allo scopo di definire la proprietà dell’arte di indurre, per le sue connotazioni di mistero e di ineffabilità, uno stato di estasi, e poi ripreso nel 18° e 19° sec. per sottolineare, con varie interpretazioni, la capacità dell’arte, in conflitto con la razionalità, di dare consapevolezza emotiva dell’infinità e della potenza irresistibile della natura. Documento capitale della storia del concetto nell’antichità è il trattato Περὶ ὕψους (lat. De sublimitate) noto come Anonimo del sublime o anche come Pseudo-Longino, composto da un ignoto filologo nei primi decenni del 1° sec. d.C. In esso col nome di ὕψος (letteralmente «altezza»;) è designato in generale il valore per cui un oggetto manifesta la sua ‘eccellenza’ estetica; e poiché l’autore non mira a determinare i caratteri obiettivi che costituiscono la sublimità, cercando piuttosto di mostrare per quali vie si possa innalzare l’animo al senso del s., finisce per attribuire al concetto un contenuto, in certa misura, etico oltre che estetico. Pur iscrivendosi ancora nell’ambito della retorica, il trattato offre dunque spunti che vanno in direzione di un superamento della concezione tecnicistica del bello, spunti che avranno uno sviluppo nell’estetica del Settecento.
Nella Philosophical enquiry into the origin of our ideas of the sublime and beautiful (1757) E. Burke considera fonte di s. in arte tutto ciò che può destare idea di dolore e di pericolo, e indica le ragioni del piacere che si prova di fronte al s. (il «dilettoso orrore») nel trionfo dell’istinto di conservazione di fronte a una distruttività che non incalzi troppo da vicino. Gli elementi di questa problematica sono accolti da I. Kant nelle sue Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen (1764), senza sostanziali alterazioni. Ben diversa la trattazione del concetto nella Kritik der Urteilskraft (1790), dove vengono individuate, secondo categorie già precedentemente elaborate da Kant, due forme del s.: un s. matematico (lo spettacolo della natura come infinità spazio-temporale) e un s. dinamico (irresistibilità e potenza annientante di certi fenomeni naturali, di fronte ai quali emerge la nostra totale impotenza). Il s., lungi dal rimandare a un piacere estetico disinteressato, al libero gioco tra intelletto e immaginazione, evidenzia un conflitto tra sensibilità e ragione, addita la possibilità di un’idea sovrasensibile, permette alla ragione di acquistare consapevolezza di sé non intellettualmente ma emotivamente.
Elaborato dai romantici, il concetto di s. diventa in G.W.F. Hegel l’espressione del contrasto tra ‘infinito’ e ‘finito’, e, in quanto tale, una forma particolare dell’arte, l’arte simbolica. Nella prospettiva di A. Schopenhauer il s. torna a essere esclusiva manifestazione della smisurata potenza della natura: una categoria teoretico-estetica, cioè, senza connessione con la dimensione etica, sovrasensibile, indicata da Kant.