Nella storia delle religioni, manifestazione da parte della divinità di sé stessa, della propria esistenza e natura, dei propri poteri (in tal caso r. può equivalere a epifania, ierofania, teofania), oppure della propria volontà e di alcune verità altrimenti inaccessibili alla mente umana, eventualmente consegnando così a un popolo o a un individuo una dottrina divina. La r. è in tutti i casi un atto sovrano della divinità, anche quando è richiesta o sollecitata, e perciò presuppone una divinità personale.
La r. di dottrine, di comandamenti etici o di norme rituali è caratteristica di un tipo particolare di religione, precisamente delle religioni fondate che si oppongono alla religione tradizionale dell’ambiente in cui sorgono. Mentre nelle religioni tradizionali la verità dei miti, la correttezza dei riti e delle norme di condotta trovano la propria garanzia nel fatto di esser tramandati e osservati da tempi immemorabili, una religione nuova ha bisogno di una garanzia e sanzione soprannaturali: perciò Mosè, il Buddha, Maometto, e anche gli iniziatori di religioni minori o di semplici sette, fondano i propri insegnamenti su r.; quando tali insegnamenti trovano forme scritte, si tratta di scritture sacre.
Nel cristianesimo il termine r. indica l’azione soprannaturale per cui Dio parla all’uomo, manifestando, circa la sua persona e i suoi disegni, verità difficilmente o per nulla conoscibili con la sola ragione. La teologia cattolica considera il fatto che altre religioni (vedismo, persismo, islamismo, culti misteriosofici ecc.) abbiano affermato o affermino di possedere un patrimonio, più o meno vasto, di verità dovute a comunicazioni dirette o indirette della divinità, come una profonda esigenza dello spirito umano a raggiungere nella «parola di Dio» la suprema certezza, e, nello stesso tempo, pur ammettendo al di fuori del cristianesimo la possibilità e l’esistenza di elementi di vera religiosità, rivendica alla r. cristiana il carattere di unicità, la considera un fatto storico e offre gli elementi per discernere, nella storia religiosa dell’umanità, la reale manifestazione esterna di Dio da ogni altra esperienza inferiore dell’animo umano nel piano religioso.
La r. è uno dei motivi fondamentali della teologia biblica: nel Vecchio Testamento Yahweh è il «Dio nascosto» (Is. 45, 15), la cui maestà rimane velata anche nelle teofanie con le figure più rappresentative della storia ebraica, quali Mosé, Elia, Isaia; i suoi disegni non possono essere conosciuti se non in quanto egli li manifesta. Nonostante alcune espressioni antropomorfiche, ogni apparizione di Yahweh è circondata da un senso di mistero; per lo più i suoi ordini sono comunicati all’uomo per mezzo di angeli oppure in visioni o in sogni. Tutta la creazione è una r. della sua potenza; certi elementi, come il vento, il tuono, il terremoto e soprattutto il fuoco, sono considerati segni precursori o veicoli della sua presenza e ne precedono o accompagnano la manifestazione. Yahweh, peraltro, si rivela principalmente attraverso la «parola»: la tōrāh è considerata, più che un complesso di disposizioni legislative, come parola pronunciata direttamente da Dio. Soprattutto ai profeti, uomini della «parola», Dio si rivela e per mezzo di essi parla a Israele e alle genti. Nell’ebraismo la r. divina attraverso la parola non si limita a quanto è scritto nella tōrāh, ma si estende a tutta la tradizione tramandata oralmente dai tempi di Mosè ai profeti, e quindi ai maestri interpreti della legge.
Nel Nuovo Testamento oggetto della r. è Dio stesso, che nessuno ha mai veduto e che, rivelando sé stesso in Gesù Cristo e nel suo destino di morte e risurrezione per i peccati dell’umanità, manifesta il suo amore e la sua «giustizia»; è il «Vangelo di Dio», il «mistero di Dio». Dio infatti, pur essendosi fatto conoscere a tutti attraverso la natura, si rivela ora in forma nuova e misteriosa: ciò si compie soprattutto nella «Rivelazione del Figlio» nel quale si giunge alla «completa conoscenza del mistero di Dio», l’unione cioè di tutti gli uomini nel Cristo. La r. del Vangelo, pur non potendo essere compresa e accettata se non per opera dello Spirito, in un atto interiore di fede e di amore, ha per oggetto particolari verità che sono state manifestate in primo luogo agli apostoli e per loro mezzo devono essere predicate a tutti gli uomini. Presso i Padri greci, sotto l’influsso della filosofia neoplatonica, particolarmente in Giustino, Atenagora, Clemente Alessandrino, si afferma spesso la presenza del Verbo presso tutti i popoli: Dio non ha parlato soltanto agli Ebrei per mezzo dei profeti e del Cristo, ma anche attraverso i filosofi e i poeti del paganesimo; si tratta però soltanto di un «seme di verità» che non esclude la derivazione delle dottrine buone dei Greci dalla r. soprannaturale fatta a Mosè e ai profeti del giudaismo.
Se nell’Alto Medioevo le riflessioni sulla r., legate all’esegesi della storia sacra, rimangono prevalentemente connesse alle prospettive patristiche senza formulazioni sistematiche, nella Scolastica, per l’influsso esercitato dall’aristotelismo, il problema della r. viene approfondito attraverso lo studio delle sue cause (finale: visione dell’essenza divina; efficiente principale: Dio autore dell’ordine soprannaturale, ed efficiente strumentale: il profeta, Cristo, il magistero ecclesiastico; formale: la locuzione divina; materiale: il genere umano). Viene posto l’accento sull’oggetto della r. con una netta distinzione tra le verità di ragione e le verità rivelate, i concetti di misteri e di dogma, la r. naturale e la r. soprannaturale, r. quoad substantiam e quoad modum, sua possibilità, convenienza e conoscibilità ecc. Lo studio delle verità rivelate diviene oggetto della ‘scienza’ teologica.
L’affermazione dell’origine soprannaturale della r. conduce i primi protestanti a concepirla come una comunicazione diretta dello Spirito Santo a ogni fedele, a escludere ogni intervento della Chiesa nella definizione dei dogmi, a parlare di sublimazione della natura in comunione diretta con la divinità.
Nella filosofia della religione e soprattutto nel protestantesimo liberale il termine r. assume un significato totalmente opposto a quello che ha nella dottrina cattolica. In una concezione immanentistica ed evoluzionistica, in cui viene a mancare ogni distinzione tra ratio humana e ratio divina, i dogmi non sono verità ‘piovute dal cielo’, ma interpretazioni umane di fatti religiosi; una locutio externa di Dio all’uomo non è che pura metafora: la r. è il puro sentimento della presenza di Dio in noi, indipendentemente da tradizione o insegnamento ecclesiastico. All’immanentismo e al sentimentalismo teologico di F.D.E. Schleiermacher e di A. Ritschl si oppone la teologia di K. Barth che, richiamandosi al principio kierkegaardiano dell’«infinita distanza qualitativa del tempo e dell’eternità» e portando all’esasperazione alcune tesi calvinistiche, afferma la netta dualità di Dio e del mondo e concepisce la r. positiva come «il canale vuoto nel quale in altri tempi e in altre circostanze e per altri uomini passò l’acqua vivente della fede».