stregoneria Attività delle streghe o degli stregoni. In senso concreto, operazione magica spesso diretta con l’intenzione di danneggiare qualcuno.
Secondo la mitologia popolare, streghe e stregoni sono esseri soprannaturali nocivi o persone reali cui si attribuisce un’attività di magia nera e che dirigono i loro poteri eccezionali a danno degli altri. In alcune società, invece, lo stregone è un uomo al quale sono attribuite facoltà straordinarie, di cui si serve per svolgere un’attività di magia bianca.
La credenza nella s. e nelle pratiche a questa connesse sono diffuse in numerose società. Si tratta di un complesso insieme di credenze, pratiche, sentimenti, stati emozionali e mentali, che proprio per tale carattere polimorfo è fenomeno di difficile analisi e comprensione.
Alla distinzione tra magia bianca e magia nera (➔ magia), fondata solo sul criterio dell’utilità sociale e ormai ritenuta priva di qualsiasi capacità esplicativa, gli studi antropologici, a partire dallo scritto Witchcraft, oracles and magic among the Azande di E. Evans-Pritchard (1937), hanno sostituito quella tra s. e fattucchieria. Nel primo caso, le credenze sulla s. tendono a disegnare la figura di una persona dotata di innate e non consapevoli capacità di procurare il male ai propri simili. Una strega può dunque essere riconosciuta come tale solo a posteriori, dopo la sua morte e previo accertamento della presenza o meno, nel suo corpo, di determinate caratteristiche che ne confermino la natura. Nel secondo caso, invece, si è di fronte a capacità tecniche e rituali, messe in atto sulla base di specifiche competenze da individui (stregoni) riconosciuti come operatori magici e come tali adoperati dalla comunità.
Anche l’utile distinzione proposta da Evans-Pritchard, però, schematizzava eccessivamente la complessità delle credenze nella stregoneria. Pur ponendosi per primo il fondamentale obiettivo di comprendere la s. come sistema coerente di credenze logicamente organizzate, lo studio di Evans-Pritchard inaugurò una serie di analisi comparative tese, soprattutto in Africa, a individuare in ogni contesto indagato la pertinenza delle distinzioni categoriali accertate tra gli Zande. Una simile tendenza, pur forzando spesso i dati e condizionando la visione della s., si fondava, d’altro canto, sull’idea fondamentale che la s. in quanto sistema di credenze è connessa a una vasta serie di altre idee: la concezione dell’individuo, la costruzione culturale delle identità sessuali, delle forze emozionali e fisiche che strutturano le identità individuali e collettive e che forniscono schemi interpretativi dell’agire umano.
Questa dimensione cognitiva delle credenze nella s., ritenuta in seguito importante dagli studiosi, fu invece messa in secondo piano dalle ricerche svolte tra il 1950 e il 1970, quando la s. fu letta, all’interno degli specifici contesti sociali nei quali operava, come meccanismo di regolamentazione dei conflitti. Prescindendo dal carattere razionale o meno delle credenze, ci si poneva esclusivamente il problema delle relazioni sociali che le veicolavano. Per quanto gli antropologi anglosassoni tendessero a negare l’esistenza, in Europa, di una connessione precisa tra s. e relazioni sociali conflittuali, questa letteratura funzionalista finì per influenzare una parte delle ricerche storiografiche sulla s. che ne mostrò, anche per l’Europa d’epoca moderna, la capacità di agire da meccanismo regolatore dei conflitti sociali (M. Douglas, Witchcraft, 1970).
La s., in realtà, non può essere ridotta né alla funzione sociale da essa svolta (peraltro molto importante in numerosi contesti extraeuropei ed europei), né ai sistemi, più o meno coerenti e coerentemente formalizzati, di idee che la rendono significativa. La s. fa riferimento a specifiche situazioni affettive ed emozionali che coinvolgono profondamente gli individui e che hanno spesso, come posta in gioco, la morte dei protagonisti delle relazioni. In questo senso ogni studio antropologico sulla s. tende a essere anche una ricerca di antropologia delle condizioni di malessere e di sofferenza. Le pratiche stregoniche fondano una serie di esperienze individuali e di gruppo che finiscono per configurare un orizzonte discorsivo estremamente efficace, anche in contesti altamente industrializzati, nel quale parlare, secondo modi di dire e di fare altamente codificati, di problemi come il disagio mentale e affettivo, il susseguirsi delle sventure, l’aggressività e l’emozionalità. In questo senso lavori come Les morts, la mort e les sorts. La sorcellerie dans le Bocage di J. Favret-Saada (1977) hanno rivelato dimensioni fondamentali della s., prima poco indagate, rendendo possibile comprenderne il permanere e l’efficacia nelle società europee contemporanee.
La s. intesa come magia nera, ossia come aggressione mistica con o senza l’uso di strumenti magici, comprende un assortimento assai eterogeneo di pratiche, che rispondono a tre principi fondamentali: il principio della trasmissione per contagio (cose che sono state in contatto continuano a influenzarsi reciprocamente anche a distanza), quello della similitudine (il simile agisce sul simile) e il principio del potere magico delle parole (uso di formule magiche). Il principio della similitudine, secondo cui producendo un effetto su un determinato oggetto si determinerà un effetto analogo sull’oggetto che esso rappresenta, è esemplificato da uno dei riti più caratteristici della s., che consiste nel procurare dolore o la morte di un nemico trafiggendo o bruciando la sua effige, per es. una bambola di cera, oppure frammenti di un suo capo di vestiario.
Diffusa presso le popolazioni africane è la credenza che lo stregone uccida lentamente e gradualmente le sue vittime, nutrendosi del loro corpo e del loro sangue, senza che esse se ne accorgano e che si notino segni o ferite su di loro. Queste e molte altre pratiche sono oggetto di un timore che si accentua nei confronti di stregoni e fattucchieri appartenenti a popolazioni diverse dalla propria, dai quali si pensa che sia pressoché impossibile difendersi. L’ostilità nei confronti di una popolazione confinante diversa per lingua e cultura, e la paura che essa incute, portano infatti spesso ad attribuirle pratiche di s., che essa, a sua volta, attribuirà a un’altra. Nella contemporaneità può succedere che le categorie indigene connesse alla s. servano a elaborare dispositivi narrativi per denunciare la forza e la violenza del potere costituito a livello locale o nazionale (lo Stato, per es. che diventa esso stesso stregone) o per dar conto delle logiche prevaricanti del libero mercato (colui che si arricchisce molto e troppo velocemente può essere accusato di s.).
La credenza in persone dotate di facoltà straordinarie, che possono impiegare ai danni del prossimo, è attestata in varie culture preclassiche (Mesopotamia, Egitto, Israele), come nel mondo greco e in quello romano. Essa non fu sradicata completamente dal cristianesimo che, d’altra parte, ereditava anche le idee, d’origine mitologica, relative a esseri nocivi soprannaturali. In sede teorica si distingueva nettamente tra gli esseri umani dediti alla magia nera (malefici, maleficae), che mediante il malocchio, sortilegi vari, filtri ecc. potevano danneggiare il prossimo, e le strigae, esseri soprannaturali che volavano per l’aria, erano capaci di ogni sorta di metamorfosi, rapivano e mangiavano i bambini ecc. A cominciare dal 12° sec. si hanno prove del fatto che nelle credenze e idee dell’epoca si stava operando una graduale fusione tra le due categorie di esseri nocivi; si verificava cioè, in fondo, un ritorno a concetti che si ritrovano presso diversi popoli primitivi, che non distinguono chiaramente, o non distinguono affatto, tra gli esseri umani dediti alla magia nera e gli esseri demoniaci di cui si servono e in cui esse stesse possono trasformarsi. Lentamente prendeva il sopravvento l’idea che certe persone, in particolare donne (forse in conseguenza della comune convinzione dell’inferiorità della donna, intesa come creatura maggiormente sottomessa alle passioni e seduttrice), fossero in contatto con il diavolo, il quale conferiva loro capacità nocive soprannaturali.
La prima presa di posizione ufficiale della Chiesa contro le streghe risale al 1233, data della bolla Vox in Rama di Gregorio IX; nel 1258 si ha il primo processo contro s., e pare che nel 1275, a Tolosa, sia stata per la prima volta bruciata sul rogo una strega. La base giuridica di questi processi è stata elaborata dalla filosofia scolastica: poiché l’attività delle streghe si fonda su un patto con il diavolo, essa implica un’apostasia e perciò cade sotto la competenza dell’Inquisizione. Ma il periodo classico dei processi contro le streghe si estende tra il 15° e la prima metà del 17° secolo. Si calcola che complessivamente non meno di un milione di persone siano rimaste vittime della credenza nella s., favorita dalle autorità ecclesiastiche, da personalità religiose sia cattoliche sia protestanti, dagli eruditi come dal fanatismo popolare. I protestanti, in parte per la particolare attenzione che dedicavano all’Antico Testamento, in parte perché anche il loro pensiero si fondava sulla scolastica, accettavano in pieno le idee relative al diavolo e alle streghe, e quasi un terzo delle vittime di processi furono bruciate in paesi protestanti. L’Italia fu tra i paesi meno funestati da questi processi, se si prescinde dalla Valtellina, dove la maggior parte di essi ebbe luogo.
Tra le opere che giustificarono e anzi spronarono la persecuzione delle presunte streghe restano memorabili il Formicarius di J. Nider (1440) e, soprattutto, in seguito alla bolla Summis desiderantes affectibus promulgata da Innocenzo VIII nel 1484, il Malleus maleficarum dei domenicani H. Institoris e J. Sprenger (1486). Le prime voci che nel 16° sec. si alzarono contro il fanatismo si scontrarono con la severa opposizione dei sostenitori dei processi. J. Bodin chiese la condanna al rogo di J. Weyer che, con il De praestigiis daemonum (1563), aveva sistematicamente contestato, sul piano medico, giuridico e religioso, le tesi del Malleus; il volume Discovery of witchcraft di R. Scott (1584) fu bruciato sul rogo. Con l’andar del tempo, tuttavia, quelle voci diventarono sempre più frequenti e insistenti, sia tra i protestanti sia tra i cattolici. Ma ancora nel 17° sec. il problema era dibattuto, mentre continuavano i processi e le condanne di presunte streghe. La lunga sopravvivenza dei processi contro le streghe, fino a qualche caso sporadico (Messico) nell’Ottocento, dipendeva anche dalla mancata unificazione del diritto in molti paesi feudali, dove singole legislazioni locali, dettate dai signorotti, erano in ritardo rispetto ad altre. Così, mentre in Prussia, che arrivò relativamente presto a quell’unificazione, l’ultima condanna di streghe è del 1728, in Baviera, dove permanevano condizioni giuridiche più arretrate, ancora nel 1775 fu bruciata una strega. Date ancora più recenti si hanno per Siviglia (1781) e per Poznań (1793). Scomparsa dalla cultura ufficiale e dalla giurisdizione, la credenza nelle streghe sopravvive tuttora presso alcune popolazioni rurali d’Europa.