In diritto civile, nonostante i riferimenti legislativi alla nozione, manca una definizione puntuale del fenomeno per ognuna delle fattispecie in cui ricorre. In sede di interpretazione si distingue tra buona fede in senso oggettivo e buona fede in senso soggettivo. La buona fede in senso oggettivo consiste in un canone fondamentale di correttezza, che deve ispirare la condotta delle parti nel rapporto di obbligazione reciproca (così, il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza, art. 1175 c.c.; il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, art. 1375 c.c., e così via), e si esplica in un obbligo di lealtà (che vieta di suscitare consapevolmente falsi affidamenti e di contestare ragionevoli affidamenti della controparte) e in un obbligo di salvaguardia (che impone di preservare l’interesse della controparte fintantoché ciò non importi un apprezzabile sacrificio). La buona fede in senso soggettivo consiste invece nello stato psicologico di chi ignora di ledere l’altrui diritto. Se ne trova una definizione in tema di possesso (è possessore di buona fede chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto: art. 1147 c.c.). La legge accorda una speciale tutela a chi versi in buona fede. In via generale essa è presunta: l’onere della prova incombe su chi la contesta (è però esclusa in caso di colpa grave). È incerto se la presunzione di buona fede operi al di fuori della materia possessoria (v. Possesso).
La “partecipazione” all’acquisto del coniuge non acquirente al vaglio delle Sezioni Unite di Arianna Scacchi