Termine usato nel 17° sec. come equivalente di pittorico e opposto di scultoreo (M. Boschini, 1664); è entrato nella terminologia critica nell’accezione elaborata dai teorici inglesi settecenteschi come categoria di gusto, in riferimento alla raffigurazione di una natura selvaggia, caratterizzata dalla presenza di rovine. In tale contesto il carattere p. è attribuito a un tipo di scenario naturale libero e fantasioso, ispirato ai paesaggi di S. Rosa, C. Lorrain e N. Poussin, e così ricostruito nei giardini all’inglese. Una prima caratterizzazione estetica del p. è in W. Gilpin (1724-1804) che ne identifica il carattere peculiare nell’effetto tattile di ‘ruvidezza’ suggerito dalla vista di oggetti naturali selvaggi e irregolari: dall’albero divelto alle montagne abrupte, alle rovine (Observations relative chiefly to picturesque beauty on several parts of Great Britain, 1782-1800). Come composizione libera e varia, dallo stile ricco di contrasti, distinto sia dalla regolarità del ‘bello’ che dall’infinità del ‘sublime’, considerato anche in relazione all’architettura, al giardino, alla musica, è il concetto di p. in U. Price (1747-1829), in An essay on the picturesque (1794), richiamando la sensibilità cromatica della scuola veneziana, dei paesaggisti del Seicento, di Rubens e Rembrandt. In chiave sensista, P. Knight (1805) identifica il p. come qualità precipua della bellezza visiva, ottenuta con un uso fortemente pittorico di luci e colori. Le concezioni settecentesche del p. influenzarono J. Constable e W. Turner, nonché il paesaggismo romantico del primo Ottocento.