Poeta e filologo greco (310 circa - 240 a. C.), il più tipico rappresentante dell'alessandrinismo. Nato a Cirene, si vantava di discendere dall'antico Batto (onde fu detto Battìade). È congettura mal fondata che C. studiasse ad Atene alla scuola del peripatetico Prassifane. Maestro di scuola ad Eleusi, sobborgo di Alessandria, scrisse in questo periodo giovanile la maggior parte degli Epigrammi (ne restano 63, quasi tutti nell'Antologia Palatina), che hanno per motivo fondamentale la povertà e l'amore. Dopo il 283 a. C. il poeta fu chiamato da Tolomeo II Filadelfo ad Alessandria, dove lavorò alla Biblioteca, divenendo presto grammatico famoso; non fu mai direttore della Biblioteca (come si è creduto da molti), ma fu sempre grato al Filadelfo, anzi si può dire che in C., più d'ogni altro alessandrino, si può vedere l'aspetto di poeta ufficiale della corte. Soprattutto gli offrono materia di canto gli avvenimenti privati della dinastia regnante, e questo carattere di poesia cortigiana e politica ci aiuta a comprendere il significato degli Inni, a noi pervenuti in numero di sei (A Zeus, Ad Apollo, Ad Artemide, A Delo, Ai lavacri di Pallade, A Demetra), tutti probabilmente del periodo tra il 280 e il 270. Tranne gli ultimi due, scherzose imitazioni di cerimonie del culto, in dialetto dorico, gli altri sono sul tipo degli Inni omerici, in dialetto ionico; in essi la figura del dio è generalmente associata o mescolata con quella del sovrano, nello spirito dei nuovi culti dinastici introdotti dai Tolomei sull'esempio egiziano. Nello stesso periodo 280-270 cade la composizione dell'opera maggiore di C., gli Aitia (Αἴτια, "Origini"), un'ampia opera in metro elegiaco, in 4 libri (circa 4000 versi), che trattava le origini di determinate feste e costumanze greche, ma di cui abbiamo solo frammenti. Con la composizione degli Aitia coincide la famosa polemica con Apollonio Rodio, il suo discepolo, che nelle Argonautiche, di cui aveva già dato qualche saggio, tentava animosamente le vie dell'epopea. C., secondo la tradizione, sfogò il suo rancore contro di lui in un poemetto, l'Ibis, per noi perduto; ma il confronto con l'Ibis di Ovidio, contenente allusioni di storia ellenistica riferibili alla fine del sec. 3º a. C., fa sorgere il dubbio che l'Ibis greca, se quella di Ovidio ne dà un'immagine fedele, sia opera di un imitatore di C. di lui un poco più recente. Certo C. tenne a confermare contro Apollonio e i suoi seguaci i principî della sua arte, che ricerca nuove vie in leggende modeste, brevi, squisitamente ricercate. Dalla polemica con Apollonio dipende anche, secondo la tradizione, l'Ècale, che poteva meglio che gli Aitia mostrare in quali limiti o in quale senso C. intendeva potesse ancora coltivarsi l'epopea. L'Ècale (῾Eκάλη), di cui abbiamo qualche frammento, è un poemetto di poche centinaia di esametri, un epillio, su un episodio del ciclo di Teseo, cioè l'ospitalità che Teseo prima della lotta col toro di Maratona trovò presso la vecchia Ècale. Le delicate pitture dell'Ècale ci richiamano a un'altra opera di C., i Giambi, a noi nota per qualche frammento, composta verso il 270; in essa C. prendeva da Ipponatte le movenze popolari, il dialetto ionico e il metro coliambo, cercando di dare a questi elementi un aspetto più garbato, più adatto ai nuovi gusti letterarî, e narrando alla buona storielle, favole, "moralità". Sul contenuto di tutte queste opere siamo ora meglio informati per la scoperta delle cosiddette Diegèseis (Διηγήσεις), specie di riassunti dei singoli componimenti, contenute in un papiro di Tebtunis (1934). Negli ultimi anni della sua vita, C. dovette dedicarsi principalmente alla filologia, pur non rinunziando alla poesia, come prova l'elegia La chioma di Berenice (giuntaci a frammenti e nella traduzione di Catullo) da lui scritta dopo che l'astronomo Conone ebbe dichiarato di avere scoperto in cielo, trasformato in costellazione (la Chioma di Berenice), il ricciolo che la regina Berenice aveva consacrato per la salvezza del marito Tolomeo III Evergete. Le opere filologiche di C. sono tutte perdute. La principale di esse era i Quadri (Πίνακες), in 120 libri, vasta rassegna degli scrittori greci e delle loro opere, fondata sull'ampio materiale che C. aveva raccolto e catalogato nella biblioteca di Alessandria. Agli studî di critica letteraria apparteneva anche lo scritto A Prassifane. Altre opere appartenevano al genere della glossografia: studio di parole rare attinte ai dialetti non letterarî (tali le 'Εϑνικαί ὀνομασίαι, sulle diverse denominazioni dei venti, dei pesci, dei mesi, ecc.). Negli 'Υπομνήματα si raccoglievano le curiosità della storia del mito, dell'arte, e della geografia. C. esercitò grande influenza sulla letteratura del suo tempo e dei secoli successivi; anche sulla letteratura latina, specialmente dei poetae novi e dell'età augustea. Egli ebbe il merito di interpretare le inclinazioni e i gusti della sua età; ma la sua fisionomia poetica è difficile a cogliersi e il suo valore è variamente giudicato. La sua poesia non aveva calore di sentimento e di fantasia, ma piuttosto grazia, garbo fine e sottile, eleganza, arguzia.