Poeta latino (n. presso Mantova, ad Andes, forse l'od. Pietole, 70 a. C. - m. Brindisi 19 a. C.). Per la vastità della fama e l'influsso esercitato sulla cultura latina e occidentale, è il principe dei poeti di Roma. Era di una famiglia di agricoltori, probabilmente non troppo modesta (come invece disse la tradizione); fu infatti avviato presto agli studî, dapprima a Cremona, poi a Milano, centro culturale della Cisalpina. Fra il 55 e il 50 venne a Roma, dove sembra che studiasse eloquenza alla scuola di Elpidio, maestro di grande reputazione, ma il suo scarso interesse per questi studî e le condizioni politiche particolarmente gravi di quel tempo (guerra civile tra Cesare e Pompeo, e conseguente dittatura di Cesare) lo trattennero dall'intraprendere il corso degli onori. Già allora, molto probabilmente, prese a esercitarsi nella poesia e ben presto, seguendo la più intima vocazione e attratto dal fascino di Lucrezio (il cui poema era apparso da non molti anni), si dedicò alla meditazione filosofica. Maturò così in V. una sincera adesione all'epicureismo, e per addottrinarsi meglio in quella filosofia si recò a Napoli (dove fiorivano le scuole di Sirone e di Filodemo), nel 45, poco prima che esplodesse in Roma, con l'uccisione di Cesare, la nuova gravissima crisi politica. Al soggiorno napoletano V. rimase sempre assai affezionato, e a Napoli trascorse gran parte della sua vita, anche quando aveva ormai abbandonato la stretta fede epicurea. Dopo quel primo soggiorno napoletano, V., tornato nei suoi poderi mantovani, vi ritrovava concretato l'ideale dell'hortus epicureo, l'angolo appartato dalle tempeste della vita, ove poter meditare con serena tranquillità. E la campagna fu per lui la massima fonte di ispirazione poetica; sensibilissimo alle bellezze e ai significati spirituali del paesaggio e della quiete dei campi, scrisse le Bucoliche, l'opera dalla quale venne improvvisamente innalzato alla fama. Frattanto un grande sommovimento politico era in corso nell'Impero: dopo Filippi, i triunviri ordinarono confische di terre a favore dei loro veterani, e Mantova, vicina a Cremona, punita per aver parteggiato per gli sconfitti, subì la sorte di questa città: così V. perdette a beneficio dei veterani il podere avito. Soltanto grazie all'intervento di Ottaviano, al quale era ormai vicino tramite potenti amicizie come quelle di Alfeno Varo, Cornelio Gallo e Asinio Pollione, poté tornare in possesso della sua terra; sennonché, alcuni anni dopo, Alfeno Varo, incaricato di una nuova spartizione delle terre ai veterani, non seppe o non volle aiutarlo col suo intervento presso il principe, e V. perse definitivamente il podere. L'amarissima esperienza trovò profonda eco nella sua anima, e si tradusse nella poesia; non solo nelle Bucoliche, la cui composizione si estese lungo questi anni (furono finite e pubblicate a Roma, dove V. venne, definitivamente esule da Andes), ma anche nelle Georgiche e, in generale, in tutta la sua opera. Lontano da Andes, nei nuovi soggiorni romani e napoletani nacquero le Georgiche, fra il 37 e il 30, compiute proprio mentre Ottaviano conquistava l'Egitto e sistemava l'Oriente. Ed è in questa atmosfera di trionfo che fu concepita la maggiore opera di V., l'Eneide, cui il poeta attese tra il 29 e l'anno della morte, con un decennio di lavoro nutrito di grandi studî filosofici, storici, antiquarî, letterarî, nei quali maturò definitivamente la sua concezione dell'esistenza, della storia umana, della romanità. Al suo maggior poema, però, V. non poté dare l'ultima mano. Nel 19 partì per la Grecia e l'Oriente, dove intendeva raccogliere notizie che gli servissero per un'ultima generale rielaborazione dell'Eneide; ma, ammalatosi durante il viaggio di ritorno, giunto a Brindisi morì. Aveva dato disposizioni perché il poema non perfetto fosse dato alle fiamme, ma la volontà di Augusto prevalse e l'Eneide venne pubblicata a cura di Vario e Tucca, fedeli amici del poeta. V. fu sepolto a Napoli, sulla via di Pozzuoli, nei luoghi che in vita aveva avuto più cari. Assai discussa è la paternità virgiliana delle composizioni raccolte sotto il titolo convenzionale di Appendix Vergiliana (v. appendix). È prudente perciò prescinderne nel ricostruire la vita e la formazione di V.; oggi si tende a vedere nella composita raccolta il frutto di attribuzioni erronee e di volontarie falsificazioni. ▭ L'opera che dette la fama a V. e nella quale si dispiega per la prima volta già matura e potente la sua poesia, sono le Bucoliche (v.). Queste singolari composizioni dimostrano già nell'artista appena trentenne una straordinaria capacità di creare forme nuove, pur seguendo tutti i dettami della tradizione letteraria. Nelle Bucoliche sono trasfigurati in linguaggio poetico i precetti di vita proprî della filosofia epicurea ("vivi appartato", "vivi in segreto"), che spinsero il poeta a evadere dalla realtà dolorosa della vita sociale in un mondo individualistico, privo di bisogni e ambizioni, quale appunto quello dei suoi pastori. La moda della poesia pastorale di modello greco già preesisteva in Roma: ma per V. non era più questione di abilità o di originalità puramente formale nell'imitare l'inimitabile modello teocriteo, bensì di costruire un vero e proprio mondo fantastico personale, che rispecchiasse le sue interiori esperienze e le sue esigenze morali, vissuto con intensità, costruito nell'animo, non ricevuto né imitato. E vibra nelle Bucoliche l'eco di quel mondo esterno di cui il poeta, che lo soffriva intimamente, intendeva liberarsi; e a temi "realistici", come la spoliazione dei campi a favore dei veterani, si ispirano alcuni tra i più nobili versi delle Bucoliche. È già presente in queste la tendenza di V. a trasporre sul piano del racconto fantastico, in un tempo remoto, i sentimenti e le angustie del suo tempo e di sé stesso, che poi riemergerà potente nell'Eneide. L'atteggiamento della sensibilità virgiliana nelle Bucoliche non è drammatico; ma pur nell'eleganza del gioco pastorale, nella gentile musicalità dei versi perfetti, si fa strada un profondo sentimento tra elegiaco e virile del soffrire umano, delle sue dimensioni cosmiche, dei legami profondi che uniscono in armonia nascosta l'uomo nel suo vivere e sentire all'universa natura. Che qui si presenta ancora esteriormente come la natura dell'idillio teocriteo, purissimo mito artistico; se non che spesso anche questo limite formale si spezza e in versi di ampio respiro si delinea quel maestoso senso panico che sarà poi caratteristico delle Georgiche, e accompagnerà il dolente epos di Enea. La vena poetica "bucolica" (non per i suoi esteriori riferimenti alla vita dei pastori, ma per il suo vero significato poetico di senso del paesaggio naturale, in cui vive immerso l'uomo) sarà sempre una costante della poesia virgiliana. ▭ Ancora dalla campagna, ma ora sentita non più tanto come paesaggio e stato d'animo, quanto come la Madre Terra, fecondata dalle fatiche umane, nacquero le Georgiche. L'intendimento esteriore era didascalico; le Georgiche sono un poema complesso e organico, che esalta e descrive ogni aspetto dell'agricoltura e dell'amore per la terra, la coltivazione dei campi, la cultura degli alberi e particolarmente della vite, l'allevamento del bestiame, la cultura delle api. Sappiamo dal poeta stesso che l'opera gli fu suggerita e quasi imposta da Mecenate, nel clima dell'illuminata restaurazione augustea dei tradizionali valori italici; ma naturalmente il più profondo e vero suggerimento nasceva nell'anima di V. stesso, dal suo genio poetico e dalla sua storia spirituale, dalla comprensione immediata che egli ebbe dei bisogni, delle aspirazioni e delle tendenze più vive della sua epoca. In gioventù V. aveva nutrito grande ammirazione per la concezione scientifica della natura di Lucrezio; ma ora, senza dimenticare l'esperienza lucreziana, fu indotto a cantare la realtà naturale dal punto di vista delle umili cose della vita e del lavoro umano: continuava a considerare impresa sublime il perlustrare spregiudicatamente gli aspetti della natura, ma accettava con religiosità anche il mistero, cantando gli idoli dell'immaginazione e della credenza popolare. L'epicureismo è superato in una nuova e più complessa sensibilità che nasce dalla comprensione per l'uomo, le sue passioni, e i suoi doveri: è una sensibilità più umile nel rispetto delle tradizioni che sostengono le fatiche dei campi, e insieme più superba, perché quelle fatiche assumono il carattere di un epos, l'oscuro epos del tenace contadino. Grande finisce così per essere il distacco dal mondo poetico delle Bucoliche; l'idea culminante è sempre quella della pace, ma non più l'egoistica pace epicurea, cercata nel rifugio di una mitica Arcadia, bensì la pace operosa, realizzata fra gli uomini, consacrata dall'osservanza delle consuetudini, delle leggi, delle istituzioni civili. Il mondo irreale e musicale delle Bucoliche si allontana per cedere il posto a un più immediato senso delle cose, a una severa poesia dell'etica umana. La concezione virgiliana della vita è ormai nelle Georgiche dominata dal senso del dolore; mali di ogni sorta, difficoltà, sventure incombono sugli infelici mortali; nulla si ottiene dalla terra senza sudore e senza fatica, le forze misteriose della natura minacciano d'ora in ora la vita e le opere, piombano su animali, seminati, piante, raccolti e sovvertono tutto, costringendo l'uomo a riprendere ogni volta pazientemente l'opera sconvolta. Ma il poeta ha scoperto il senso provvidenziale della sofferenza e del dolore inteso come redenzione morale, come condizione indispensabile per creare qualcosa di grande; il dolore come mezzo per dare valore e dignità alla vita. Il lavoro vincendo le avversità incentiva l'agricoltura, fondamento primo della grandezza di Roma. Viene così affrontato dal poeta il grande tema della eroica fatica umana, sentita non solo nel suo presente quotidiano, ma nel suo significato profondo di opera dei secoli e nei secoli, come storia. Nelle Georgiche è maturata la complessa sensibilità poetica e morale virgiliana, che è insieme moralistica e storica, che sente la idealità delle vicende umane nella loro dimensione eterna e anche nel loro essere realizzate nel tempo: la pace e la forza del mondo romano augusteo vivono oggi del silenzioso eroismo dei contadini, delle loro umili fatiche compiute con virile rassegnazione; e questo eroismo ricorda il mitico eroismo dei guerrieri troiani che in cerca di una terra da coltivare e di una città da fondare giunsero ai lidi di Lavinio e ai colli, ancora selvosi, della futura Roma. Il triste pastore Aristeo, figlio di una dea, che vede morire i suoi armenti vittime dell'ira del defunto Orfeo, e dalla bocca del veggente Proteo apprende il suo destino di allevatore delle api (Georg. 4°), anticipa nella sua modestia agreste la grandiosa immagine del dolente Enea, fondatore destinato dal Fato. Dalle Georgiche conviene muovere per intendere certi momenti essenziali della genesi dell'Eneide. ▭ V., dopo aver a lungo studiato e meditato, sentì di non dover assumere ad argomento diretto ed esplicito del suo canto le grandi gesta di Augusto, che riempivano allora il mondo, troppo legate alla contingenza storica; ma l'approfondita sensibilità poetica lo indusse a cercare una prospettiva diversa, più efficace e consona al suo genio. Egli trasferì in modo radicale la realtà dell'oggi, cioè le gesta di Augusto, e le aspirazioni e le glorie del nuovo impero, in una visione più larga, che dal punto di vista del passato mitico-storico abbracciasse il presente e il futuro. Così, al posto di Augusto sottentra la figura mitica di Enea, di colui cioè che era considerato il capostipite della famiglia Giulia e il fondatore e rappresentante dello stato romano. E la prospettiva storico-mitica fa sì che il vero protagonista del poema ora non sia tanto il poetico personaggio di Enea, ma la storia di Roma, drammaticamente onnipresente, e di tutto il popolo romano. Con l'Eneide, V. si riavvicinava alla poesia arcaica romana, gettando un ponte di là dalle esperienze neoteriche e lucreziane; ma nella sua opera le vicende presenti e le passate, la storia e la leggenda, la realtà e l'ideologia si fusero con procedimento poetico ben altrimenti complesso di quello dei suoi predecessori. Tutti gli elementi storici, come le gesta di Ottaviano e le glorie e aspirazioni del nuovo impero, non sono esposti direttamente come materia di narrazione, ma per via indiretta, sotto forma di digressioni fantastiche e favolose, a rappresentare lo spirito animatore dell'unico argomento, le gesta di Enea. Così V., superata la concezione annalistica, attingeva con naturalezza a Omero, suo massimo modello; e tuttavia la sua vigile sensibilità lo indusse a superare felicemente la prova dell'"imitazione" (pur coscientemente ricercata), creando un rapporto tra la poesia sua e quella di Omero che va ben oltre l'imitazione pura e semplice, anche là dove la tecnica narrativa epica sembra senz'altro ricalcata sul grande modello antico. Poiché tra Omero e V. c'è un rapporto profondo: prima di essere un modello, Omero fu per V. intima esperienza culturale. Nonostante le svariate derivazioni dotte, nonostante le strette analogie omeriche, l'Eneide risulta perciò un poema essenzialmente originale e moderno. V. rivolge la sua attenzione ai moventi psicologici, ai travagli spirituali, alle leggi eterne che regolano il divenire della storia. I suoi eroi epici sono ben altro che "primitivi" (neppure nel senso, già esso assai particolare, di Omero); presuppongono tutta l'esperienza morale e poetica del mondo greco, dai poeti tragici ai recenti poeti ellenistici, e insieme l'acquisizione di tutti gli elementi proprî della sensibilità etica romana, maturata in una cultura ormai secolare. Nell'Eneide, troviamo V. nei suoi aspetti più personali e suggestivi: oppresso dalla continua irresistibile presenza del dolore, ansioso di pace e di liberazione. Ed è notevole come egli abbia fuso il suo fondamentale atteggiamento spirituale, antieroico ed elegiaco, con la necessità di cantare in forma epica le glorie di Roma: il risultato è la creazione di un nuovo valore dell'epos. Davanti alle imprese di guerra e di conquista V. non si esalta, quanto si duole per i patimenti e gli strazî da quelle provocati. L'eroe del poema, Enea, aborre dalla guerra e dalle azioni violente e crudeli, ma vi si presta per sentimento religioso di obbedienza ai voleri del Fato. Poiché Enea è il simbolo del cammino necessario dell'umanità, originato dall'imperscrutabile volontà del Destino, riscattato dall'adesione piena, per quanto dolente, della volontà morale dell'individuo destinato. V., nella massima tensione poetica e morale della sua vita, ha scoperto l'epos della violenza voluta dal Fato, attuata col sacrificio e riscattata dalla consapevolezza della universale dura sorte umana. Enea e Turno e i loro compagni e alleati risultano così poetiche creature vive e drammatiche, le cui gesta hanno per sfondo un antico vergine Lazio, immerso in una natura lontana nel tempo, una natura "antica". Donde la sublime poesia delle selve chinate a far ombra sul Tevere, stupefatte al nuovo spettacolo delle navi d'Enea remeggianti verso gli abituri dell'arcade Evandro, che abita i selvaggi boschi del Palatino; o dell'arcana luce lunare che tra il fogliame dell'antica foresta laziale percuote scintillando le armi di Eurialo e Niso, destinati a morire. ▭ Così la storia di Roma e di Augusto è proiettata dall'alto delle lontane origini o meglio dal profondo della dimora extra-temporale dei defunti: infatti i gloriosi rappresentanti della storia romana compaiono nella profezia data nell'Ade dall'ombra di Anchise che mostra a Enea le anime in attesa della futura reincarnazione (libro 6°, in cui è narrata la discesa di Enea agli Inferi). Qui la dottrina religioso-filosofica di V. arricchita di temi pitagorico-orfici, si risolve tutta nella poesia. L'immensa epopea culminante nella gloria di Cesare e di Augusto si svela agli occhi dell'errante Enea, dal fondo della terra, come una storia futura di morti. V. presenta alla fantasia del lettore la sfilata dei grandi della storia di Roma nella veste di ombre; che dovranno bensì incarnarsi e vivere il loro glorioso destino, ma che nel frattempo non sono altro che ombre. In realtà, per V. il mondo dei morti è il luogo dal quale meglio si vede e chiaramente si intende il mondo dei vivi e il poeta non può non guardare, attraverso l'ombra dell'al di là, anche quella storia di Roma e quella gloria dei Giulî cui profondamente crede come a realtà ben vive. La morte è scontata per V. come condizione preliminare, cosmica, della vita stessa. Ormai era ben lontano dall'idea epicurea che "la morte è nulla"; anzi il regno dei morti è ben più ampio di quello dei vivi, e questo, in certo modo, è incluso in quello. Il lettore del poema della romanità augustea non dimenticherà facilmente d'aver veduto gli eroi artefici di quella gloria andare lungo la riva del Lete, il fiume dell'oblio, per gli omerici campi fioriti d'asfodelo. E tornerà con la mente all'altro grande libro dell'Eneide, il 2°, il libro dell'incendio di Ilio: quando un'altra tormentata ombra, Ettore, chiama il dormiente Enea al suo destino di portare i Penati alla lontana spiaggia di Lavinio, culla voluta dal Fato per la gente romana.
La fortuna di Virgilio. - L'opera di V. svolse una funzione formativa per parecchi secoli; durante il Medioevo e fino al Rinascimento dominò la cultura occidentale. L'Eneide, oltre a costituire il poema più grande della latinità, fu accettata anche dalla cultura cristiana e fu il modello più alto per la poetica del Rinascimento. Il primo e decisivo tramite della fama di V. fu l'insegnamento e l'ambiente scolastico, che consacrò il valore pedagogico, didascalico, formale dei poemi virgiliani. Fin dai tempi dei suoi contemporanei, su V. si scrisse sempre moltissimo, e abbiamo studî e ricerche a carattere esegetico, grammaticale, linguistico, mentre nei secc. 3°, 4° 5° si privilegiò l'interpretazione di V. come maestro di retorica e di stile. L'attività scolastica, pur immiserendo la comprensione del valore poetico nel culto del valore oratorio, ebbe il merito di consacrare in modo definitivo la grandezza e originalità del genio virgiliano. Fra gli apologisti e gli esegeti della tarda latinità - che, nonostante storture e notizie eterogenee e dubbie, ci danno un'interpretazione abbastanza fedele della poesia virgiliana - vanno ricordati Elio Donato, Servio, Tiberio Claudio Donato, Macrobio; questi, e soprattutto Servio, accompagnarono per tutto il Medioevo la lettura di V.; mentre la principale fonte storica per la conoscenza della biografia virgiliana fu Elio Donato. Singolarissimo interesse, come prima dispiegata affermazione d'una sensibilità "medievale", ha l'opera di Fulgenzio (sec. 5°-6°), il De continentia virgiliana. Qui l'Eneide è letta in chiave allegorica e morale, quale complessa metafora della vita umana; sì che ne è grandemente agevolata la penetrazione negli ambienti ecclesiastici. Nel processo di cristianizzazione dell'opera virgiliana influì poi singolarmente la quarta Bucolica, che, con le sue solenni promesse di un'età pacificatrice e redentrice, fu scambiata per un sicuro presagio dell'avvento di Cristo. Nei misteri francesi, per es., V. è messo nel corteo dei Profeti insieme alla Sibilla. Anche in Dante vi sono residui della valutazione allegorica e anagogica di V., e nell'episodio di Stazio (Purgatorio) è celebrato il valore anticipatore, se non profetico, di V. rispetto al messaggio cristiano. D'altra parte, la stessa personalità storica di V. aveva ormai assunto valori mistici e magici, sì che nel Medioevo vive un'immagine di V. poeta e profeta, saggio e mago, vate e taumaturgo, nata nella cultura monastica ma penetrata poi nel popolo, sì da farsi vera e propria leggenda. Questo V. entrò nella letteratura romanzesca ed enciclopedica (Image du monde, Roman des sept Sages, Cleomadis, Renart le Contrefait, il Virgilio Mantovano, ecc.) e nello stesso clima culturale il Roman d'Eneas (sec. 11°) travestirà in forme cavalleresche e cortesi l'originale. Così V. appagava il nuovo gusto della nascente arte romanza. Si comprende pertanto come la personalità e la poesia di V., arricchite di significati e interpretazioni nella cultura medievale, potesse costituire per Dante la più luminosa guida nel regno dell'arte e del sapere. V. fu per Dante il maestro di stile, modello insuperato di eccellenza formale; ma anche fu il simbolo dell'umana ragione, colui che con le sole forze dell'intelletto aveva raggiunto il più alto vertice dell'umana perfezione. Dante ritrova le sue fonti ideali nell'Eneide, ed è grazie alla lettura consapevole di V. che riesce a dar forma alla sua problematica concezione laica dello stato e dell'impero. L'interpretazione dantesca rimane esempio eccezionale di assimilazione feconda e di simpatia spirituale e culturale al di sopra dei secoli. Il culto di Dante fu subito accomunato a quello di V., da Giovanni del Virgilio a Benvenuto da Imola, allo spagnolo Enrico de Villena, che nello stesso anno tradusse l'Eneide e la Divina Commedia. Non meno che per Dante, per Petrarca V. è il ponte che stabilisce la continuità tra il nuovo spirito del tardo Medioevo italiano e la storia di Roma. L'Umanesimo e il Rinascimento, nella loro riscoperta filologica del mondo classico, si misurarono in primo luogo su V.; e da esso derivarono anche nuovi filoni di poesia, non solo nel senso dell'imitazione formale, ma soprattutto in senso estetizzante, mitico, sentimentale (dall'Ameto di Boccaccio all'Arcadia di Sannazzaro, alle grandi imitazioni straniere, soprattutto castigliane, del Marchese di Santillana o di Garcilaso). E si può dire che la cultura critica del Cinquecento e Seicento si è largamente sviluppata in rapporto all'intelligenza di V. e del suo grande poema epico. Da esso traeva spunto, e assai più che spunto, la problematica della "poetica" del maturo Rinascimento; l'Eneide pareva risolvere in particolar modo il problema dell'unità del soggetto e del protagonista, pur nella varietà del contenuto, e appagava l'esigenza dell'equilibrio fra "verisimile e fantastico". Nei suoi varî momenti, e soprattutto nella grande fase medievale e rinascimentale, V. costituì uno dei principali fili conduttori della cultura e della spiritualità occidentale.
- Esiste una immagine del poeta in un mosaico scoperto a Susa, l'antica Hadrumetum, ora al museo di Tunisi. Il volto quadrato, dalla robusta struttura, risponde alla descrizione di Elio Donato, secondo la quale V. fu alto, bruno, di forte ossatura e conservò per tutta la vita l'aspetto di un contadino. Altra immagine è in un mosaico di Treviri, firmato da un Monnus in cui le fattezze di V. appaiono idealizzate.