Dottrina che riguarda i destini ultimi dell’umanità e del singolo. È una parte delle credenze coessenziale all’idea stessa della religione e questo spiega perché credenze escatologiche s’incontrino sia tra le popolazioni cosiddette ‘primitive’ sia presso le religioni superiori.
Concepita la natura come insieme organico unitario, l’e. si configura nelle religioni ‘primitive’ quale rappresentazione di una realtà al di fuori del tempo, ricostituita in unità dopo le lotte ciclicamente causate dal ‘male’ nel mondo della natura, causate e definitivamente superate per l’intervento, all’apice di una serie di cataclismi cosmici, di un essere divino, non necessariamente un uomo, talvolta un animale sacro. L’idea di una ricostituzione di un nuovo mondo, in cui siano banditi malattie, morte e congiunzioni carnali e fini procreativi, è presente per es. nel culto di Puluga (isole Andamane) e, con qualche differenziazione, in quello di Ja Pudeu (pigmoidi della Malacca): dopo l’annientamento delle manifestazioni di vita animale e vegetale mediante un diluvio, la ricostituzione della società di tutti i buoni avverrà spontaneamente, comprendendo anche la ricongiunzione delle anime dei trapassati con i loro scheletri. La nuova terra non avrà animali feroci; i malvagi, dopo una purificazione, avranno una vita diversa, mutati in animali o pietre o, se non suscettibili di purificazione, saranno annullati.
Rappresentazioni escatologiche di un ritorno di un essere divino si trovano presso le popolazioni pigmee del Gabon, le popolazioni tatare dell’Altai e presso le popolazioni indie dell’America Settentrionale: nel nuovo mondo la felicità sarà completa, non ci sarà più una ‘terra degli spiriti’ (= morti) e la divinità vivrà come una madre con i suoi figli.
Presso l’induismo e il buddhismo l’e. si configura essenzialmente come reazione a una concezione negativa del mondo empirico. Presupposto comune alle due religioni è la teoria della successione ininterrotta di stati di vita, condizionati dalla condotta nelle fasi antecedenti. La visione dello stato ultimo, pertanto, non può essere che la liberazione dal contingente, mediante la pratica ascetica, l’acquisizione della vera scienza, sino al raggiungimento della beatitudine del nirvana, immoto e indistinto non-essere, termine ultimo di una visione escatologica in cui il rilievo è dato alla posizione individuale, su di un piano di sostanziale svalutazione della storia, intesa come sviluppo lineare.
Strettamente legato ai principi della religione zoroastriana è l’escatologismo mazdaico, proiettato al di fuori della storia, in quanto si risolve nel giudizio finale che avverrà al compimento del dodicesimo millennio: dopo che la lotta tra le potenze del bene e quelle del male si sarà conclusa con la vittoria delle prime, l’umanità risorgerà felice e immortale.
Del tutto calata nella storia è l’e. ebraica, il più tipico esempio di concezione dei fini ultimi riguardante la posizione di un’intera collettività, quella appunto del popolo eletto di Jahweh. Essa assume coloriture fortemente nazionalistiche, tanto più accentuate quanto più alla convinzione di essere il popolo eletto si accompagna la constatazione di una storia terrena di lutti, oppressioni e rovine, che non può non esigere un riscatto, sul piano storico e temporale. L’e. non è tanto la prospettazione della fine del mondo, quanto la rappresentazione di un trionfo anche politico della parte del popolo eletto mantenutasi fedele a Jahweh, che da castigatore si farà salvatore e regnerà in una nuova Gerusalemme su tutte le nazioni.
Particolare importanza assume, in questo contesto politico-nazionalistico, la ‘visione’ contenuta nel Libro di Daniele (2° sec. a.C.), in cui il trionfo finale di Israele, avviene a opera del «figlio dell’uomo». Fra il 1° sec. a.C. e il 1° d.C. acquista sempre maggior risalto questa figura di messia redentore, inteso come re guerriero. In alcuni settori del giudaismo, tuttavia, l’e. supera la pura prospettiva nazionalistica e attinge una dimensione universalistica concernente il problema del male in generale.
Parusia e messianismo.
L’idea messianica fu ripresa e sviluppata in ambiente cristiano, per l’annuncio evangelico dell’imminente avvento del Regno di Dio. L’assunzione dell’elemento escatologico nei termini del messianismo contribuì a diffondere, specie nelle persecuzioni subite dai Cristiani nei primi secoli, l’aspettativa di una parusia, intesa come ritorno dello stesso Cristo quale restauratore di un regno messianico sulla terra. Il diffondersi del millenarismo è spiegato dalla necessità di dare una dimensione precisa al differimento della parusia, giustificato dalla possibilità offerta a tutti di salvarsi, stabilendo in mille anni la durata per il regno messianico intermedio. Questa dimensione escatologica, nutrita di elementi tratti dall’Apocalisse, ebbe nel 2° sec. numerosi seguaci (per es., Papia di Ierapoli, s. Giustino, s. Ireneo, Tertulliano ecc.). Già in s. Paolo, e più ancora in s. Giovanni, comunque, la spiritualizzazione dell’escatologismo si era precisata nel senso di un’e. di realizzazione, di contro a quella di attesa, sì da portare il centro stesso dell’e. dall’avvenire al passato (venuta di Cristo nel mondo) o al presente dell’esperienza cristiana. In Oriente, nell’opera di Origene, l’e. si liberò di ogni elemento apocalittico giudaico per dar luogo a una concezione ciclica della storia dell’umanità e del mondo, che consentì il precisarsi, per la prima volta, di un’e. individuale, pur nell’ammissione del raggiungimento di una apocatastasi collettiva per intervento del Redentore, con la soppressione dell’Inferno e del male.
S. Agostino.
Una nuova prospettiva è data da s. Agostino con la dottrina delle due città, quella del mondo e quella di Dio, la quale vive nella realtà del mondo, ma non si identifica con una società temporale e costituisce lo storico realizzarsi del trionfo di Cristo nella Chiesa. Agostino descrive minutamente le caratteristiche e i segni premonitori della parusia, trasmettendo tutto un bagaglio escatologico alla meditazione del Medioevo, che accolse altresì elementi del messianismo giudaico, con la figura dell’imperatore degli ultimi tempi, e dell’Apocalisse, con le figure dei popoli di Gog e Magog. La storia acquistava un nuovo parametro proprio nell’e.: onde il ritorno costante nella letteratura ascetica, nella predicazione e nella stessa storiografia dei temi escatologici, ogni qualvolta nelle situazioni circostanziali si credeva di riconoscere il complesso di quelle caratteristiche già indicate come segni dell’imminente fine dei tempi. I motivi escatologici sono evidentissimi nella meditazione altomedievale e in quella del 12° sec., quando nella lotta delle investiture si vide il segno più certo di un’imminente catastrofe.
La progressiva e sostanziale storicizzazione del pensiero escatologico, con attenzione sempre più intensa alle vicende dei tempi presenti, trova la sua più alta espressione in Gioacchino da Fiore (m. 1202), che dà nuovo significato alle classiche periodizzazioni delle sei età del mondo e dei tre regni (del Padre, del Figlio, dello Spirito), misure di valore della storia universale più che quantità temporali. Gioacchino, ponendosi temporalmente alla conclusione dell’età del Figlio, preannunziava un’età dello Spirito, in cui avrebbe attuato la comunità perfetta di laici e clero, capace di attendere il giungere dell’Anticristo, come preludio della fine dei tempi. L’atteggiamento profetico trovava echi propriamente apocalittici e temporalizzazioni precise nel contesto di situazioni sociali, politiche ed economiche peculiari. I tempi imminenti – non importa se inizio di una nuova età o fine del mondo – erano obbligatoriamente polemici ed eversivi rispetto alle situazioni presenti.
Le correnti francescane e pauperiste.
L’Ecclesia spiritualis di Pietro di Giovanni Olivi, di Umbertino da Casale, delle correnti spirituali francescane, assertrici di un radicale pauperismo, dei beghini di Provenza, assumeva valore di protesta tanto maggiore quanto più essa non stava a designare esclusivamente una fase successiva della storia dell’umanità e della Chiesa, ma si contrapponeva in assoluta contemporaneità alla Chiesa istituzionalizzata nel modulo escatologico. La ricerca dell’identificazione dell’Anticristo, riconosciuto ora in un papa, Bonifacio VIII, ora in un imperatore, Federico II, portò la Chiesa istituzionalizzata a vedere nell’attesa escatologica di masse, in cui erano fortemente presenti istanze sociali ed economiche, pericolosi fermenti di eresia da schiacciare duramente. Di fatto, il significato di protesta del filone escatologico medievale, passato dall’impostazione di Gioacchino alle correnti pauperistiche e francescane, sul concreto terreno dell’immanenza storica si comunicò alle estreme manifestazioni ‘ereticali’ dei flagellanti renani (14° sec.), dei contadini inglesi (14° sec.), dei taboriti, degli anabattisti di T. Müntzer, tutti tesi nell’aspettativa e nella realizzazione di un nuovo millennio. Si deve tener conto, anche, che l’elaborazione teologica dell’e. si avviava alla formulazione di un escatologismo individuale, quello dei novissimi, mentre la larga assunzione dell’aristotelismo nella concezione della natura rendeva sempre più scettici circa la fine del mondo fisico.
Il dibattito contemporaneo.
Circa il valore dell’e. nell’ambito dell’essenza stessa del cristianesimo, si è sviluppata nel 20° sec. una vivace polemica tra cattolici e protestanti. Per alcuni di questi (A. Schweitzer) l’e. è solo la dimensione esteriore del pensiero di Cristo, assunta come essenziale dalla primitiva tradizione cristiana per effetto dell’ambiente giudaico; per altri (K. Barth) l’e. ha ancora un’importanza nel cristianesimo, ma in senso intemporale, restando oggetto di un’attesa e di una speranza fondata sulla promessa di Cristo, sulla certezza dell’azione redentrice da lui operata; per altri ancora (R. Bultmann) l’e. è trasferita totalmente dall’avvenire al presente, alla quotidiana esistenza, realizzandosi attraverso l’azione della grazia, che rende presente in ognuno, al di fuori di una vera dimensione temporale, il fatto della venuta di Cristo nel mondo, verificatosi nel passato. L’esegesi cattolica, più che a trarre un significato attuale e demitizzato dell’e., si è invece indirizzata a un’interpretazione dei testi escatologici neotestamentari (specie il discorso escatologico di Cristo sulla distruzione del tempio) nel senso di distinguere quanto di propriamente giudaico poteva esserci nella primitiva parusia da quello che sarebbe il significato autentico della parola di Cristo. La distruzione del tempio e l’abominazione della desolazione sarebbero così da intendere come la rovina del giudaismo, mentre la venuta di Cristo e dei suoi messaggeri è riferita alla glorificazione dello stesso Cristo e alla predicazione per tutta la terra.