Disciplina accademica e ambito di riflessione interdisciplinare che si occupa dell’analisi razionale dei problemi morali emergenti nell’ambito delle scienze biomediche, proponendosi di definire criteri e limiti di liceità alla pratica medica e alla ricerca scientifica, affinché il progresso avvenga nel rispetto di ogni persona umana e della sua dignità.
Il termine b. comparve per la prima volta nel 1970, in un articolo dell’oncologo americano V.R. Potter (Bioethics. The science of survival, in Perspectives in Biology and Medicine, 1970, 14, 1, pp. 127-153), che tornò a utilizzarlo nel suo libro Bioethics. Bridge to the future (Englewood Cliffs, New Jersey, 1971). Di fronte al rapido progresso del sapere biomedico e biotecnologico, alle scoperte nel campo dell’ingegneria genetica e alle crescenti possibilità di manipolare la vita umana e l’ecosistema, Potter riteneva che il solo modo per garantire la sopravvivenza dell’umanità fosse quello di costituire «una nuova disciplina che combinasse la conoscenza biologica (bio) con la conoscenza del sistema dei valori umani (etica)»: una disciplina che facesse da ‘ponte’ tra il sapere scientifico e il sapere umanistico per usare con ‘saggezza’ le nuove conoscenze, così da migliorare la qualità della vita delle generazioni future. Occorre ricordare che negli Stati Uniti i problemi etici attivati dalla sperimentazione indiscriminata sull’uomo avevano portato già nel 1969 alla nascita dell’Hastings Center, il primo centro impegnato nella definizione di norme nel campo della ricerca e della sperimentazione biomedica. Nel 1971, a Washington, A. Hellegers fondò il Kennedy Institute for the Study of Human Reproduction and Bioethics, il primo centro intitolato alla b., che nel 1979 venne annesso alla Georgetown University, all’interno del quale sorse in seguito il Center for Bioethics. Nel 1978 venne pubblicata la prima edizione della Encyclopedia of Bioethics edita da W.T. Reich (seguita nel 1995 e nel 2003 da altre due edizioni, l’ultima delle quali curata da Stephen G. Post), unica nel suo genere, cui seguì la Biblio;graphy of Bioethics, rassegna di tutte le pubblicazioni annuali concernenti l’ambito scientifico della b., affiancata da un servizio di informazione bibliografica on line (Bioethicsline).
L’istituzionalizzazione della b., avviata negli anni 1970, si è realizzata in maniera molto rapida grazie alla sua connessione con la medicina e i temi sulla salute pubblica: ovunque sono sorti centri, istituti di ricerca e insegnamenti universitari di b.; diverse sono le società e le associazioni per il coordinamento e la ricerca b., i comitati ad hoc per le consulenze di politica sanitaria, nonché i comitati etici per regolare la sperimentazione farmacologica e la prassi clinica. Tra i primi centri sorti in Europa, vanno ricordati l’Instituto Borja de bioética in Spagna (dove si è imposto il contributo teorico di Diego Gracia), il Centre for Bioethics and Public Policy in Gran Bretagna, il Centre d’études bioéthiques in Belgio. In Australia, si distingue l’attività del Center for Human Bioethics diretto da Peter Singer, uno dei fondatori del movimento animalista, e quella della IAB (International Association of Bioethics). In Italia va ricordato il Centro di bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, presso la facoltà di Medicina e chirurgia di Roma, fondato e diretto da E. Sgreccia, che nel 2004 ha istituito la FIBIP (Federazione Internazionale dei Centri e Istituti di Bioetica di Ispirazione Personalista); tale centro, che cura la pubblicazione della rivista Medicina e Morale, è affiancato da un Istituto di bioetica universitario. A livello nazionale opera il Comitato nazionale per la bioetica (➔).
Tra i principali organismi internazionali di consulenza in b. vanno ricordati: il Comité ad hoc d’experts pour les problèmes de bioéthique del Consiglio d’Europa, istituito nel 1985 e divenuto nel 1992 Comité directeur pour la bioéthique (CDBI), che nel 1996 ha approvato la Convention sur les droits de l’homme et la biomédicine, nota come Convenzione di Bioetica, ratificata dall’Italia a Oviedo nel 1997 e il Comité international de bioéthique dell’UNESCO, sorto nel 1993.
L’insegnamento della b. ha contribuito a meglio definire questa disciplina e il suo statuto epistemologico, sebbene quest’ultimo aspetto resti ancor oggi molto dibattuto. Lo stesso termine b. viene talvolta sostituito con le espressioni etica biomedica o etica della ricerca scientifica. Per quanto la b. affronti problemi morali già tradizionalmente analizzati dall’etica, dalla morale medica di tradizione ippocratica e dalla riflessione teologico-morale di ispirazione cristiana, è pur vero che questi problemi hanno assunto nel 20° sec. dimensioni e prospettive inedite grazie alle straordinarie evoluzioni delle conoscenze scientifiche applicate alla medicina e alla biologia. Si pensi alle questioni antropologiche sollevate dagli interventi, oggi possibili, sulle fasi iniziali della vita umana, come la fecondazione assistita, la sperimentazione sugli embrioni, l’ingegneria genetica, la clonazione; o, in riferimento alla fine della vita, ai problemi sollevati dall’accanimento diagnostico-terapeutico, dalla richiesta di eutanasia, dalla medicina dei trapianti, dalla sperimentazione sull’uomo e sugli animali. La nascita della b. è stata, infatti, sollecitata dall’esigenza di integrare tra loro nuove conoscenze e nuovi saperi per fondare in maniera forte e razionale i criteri di regolamentazione della prassi biomedica e garantire la libertà di ricerca scientifica nel rispetto dei diritti umani fondamentali. È fuor di dubbio, infatti, che sotto il profilo epistemologico la b. sia contraddistinta dalla interdisciplinarità: essa nasce dal dialogo e dal confronto tra biologia, medicina, filosofia, teologia, sociologia, antropologia, economia, diritto e politica. Tutte queste discipline entrano, con modalità e in misura diversa, nel sapere bioetico, per conferire all’etica quei dati moralmente rilevanti che servono a formulare il giudizio bioetico. L’interdisciplinarità, in altre parole, consente di individuare il metodo della riflessione b., che avvalendosi del contributo delle diverse discipline, giunge a una visione integrale dei problemi.
In particolare, laddove le scienze b. descrivono un problema empirico, ossia ‘come’ si manifesta un fatto naturale o artificiale, le scienze umane offrono dati e interpretazioni del fenomeno, mentre la filosofia riflette sul senso della natura, andando alla ricerca del fondamento dei valori sulla base dei quali giustificare il comportamento dell’uomo nei confronti della natura. In tal modo, il fine del giudizio bioetico non è solo quello di dire ‘come’ si deve agire, ma ‘perché’ si deve agire in quel modo sulla base di ragioni ‘forti’. Si configura così un aspetto fondamentale della riflessione b., ossia la ricerca di una ‘metabioetica’ che sappia rendere ragione in termini filosofici del giudizio bioetico. In tal senso, la b. possiede una chiara identità epistemologica razionale, che, a partire dalla descrizione del dato scientifico, biologico o medico, esamina la liceità dell’intervento dell’uomo sull’uomo, avendo come orizzonte di riferimento la persona umana integralmente considerata, in tutte le sue dimensioni: fisiche, psichiche e spirituali. Il metodo proprio della b. è, dunque, quello della filosofia morale, che razionalmente indaga i fondamenti dei principi e dei valori che devono orientare il comportamento umano innanzi alle numerose e nuove possibilità dischiuse dal progresso medico e tecnologico.
Nel dibattito epistemologico, fondamentale è anche la questione della definizione della bioetica. La più nota è quella che Reich ha inserito nell’Encyclopedia of bioethics del 1978: «studio sistematico della condotta umana, nell’ambito delle scienze della vita e della salute, esaminata alla luce di valori e principi morali». Il riferimento ai principi e ai valori morali trovò negli Stati Uniti una prima giustificazione nel volume di T.L. Beauchamp e J.F. Childress, Principles of biomedical ethics (1979). Tali autori, richiamandosi ai principi di beneficialità e non maleficenza, di autonomia e giustizia, tentavano di fornire un modello teorico efficace in grado di superare l’alternativa tra le prospettive etiche deontologiche e teleologiche; la ‘b. dei principi’, tuttavia, non riuscì nel suo intento e venne sottoposta a severe critiche, poiché, richiedendo un bilanciamento tra principi, finiva col trasformarsi in una morale della situazione, incapace di fondare in maniera oggettiva e razionale il proprio giudizio etico. Altri autori hanno in seguito definito la b. una «filosofia della ricerca e della prassi b.» (Sgreccia); «l’etica applicata ai nuovi problemi che si sviluppano alle frontiere della vita» (C. Viafora); un «settore dell’etica che studia i problemi inerenti la tutela della vita fisica» (S. Leone). Lo stesso Reich, nella successiva edizione dell’Encyclopedia (1995) estese la definizione, includendovi i concetti di interdisciplinarità e di pluralismo delle metodologie etiche. Se, infatti, appare immediatamente chiaro il riferimento della b. all’etica e ai valori, non è scontato come si debbano giustificare questi valori, né quali debbano essere i principi di riferimento. Il pluralismo, cioè, sembra riguardare sia l’antropologia di riferimento sia le teorie sulla fondazione del giudizio etico.
Nel dibattito bioetico si possono individuare almeno quattro orientamenti teorici che cercano di dare differenti fondazioni alle norme etiche e ai valori: a) l’orientamento socio-biologista; b) l’orientamento liberal-radicale; c) l’orientamento utilitarista-contrattualista; d) l’orientamento del personalismo ontologicamente fondato. L’orien;tamento socio-biologista propone un’etica descrittiva, che si evolve di pari passo con la società e che, pertanto, si riduce a un’espressione della cultura e del costume: un modello che riesce, così, a giustificare qualsiasi possibilità dischiusa dal progresso scientifico, a prescindere da un’autentica tutela dei diritti di ciascun individuo umano. L’orientamento liberal-radicale fonda l’etica sulla scelta autonoma dell’individuo, avendo come unico criterio di riferimento la libertà soggettiva intesa come valore assoluto. L’orientamento utilitarista integra l’impostazione soggettivista all’interno di un’etica pubblica che diviene un ‘soggettivismo della maggioranza’, nel quale il principio ispiratore dell’azione morale deve essere il perseguimento del massimo piacere, e la minimizzazione del dolore per il maggior numero di persone, in base a un semplice calcolo costi-benefici nelle scelte che si debbono compiere. Uno dei più noti esponenti di questo modello è P. Singer, il quale ha sostituito il principio della ‘sacralità della vita’ con quello di ‘qualità della vita’ e ha riformulato la nozione di persona, la quale – non più fondata sulla sua sostanzialità, ma solo sulle sue qualità – può includere anche i mammiferi non umani, purché in grado di esprimere forme di autonomia e di relazionalità. Nel modello utilitarista viene meno, pertanto, l’identificazione tra essere umano e persona, con significative conseguenze nella formulazione dei diritti dell’uomo, non essendo più sufficiente appartenere alla specie umana per essere titolari del diritto alla vita e alla cura e qualificandosi, invece, come necessaria la presenza di alcune caratteristiche funzionali e relazionali dell’individuo. Sulla stessa linea utilitarista, ma in una prospettiva più marcatamente contrattualista, si pone H.T. Engelhardt, che ritiene di fondare l’etica sull’accordo intersoggettivo stipulato all’interno della comunità degli adulti, che stabiliscono ciò che è lecito e ciò che è illecito. Infine, il modello del personalismo ontologico fonda l’oggettività dei valori e delle norme sul concetto sostanziale di persona, intendendo quest’ultima come un’individualità costituita da un corpo animato e da uno spirito incarnato. Persona, dunque, è ogni individuo umano, dal momento del concepimento alla morte naturale, e sul rispetto della sua dignità e dei suoi diritti inalienabili deve essere fondata ogni decisione etica del singolo e della società. Questa lettura permette di individuare nella salvaguardia della persona l’orizzonte antropologico di riferimento della condotta morale, avendo come principali criteri di comportamento il rispetto della vita umana e della sua integrità, il principio di libertà e responsabilità, il principio terapeutico e di cura e il principio di solidarietà e sussidiarietà nelle scelte individuali e sociali.