Nell’ambito del processo civile, dichiarazione che una parte fa all’altra della verità dei fatti a essa sfavorevoli e favorevoli (art. 2730, co. 1, c.c.). È una prova costituenda e legale, la cui disciplina si rinviene sia nel codice civile (art. 2730 e seg.) sia nel codice di procedura civile (art. 228 e seg.). Può essere resa spontaneamente o provocata in giudizio mediante interrogatorio formale. Se viene resa stragiudizialmente, deve essere documentata per iscritto e il relativo documento va prodotto in giudizio. Può essere provata attraverso testimoni solo se verte su un oggetto per cui è ammessa la prova testimoniale (2735 c.c.). La c. in giudizio può essere provocata dalla controparte attraverso l’interpello, che deve essere dedotto per articoli separati e specifici (art. 230 c.p.c.). Il giudice istruttore, dopo aver ammesso l’interrogatorio formale, procede all’assunzione della prova nei modi e nei termini stabiliti nell’ordinanza che la ammette. Se la controparte interpellata non si presenta o non rende la dichiarazione, senza giustificato motivo, il giudice, valutato ogni altro elemento di prova, può considerare ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio (art. 232 c.p.c.). La c. resa personalmente fa piena prova contro chi l’ha resa, salvo che non riguardi fatti relativi a diritti indisponibili. In caso di mancata risposta all’interrogatorio formale il giudice conserva potere di valutazione in ordine ai risultati probatori. Se viene resa da uno soltanto di più litisconsorzi è liberamente apprezzata dal giudicante (art. 2734 c.c.). Non può essere revocata, salvo che non si provi che è stata determinata da errore di fatto o da violenza (art. 2732 c.c.).
C. dei peccati. L’esistenza di forme di c. è assodata presso molte popolazioni di interesse etnologico, oltre che nelle religioni di popoli evoluti. Può essere individuale o collettiva, privata o pubblica, compiuta periodicamente o in circostanze speciali (cambi di stagione, spedizioni di caccia o guerresche, malattie, parti), soprattutto se involventi un pericolo. Può essere accompagnata da pratiche eliminatorie (aspersioni, abluzioni, vomito, sputo, estrazione di sangue, combustione, suffumigio, strofinamento, dispersione ecc.), associazione strettamente collegata con l’esperienza arcaica del peccato come qualcosa di obiettivo e di materiale, che comporta la necessità dell’allontanamento e dell’eliminazione a mezzo di una qualche tecnica catartica. La concezione del peccato si afferma nelle religioni superiori e conseguentemente la penitenza si presenta come moto spirituale e interiore fondato sulla contrizione. Nel cristianesimo, la c. sacramentale è parte del sacramento della penitenza (➔), o riconciliazione, e consiste nella manifestazione, o accusa, dei peccati propri, commessi dopo il battesimo, fatta alla Chiesa nella persona di un sacerdote ( confessore), munito della facoltà di dare l’assoluzione sacramentale e con l’intenzione di riceverla. Secondo il Concilio di Trento, poiché il potere di rimettere i peccati, concesso agli apostoli e ai loro successori, presuppone che i sacerdoti non possano esercitare tale loro ufficio senza essere messi al corrente dei fatti, «è necessario che dai penitenti vengano passati in rassegna nella c. tutti i peccati mortali, di cui abbiano conoscenza dopo un diligente esame di sé». C. di fede Dichiarazione, in genere compendiosa, delle credenze religiose del cristiano (cioè il Credo o simbolo); l’espressione deriva probabilmente dall’atto del cristiano, che innanzi ai persecutori manifestava apertamente tale sua qualità e con ciò rendeva lode a Dio. Dal significato di dichiarazione dogmatica di un gruppo cristiano, il termine è passato a indicare la comunità che professa la stessa fede nell’ambito del cristianesimo.
Confessore della fede nel linguaggio liturgico (dal 4° sec. in poi), il santo che non ha subito il martirio.