Benedetto X, antipapa
Vescovo di Velletri già nel 1057, indicato alla morte di Vittore II come uno dei possibili successori, insieme con Ildebrando e Umberto di Silvacandida, stando alla testimonianza di Leone Ostiense, fonte tra le più attendibili per gli avvenimenti relativi al breve pontificato di B., Giovanni detto Mincio - il significato spregiativo del soprannome (minchione), segnalato da Leone, potrebbe vanificarsi ove si riuscisse a stabilire una sua parentela con un Gregorio Mincio, testimoniato in Regesto farfense, nr. 457 - fu eletto papa col nome di Benedetto X il 5 aprile 1058, quasi subito dopo la morte di Stefano IX, avvenuta il 29 marzo 1058. L'iniziativa fu di un gruppo di nobili romani, capeggiati dal fratello di Teofilatto di Tuscolo, che era stato papa Benedetto IX, Gregorio di Alberico (e non lo stesso Alberico, come erroneamente vogliono gli Annales Romani, p. 334), da Gerardo di Galeria e Ottaviano Crescenzio di Monticelli. L'elezione di B. (indipendentemente dalla questione, ovvia e scarsamente significativa, dell'attendibilità degli Annales Romani, impegnati in una evidente opera di demolizione morale della figura di Ildebrando, indicato come elettore del suo amico Gerardo di Firenze [Niccolò II], prima [!] dell'elezione dello stesso B.) fu certamente un fatto violento e in alcun modo regolare e canonico, rappresentando l'ultimo sforzo dei gruppi particolaristici romani di riprendere il controllo del papato. Difficile o addirittura impossibile, comunque, anche appurato il significato dell'appoggio datogli dai Tuscolani, stabilire un rapporto di parentela di B. con gli stessi potenti signori romani.
Il Borgia (Istoria della chiesa, e città di Velletri III, Nocera Umbra 1723, p. 171) ritenne che Giovanni (cioè B.) fosse figlio di un Guido, figlio a sua volta di Alberico III di Tuscolo, e di Milia o Imilia, accogliendo la notizia dello Zazzera che voleva che il "Gregorius vir clarissimus qui vocatur Mincius" menzionato nel Regesto farfense, nr. 457, fosse o Gregorio II fratello del Guido padre di Giovanni oppure il figlio di questo supposto Guido, natogli da Imilia e pertanto fratello di Giovanni. Ma giustamente il Bossi (p. 163 n. 1) ha rilevato che lo stesso nome di Imilia - che Giovanni fosse figlio di un Guido lo dice anche il Liber pontificalis (II, p. 279) - è privo di documentazione: una Emilia sarebbe stata comunque la moglie di uno degli antenati dei Colonnesi. Lo stesso Bossi, però, a sua volta propone di identificare con B. il Giovanni, vescovo di Labico, presente al sinodo romano dell'aprile 1044 e indicato come nipote di Benedetto IX e pertanto tuscolano: "non sarebbe forse possibile che questo vescovo passasse dalla sede labicana a quella di Velletri e da questa alla suprema pontificale?".
Il colpo di mano dei Tuscolani coincideva con un momento particolarmente delicato della situazione politica del papato e dell'Impero: incertezza e confusione regnavano alla corte del giovanissimo figlio di Enrico III e della reggente Agnese; cautela e prudenza impedivano una pronta azione dei gruppi riformatori romani, sorpresi dalla morte repentina di Stefano IX. Se non si può credere in tanti particolari fantastici agli Annales Romani, dai quali però traspare il carattere simoniaco dell'elezione di B., dacché si parla di larga distribuzione di denaro da parte dei fautori di Giovanni di Velletri; se troppo vaghe sono le notizie di Bonizone di Sutri, che parla di un'assunzione da parte di Gregorio di Tuscolo della "patricialis inanis dignitas"; se ovviamente interessate sono le notizie di Lamperto di Hersfeld, che insiste sul fatto dell'elezione avvenuta "inconsulto rege", e degli Annales Altahenses (cfr. per tutto ciò e per i passi relativi G.B. Borino, p. 489 n. 65), rimane pur sempre la testimonianza di Pier Damiani in una lettera ad Enrico arcivescovo di Ravenna del 1058 (cfr. M. Della Santa, Ricerche sull'idea monastica di S. Pier Damiano, Camaldoli 1961, p. 215), nella quale si ha un vero e proprio resoconto delle circostanze in cui avvenne l'elezione di Benedetto X. Ed è da tener presente che Leone Ostiense proprio a questa lettera ispira testualmente la sua narrazione degli avvenimenti del 1058 (cfr. Leonis Chronica, a cura di G. Wattenbach, in M.G.H., Scriptores, VII, a cura di G.H. Pertz, 1846, p. 695).
Si osservi che la lettera di Pier Damiani (P.L., CXLIV, coll. 290-92) è erroneamente indicata come riferentesi allo scisma di Cadalo, mentre è evidentemente in riferimento alla situazione di incertezza che in taluni ambienti si era determinata in seguito all'elezione di B. ed alla susseguente elezione di Niccolò II: che questa incertezza regnasse presso un Enrico di Ravenna è inoltre indicativo del disorientamento che si era manifestato in una sede vescovile i cui presuli avevano pur sempre trovato nell'Impero, e non necessariamente nel papato romano, il termine di riferimento sicuro, in circostanze perigliose e oscure come quelle prodottesi in seguito al piccolo scisma tra B. e Niccolò II.
Pier Damiani dunque, pur volendosi fare una tara al tono della sua narrazione, afferma esplicitamente (ibid., col. 291) che al momento dell'elezione, fatta "nocturno tempore cum armatorum turbis undique tumultuantibus et furentibus", si fece ricorso al denaro: "Dehinc ad marsupiorum patrocinia funesta concurrit [B.], pecunia per regiones, andronas vel angiportus in populos erogatur, B. Petri venerabilis arca pervaditur, sicque per totam Urbem velut per officinam male fabricantis Simonis factam, vix aliud quam, ut ita loquar, malleorum atque incudinum tinnitus auditur".
Non solo la simonia, manifesta, aveva inficiato l'elezione di B., ma anche l'assenza di un regolare corpo elettorale, dacché tutti i cardinali, e quello Ostiense in primo luogo, cioè lo stesso Pier Damiani, cui sarebbe toccato di procedere alla consacrazione, erano fuggiti da Roma ed avevano anatematizzato l'intruso. In questa insistenza sull'irregolarità canonica dell'elezione di B. da parte di Pier Damiani gioca indiscutibilmente il tempo di composizione della lettera, scritta evidentemente tra la designazione di Niccolò II, avvenuta a Siena il 6 dicembre 1058 (per questa data cfr. H.G. Krause, pp. 65-8), e la sua consacrazione (24 gennaio 1059) in Roma: un tempo in cui erano maturate molte cose, in merito alla necessità di un appoggio per i riformatori romani e di uno strumento giuridico-procedurale che garantisse l'elezione pontificia da improvvise e indesiderate ingerenze di partiti che in un recente passato avevano dominato la scena politica romana.
Il fatto stesso che, come ci narra Pier Damiani, Stefano IX avesse stabilito che non si dovesse procedere all'elezione di un nuovo pontefice, in caso di sua morte improvvisa, se non fosse prima ritornato dalla Germania Ildebrando - fatto che il racconto di Bonizone colora dei toni dell'antiveggenza miracolosa (cfr. Liber ad amicum, a cura di E. Dümmler, in M.G.H., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. XI et XII conscripti, I, a cura di Id.-L. von Heinemann-F. Thaner, 1891, p. 592) - mostra che da qualche tempo si era entrati nell'ordine di idee di garantire al papato un appoggio nuovo, visto che quello già fornito da Enrico III era venuto a mancare con la sua morte. Che ciò implicasse un deciso orientamento antimperiale, però, è altro e oggi poco accettabile discorso, dacché proprio nell'elezione di B. il famoso decreto del 1059 avrebbe trovato la motivazione più prossima e concreta.
Essenziale, per l'esatta comprensione del significato del papato di B., sembra quindi la possibilità di determinare il valore dell'ambasceria di Ildebrando in Germania, presso la corte del giovane Enrico. Ildebrando, che già nel 1054, in occasione del concilio tenutosi a Tours per giudicare Berengario e le accuse di eresia a lui mosse, aveva mostrato, pur in una questione limitata (cfr. O. Capitani, La lettera di Goffredo II Martello conte d'Angiò a Ildebrando [1059], in Studi Gregoriani, V, Roma 1956, pp. 19-31), di essere un abile e prudente diplomatico, si era recato in Germania sul finire del 1057, per volontà di Stefano IX: lo attesta esplicitamente un passo del Liber pontificalis Eichstetensis di Gundecaro (a cura di L. Bethmann, in M.G.H., Scriptores, VII, a cura di G.H. Pertz, 1846, p. 246), confermato da Lamperto di Hersfeld (Annales, in Id., Opera, in ibid., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, XXXVIII, a cura di O. Holder-Egger, 1894³, p. 72). Per quanto nessuna testimonianza rimanga sulle finalità della missione, esse possono essere individuate nella necessità imprescindibile, data la situazione romana e italiana del momento, di stabilire da parte del gruppo riformatore che aveva per esponenti Umberto di Silvacandida, Pier Damiani e lo stesso Ildebrando "S.R.E. cardinalis subdiaconus", dei rapporti di collaborazione con la corte tedesca. Va chiarito, sembra, soprattutto in merito alle osservazioni del Borino, che ha efficacemente delineato e ricostruito le vicende di questi anni (L'arcidiaconato, pp. 488-97), che non la questione del riconoscimento formale dell'elezione di Stefano IX, avvenuta, com'è noto, senza che Enrico ed Agnese venissero interpellati, ma le prospettive della politica di riforma avviata da Leone IX e da Vittore II con l'appoggio di Enrico III (morto il 5 ottobre 1056), devono essere state oggetto sostanziale delle discussioni tra Ildebrando e i più influenti personaggi della corte germanica, a Pöhlde, dove Ildebrando si trovava al momento della consacrazione a vescovo di Gundecaro e nelle festività natalizie del 1057. Scomparso Enrico III, sopravvenuta la difficile reggenza di Agnese per il giovanissimo Enrico, la possibilità di assicurare, sia pure implicitamente, l'appoggio alla linea politico-religiosa del gruppo riformatore non andava cercata più in Germania: almeno per il momento. Se è innegabile che Stefano IX era stato eletto "ignorante rege" e se è vero che un'ombra di sospetto doveva essere rimasta in Germania per questa prima rottura di una consuetudine iniziatasi con Clemente II, e mai interrottasi sino allo stesso Vittore II compreso, non va dimenticato che l'elezione di Stefano IX, monaco cassinese, non aveva nessun dichiarato intento antimperiale. Significativamente Lamperto di Hersfeld, che pare l'espressione più interessante dell'opinione ufficiale germanica sull'avvenimento, con tutte le riserve e le implicite concessioni che la stessa situazione tedesca doveva dettare, poteva scrivere di Stefano IX, ponendo in particolare rilievo le qualità della persona, più che la sospetta parentela con Goffredo di Lorena: "Tum vero universi quicquid principum quicquid plebis Romanae erat, uno animo, pari voluntate in electionem consenserunt Friderici, fratris Gotefridi ducis, extractumque de monasterio Casino, ubi lucerna Dei ardens et lucens sub lecto monasticae quietis delitescebat, super candelabrum extulerunt sedis apostolicae. Nec quisquam sane multis retro annis laetioribus suffragiis, maiori omnium expectatione ad regimen processerat Romanae aecclesiae. Sed tantam spem, heu, frustrata est mors immatura!" (Annales, p. 70). Il consenso unanime, la santità della vita ponevano, nella ricostruzione di Lamperto, in secondo piano la mancanza dell'assenso regio all'elezione. Ma anche questo aspetto non va esagerato: il fatto della richiesta avanzata da Stefano IX ai Romani di giurare che avrebbero atteso il ritorno di Ildebrando dalla Germania, prima di procedere ad una nuova elezione pontificia, trasmessa dalla lettera di Pier Damiani (col. 292), non era "mettere le sorti della Chiesa romana nelle mani di Ildebrando" (G.B. Borino, p. 488), bensì il segno della necessità di comporre, o ricomporre, un fronte unitario con l'assenso della corte tedesca e la forza di Goffredo di Toscana, nei riguardi dei non domi e risorgenti spiriti particolaristici delle famiglie romane e dei Tuscolani in specie. La necessità dell'assenso regio all'elezione pontificia era implicitamente riproposta nella sua sostanza proprio da quella richiesta di Stefano IX di attendere il ritorno dalla Germania di Ildebrando: il quale, pertanto, era a sua volta condizionato dalle decisioni che sarebbero state prese in Germania. Non erano più i tempi di Sutri, certamente, più per l'intrinseca debolezza della situazione politica tedesca, che per la scelta cosciente del gruppo riformatore romano.
Non molto dopo la morte di Stefano IX e dopo l'elezione forzata di B., doveva aver valicato le Alpi per tornare in Italia Ildebrando, se il 16 maggio di quell'anno, insieme con Goffredo di Lorena egli presiedeva al placito tenutosi presso S. Pellegrino, nel contado di Chiusi. Vero è che la notizia dell'elezione irregolare - dal punto di vista dei riformatori - di B. poteva averlo indotto ad attendere che Goffredo approntasse l'esercito con cui muovere sulla città e punire il ribelle tuscolano: ma si può concludere con il Borino (p. 492) che "Ildebrando, al suo ritornare dalla Germania, si fermò anzitutto a Firenze e di là cominciò a pensare al da farsi per contrapporre un legittimo papa all'invasore Benedetto X".
Ildebrando era formalmente il "legatus Sanctae Romanae Ecclesiae" ancora al momento del placito di S. Pellegrino: con riferimento, appunto, alla sua missione in Germania, non, come è affermato, in maniera inaccettabile, dal Manaresi (I placiti del "Regnum Italiae", III, 1, Roma 1960, p. 240) "al fatto che la lite [scil. del placito] verteva tra due enti ecclesiastici" (!); per la cronologia del placito cfr. H.G. Krause, p. 67 n. 135.
Il da farsi per Ildebrando consistette in un'intensa attività di consultazione con i migliori romani: esponenti ecclesiastici (non si dimentichi che tutto il gruppo riformatore era fuggito da Roma: oltre a Pier Damiani, Umberto di Silvacandida aveva trascorso la Pasqua a Benevento, ritornando da Firenze ed evitando Roma; la Pasqua nel 1058 cadeva il 19 aprile, esattamente due settimane dopo la tumultuosa elezione di B.) e maggiorenti laici, probabilmente. Ottenuta verosimilmente l'accettazione per una candidatura di Gerardo di Firenze, fu inviata una ambasceria in Germania presso la corte che trascorreva la festività della Pentecoste ad Augusta; qui Agnese ed Enrico espressero il loro gradimento per Gerardo (Niccolò II; cfr. Lamperto di Hersfeld, Annales, ad a. 1059 [1058], p. 74) ed invitarono Goffredo di Lorena, marchese di Tuscia, ad accompagnare il papa designato a Roma. Avvenuta, come si è visto, l'elezione di Niccolò II a Siena nel dicembre 1058, Roma fu attaccata ed occupata il 24 gennaio 1059 dopo sanguinosi combattimenti: B., che in un concilio tenutosi a Sutri era stato condannato, si rifugiò dapprima a Passarano (Tivoli), poi a Galeria, dove resistette qualche tempo all'assalto delle truppe di Niccolò II e di Riccardo di Capua, prima di arrendersi (estate 1059 ca.).
Intessuti di elementi fantastici sono i particolari che gli Annales Romani (p. 335) forniscono di questo assedio, cui avrebbero partecipato persino gli "Agareni", dalla parte di Niccolò II e di Riccardo. Incerti risultano anche i particolari dei combattimenti che si sarebbero svolti a Roma, per l'ingresso di Goffredo di Lorena e di Niccolò II: per Bonizone tale ingresso non avrebbe comportato combattimenti, laddove per gli Annales Romani ci sarebbero state aspre lotte tra i sostenitori di B. e quelli di Niccolò II, fomentati da Ildebrando, il quale, attraverso Leone di Benedetto Cristiano, avrebbe incitato alla rivolta una parte dei Romani, guadagnando alla sua causa i Trasteverini, che nella persona di Giovanni Tignoso riuscirono a conquistare la Prefettura della città, strappandola a Pietro di Castel S. Angelo. Quanto ai tempi dell'assedio di Galeria - attaccata, secondo gli Annales Romani, prima dai pontifici e poi dai Normanni, conseguentemente a un accordo tra Niccolò II ed i Normanni (l'accordo di Melfi) - e alle questioni connesse, esse riguardano esclusivamente Niccolò II ed Ildebrando: se ne veda un riepilogo, con proposta di soluzione, in G.B. Borino, p. 510, seguito di n. 136.
Stando agli Annales Romani, B., condotto a Roma, avrebbe subito un processo ignominioso ad opera di Niccolò II e di Ildebrando e sarebbe stato spogliato dei paramenti pontifici, nonché privato delle dignità ecclesiastiche ("ita ut non esset ausus in priviterio ingredi ad laudes et osequias [sic] Deo redtendas": p. 336), venendo confinato nella chiesa di S. Agnese, dove sarebbe vissuto sino al pontificato di Gregorio VII, vale a dire almeno sino al 1073. Il suo antico nemico, in un momento di pentimento, lo avrebbe fatto seppellire "onorifice in eadem basilica beate Agnetis, ubi occurrit omnem Romanum clerum" (ibid.).
Per Leone Ostiense (Chronica, p. 705), B., dapprima scomunicato, fu riammesso nella comunione laica e obbligato a vivere a S. Maria Maggiore; per Bonizone, infine, egli avrebbe pubblicamente ammesso le sue colpe onde "ex propria confessione episcopali et sacerdotali ordine depositus est". Nessuna delle due fonti, comunque, dà l'indicazione dell'anno di morte.
Nel corso del pontificato B. aveva conferito il pallio a Stigando arcivescovo di Canterbury (Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I-II, Lipsiae 1885-88: II, nr. 4389); aveva concesso (1058) il "castrum Montis S. Petri in Auximano comitatu" a certi nobili, dietro il pagamento agli "actionariis Romanae ecclesiae" di dodici denari pavesi (ibid., nr. 4390), e aveva confermato, dietro richiesta del vescovo Ezelone, dei beni al monastero di S. Maurizio di Hildesheim (ibid., nr. 4391). L'8 maggio 1058 stabiliva l'obbligo per gli Ungheresi di passaggio a Roma di alloggiare presso il monastero di S. Stefano; il 1° giugno di quello stesso anno concedeva una parte dei proventi dell'altare di S. Pietro ai "prioribus mansionariorum scholae confessionis b. Petri" (Italia pontificia, I, nr. 24, p. 140). Insignificante se si considera la portata reale della sua azione personale, il papato di B. acquista un grande, singolare rilievo se si guarda alle forze cui egli si affidò, probabilmente senza eccessiva convinzione - in questo gli Annales Romani che gli pongono in bocca amare riflessioni circa la volubilità dei Romani che lo avevano fatto papa quando egli non ne voleva sapere, contengono forse un elemento di verità - e, soprattutto, se si guarda alla funzione di sblocco di una situazione pesante in cui si era venuto a trovare il gruppo riformatore romano, rivelatosi, specie nella punta di diamante rappresentata da Ildebrando, proprio dalle vicende del breve pontificato di Benedetto X. Lo stesso famoso decreto di elezione pontificia del concilio Lateranense del 1059, promulgato da Niccolò II - lasciando stare la questione dell'Authorschaft di Umberto o di Ildebrando: cfr. per questo tutto il lavoro del Krause - ispira le sue procedure alla concreta dinamica degli eventi svoltisi in occasione dell'elezione di B. e di Niccolò II. Questi infatti, non membro del clero romano - era vescovo di Firenze, mentre B., come cardinale vescovo di Velletri, lo era in maniera eminente -, eletto al di fuori di Roma, dopo che a Roma era stato eletto un altro pontefice, vede legittimata la sua posizione dal fatto di essere stato portato al trono pontificio dai cardinali vescovi, assenti al momento della elezione di Benedetto X. Il gruppo riformatore, costituito certamente da uomini di tendenze diverse e opposte, in certi ambiti - Pier Damiani, Umberto di Silvacandida e Ildebrando -, viene così per la prima volta prepotentemente alla ribalta nella storia della riforma, caratterizzato dalla precisa volontà di respingere in qualsiasi modo una formula particolaristica, locale e "romana" del papato e fermo nel proposito di trovare anche gli strumenti giuridici nuovi adatti a ciò - decreto di elezione - non in un ipotetico e del tutto infondato atteggiamento di ostilità all'Impero (Wiberto, cancelliere regio per l'Italia e poi papa enriciano col nome di Clemente III, non era stato forse presente e consenziente alla consacrazione di Niccolò II? E non sarebbero stati forse proprio gli ambienti tedeschi a invocare il decreto al momento dell'elezione di Alessandro II e di Onorio II?), ma in un totale impegno di funzionalità delle strutture della Chiesa sinanco al più alto vertice della gerarchia.
Il miglior aggiornamento per la biografia di B., in assenza di monografie comparse dopo la pubblicazione della voce del D.B.I., è rappresentato dalle ampie note di commento alle lettere di Pier Damiani, rivolte a Gerardo vescovo di Firenze ed eletto papa dopo la morte repentina di Stefano IX, a Ildebrando, nell'edizione a cura di K. Reindel, in M.G.H., Die Briefe des Petrus Damiani, II, 1988, nr. 57, pp. 162-90, e a Enrico, probabilmente arcivescovo di Ravenna, ibid., nr. 58, pp. 190-94. Circa l'identificazione di B. con Giovanni vescovo di Velletri nel 1057 - e non con Benedetto di Velletri, predecessore di Giovanni, appartenente al gruppo riformatore del clero romano - v. ibid., p. 191 n. 3. Circa l'intervento di pratiche simoniache nell'elezione di B. si v. ancora la lettera 58, pp. 191-92 nn. 3-4; le stesse accuse erano state anche ribadite nella lettera a Gerardo di Firenze (Niccolò II) e a Ildebrando, nella quale Pier Damiani, si dichiarava indisponibile ad assumere, oltre quello di Ostia, anche l'episcopato di Velletri, resosi vacante sia per l'irregolare elezione di B., sia per la sua automatica decadenza dalla sede vescovile (trattasi con ogni probabilità di Velletri e non di Gubbio cui si è talora pensato: v. ibid., p. 164 n. 6); in questa lettera Pier Damiani (ibid., p. 171) chiama esplicitamente B. "mintio", al quale proposito v. ibid., p. 171 e n. 27. Circa le questioni relative ai momenti immediatamente precedenti l'elezione di Niccolò II e la stesura del decreto di elezione In coena Domini, oltre al Krause, sarà da tener conto della bibliografia successiva - Stürner, Jasper ed altra - citata e discussa in O. Capitani, Tradizione e interpretazione. Dialettiche ecclesiologiche del sec. XI, Roma 1990, pp. 81-2.
fonti e bibliografia
Oltre a quelle indicate nel testo si tenga presente, per le fonti documentarie, il Regesto farfense e Italia pontificia, I, a cura di P.F. Kehr, Berolini 1906, pp. 140 e 148; IV, ivi 1909, p. 209; per le fonti narrative gli Annales Altahenses maiores, ad a. 1058, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, IV, a cura di E. von Oefele, 1891²; i citati Annales Romani, in Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1955², e la vita di B. dovuta a P. Guglielmo, ibid., p. 279; per la bibliografia, oltre agli importanti lavori di G.B. Borino, L'arcidiaconato di Ildebrando, in Studi Gregoriani, III, Roma 1948, pp. 463-516, e di H.G. Krause, Das Papstwahldekret von 1059 und seine Rolle im Investiturstreit, ibid., VII, ivi 1960; v. G. Bossi, I Crescenzi di Sabina, Stefaniani ed Ottaviani, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 41, 1918, p. 163, con rinvio alle opere del Borgia e dello Zazzera.