Antisemitismo e antigiudaismo
Per secoli l'ostilità antiebraica non ebbe bisogno di etichette. In una società come quella cristiana, in cui le minoranze ebraiche vivevano nettamente separate dalla maggioranza e in cui le formulazioni teologiche e la stessa liturgia contenevano espressioni codificate di ostilità antiebraica, essa appariva come un atteggiamento naturale, che non necessitava di un nome. Le cose cambiarono quando il contesto esterno mutò, quando gli ebrei ottennero l'uguaglianza ed entrarono a far parte della società circostante e quando la crescente laicizzazione della società e della cultura resero obsolete le antiche formulazioni antigiudaiche. Fu allora che, nel nuovo clima culturale e scientifico razzista, nacque una nuova ostilità verso gli ebrei, e fu allora che venne coniato un termine con cui definirla, antisemitismo. Esso si affermò nel linguaggio comune nel 1879, quando il giornalista tedesco W. Marr lo adottò per la sua violenta campagna antiebraica. Il neologismo traeva origine dall'aggettivo semita, coniato dalla linguistica del 18° sec. per definire le lingue semitiche e poi slittato a definire i popoli che parlavano queste lingue, in primis arabi ed ebrei. Ma è bene precisare che fin dall'origine il termine antisemitismo fu usato a designare non una generica ostilità nei confronti di tutti i popoli semiti, ma solo quella nei confronti degli ebrei. Ancor più recente è l'origine del termine antigiudaismo, derivato dall'aggettivo antigiudaico e coniato nei primi anni del dopoguerra, quando la questione del rapporto tra la tradizione antiebraica della Chiesa e la Shoah (v.) si pose con forza all'attenzione degli studiosi, per designare la tradizione religiosa di ostilità antiebraica.
Usato inizialmente soprattutto per distinguere le colpe storiche della Chiesa da quelle del nazismo, nel momento in cui da molte parti si individuavano nella tradizione antiebraica della Chiesa le radici dell'antisemitismo, esso finisce per perdere ogni valenza apologetica nel corso della profonda trasformazione che la Chiesa fa delle sua considerazione degli ebrei, arricchendosi di sfumature e distinzioni, come quella recente tra un antigiudaismo teologico rivolto non contro gli ebrei ma contro la religione ebraica e "un antisemitismo a motivazione religiosa diretto contro le persone" (G. Cottier, Introduction a Radici dell'antigiudaismo in ambiente cristiano. Colloquio intraecclesiale, 2000, pp. 7-8). Agli inizi del 21° sec. il termine antigiudaismo è definitivamente entrato nell'uso corrente a designare "un'opposizione nei confronti degli ebrei sostenuta da un'ideologia religiosa e diretta in particolar modo contro la forma assunta dall'ebraismo in epoca postbiblica" (Stefani 2004, p. 11), cioè contro quello che si designa con l'etichetta di giudaismo.
La differenza tra le due categorie è profonda. Nel primo caso, nella polemica di radice antigiudaica, l'ebreo è combattuto fino a che resta tale e non sceglie la conversione. Nel secondo caso, l'ebreo resta tale qualsiasi sia la religione che professa. Nel primo caso, l'ebreo è oggetto di ostilità per quello che crede, nel secondo caso per quello che è. Nel primo caso, l'identità ebraica è provvisoria, soggetta a mutazioni. Nell'altro, è definitiva, naturale. Sono due diversi paradigmi interpretativi dell'identità ebraica, che tuttavia hanno presentato nella storia sovrapposizioni e intrecci, rendendo difficile agli studiosi tracciare linee di confine nette e ben delimitate.
L'antigiudaismo teologico
Dal 2° sec. in poi la Chiesa ha elaborato una teologia fortemente ostile all'ebraismo, che si è espressa soprattutto negli scritti antigiudaici dei Padri della Chiesa, da Giustino ad Agostino (e oltre, fin avanti nel Medioevo). Ma quale ne era il senso? Erano, queste formulazioni, soltanto un aspetto marginale della teologia cristiana, o le erano talmente connaturate da rappresentare "una parte intrinseca dell'esegesi cristiana" (R. Ruether, Faith and fratricide, 1974, p. 181)? E ancora, rappresentavano l'affermazione d'identità del cristianesimo vittorioso nel momento in cui si separava da un ebraismo sostanzialmente sconfitto, o l'espressione del conflitto tra due religioni in forte competizione, con un ebraismo vitale e attivamente proselitistico e in grado di contendere a lungo la vittoria al cristianesimo? In contrasto con l'immagine trasmessaci dei testi cristiani di un ebraismo rapidamente soppiantato dal cristianesimo, l'immagine di un giudaismo vitale fino al 4° sec., fatta propria da molti studiosi, sarebbe in grado da una parte di rendere ragione dell'asprezza della polemica antigiudaica, dall'altra di collocarla nel contesto tutto storico di un conflitto religioso, e non in quello teologico del conflitto tra verità ed errore (Gager 19852).
È in questo contesto di rivisitazione dei rapporti tra il primo cristianesimo e il giudaismo che l'attenzione degli studiosi si è appuntata, fin dall'opera di M. Simon, Verus Israel (la cui prima edizione è del 1948) su uno dei cardini del pensiero teologico di questi primi secoli, cioè la cosiddetta teologia della sostituzione, secondo la quale, con l'avvento di Cristo, Dio avrebbe sostituito l'antica elezione degli ebrei con la nuova elezione dei cristiani. Una formulazione a lungo accettata senza problemi, le cui valenze antigiudaiche sono state messe in luce soltanto in anni recenti, quando il suo abbandono da parte della Chiesa ha reso possibile valutarne appieno quelle che nella storia ne sono state le conseguenze. La teologia sostitutiva ha infatti rappresentato anche una teologia della subordinazione: è perché abbandonati da Dio che gli ebrei sono stati nei secoli schiavi (servi, termine da intendersi non in senso letterale ma teologico), che hanno vissuto privi di potere, senza patria, altari, tribunali. L'esilio diasporico, già interpretato dagli stessi testi ebraici come punizione dei peccati degli ebrei, diviene nella teologia cristiana la punizione voluta da Dio per la colpa di non aver accettato il Messia.
Il confine tra antisemitismo e antigiudaismo nel Medioevo e nella prima età moderna
Com'è noto, è soltanto tra il 6° e il 7° sec. che, non senza dubbi ed esitazioni, la Chiesa occidentale sancì definitivamente la possibilità di mantenere la presenza degli ebrei in seno alla società cristiana. Una presenza tuttavia che doveva essere subordinata a una rigida codificazione della loro inferiorità. In tale codificazione confluirono tanto la tradizione teologica della letteratura antigiudaica quanto le norme del diritto romano, che già dal 4° sec. avevano sancito le prime inferiorità degli ebrei, cioè il divieto del matrimonio tra ebrei e cristiani, la proibizione di costruire sinagoghe troppo visibili, il divieto di possedere schiavi cristiani. Iniziava quello che sarebbe stato chiamato, con un'immagine assai felice, l'insegnamento del disprezzo. È in un certo senso possibile considerare questo insegnamento del disprezzo come il prezzo che il mondo ebraico dovette pagare al fine di poter mantenere la sua presenza in seno al mondo cristiano. Tuttavia nella sua duplicità questo messaggio di presenza e disprezzo non poteva non essere un messaggio di difficile comprensione per l'insieme del popolo cristiano.
Contemporaneamente alla teorizzazione teologica del disprezzo, nasceva il problema delle sue ricadute sociali. Dall'11° sec. in avanti, queste ricadute sarebbero diventate sempre più diffuse, prendendo la forma di attacchi alle comunità ebraiche, come quelli che nel 1096 distrussero, a opera di gruppi marginali della Prima crociata, le comunità ebraiche renane, quella di violenze, conversioni forzate, di accuse di avvelenamento, diffusione della peste, omicidio rituale, profanazione dell'ostia: tutti fenomeni in cui è arduo tracciare il confine tra l'odio teologico verso l'ebraismo e l'impulso ad attaccare e distruggere gli ebrei in quanto persone. Di qui, la tendenza della storiografia a estendere la nozione di antisemitismo ai primi secoli dell'era cristiana, nell'intreccio tra le formulazioni più propriamente teologiche di rifiuto dell'ebraismo e quella vasta sfera di percezioni, miti, comportamenti ancorati nella sensibilità religiosa tanto del popolo cristiano quanto del clero, che sarebbero sfociati nel corso della storia in vessazioni, persecuzioni, discriminazioni.
Le radici di questo intreccio possono rinvenirsi fin nel pensiero delle origini, dove affiora un'immagine dell'ebreo centrata non soltanto sul suo rifiuto del cristianesimo o sull'uccisione di Cristo, ma sulla sua immoralità e carnalità e sulla natura diabolica e idolatra della sua religione, immagine che nel corso dei secoli avrebbe goduto di molta fortuna nelle formulazioni dall'ala della Chiesa maggiormente ostile agli ebrei e alla loro presenza. È all'interno di questa tradizione più radicale che nacquero all'inizio del 2° millennio le accuse di omicidio rituale, di sacrilegio dell'ostia, quella di avvelenamento dei pozzi e di contaminazione. È nella convinzione di una connaturata ostilità dell'ebreo nei confronti della società cristiana che il percorso della peste, nel 1348, fu accompagnato da attacchi alle comunità ebraiche, e da processi e roghi contro gli ebrei accusati di spargere la peste. Difficile, in questi casi, definire i confini tra l'antigiudaismo e l'antisemitismo religioso. Molte delle formulazioni antiebraiche di Lutero e del movimento luterano, per es., sembrano partire dal presupposto di una radicale diversità dell'ebreo. Invece, molte delle svolte che la Chiesa cattolica ha compiuto in questi secoli nei suoi rapporti con gli ebrei non escono dai confini dell'antigiudaismo. Così, il segno distintivo (rotella gialla, cappello, velo, e simili), sancito dal Concilio Laterano iv del 1215 ma non veramente imposto fino al 15° sec., obbedisce all'idea di separare i due mondi ma non implica realmente l'idea di una contaminazione portata dagli ebrei. La stessa cosa si può dire dei ghetti, creati in Italia nel 16° sec. per separare gli ebrei dai cristiani, ma volti essenzialmente al fine di convertirli. Altrettanto tradizionali sono le motivazioni che portarono la Chiesa cattolica a proibire il Talmud e a bruciarne sul rogo gli esemplari, come a Roma nel 1553, sotto l'accusa di contenere bestemmie contro la religione. Più incerti i confini dell'elaborazione dello stereotipo dell'ebreo usuraio, che affonda le sue radici nella vasta diffusione del prestito ebraico e nelle ostilità sociali che ne derivano, oltre che nella condanna ecclesiastica del prestito, ma che finisce per attribuire agli ebrei la volontà di colpire, attraverso il denaro, i cristiani, come nel personaggio di Shylock nel Mercante di Venezia di W. Shakespeare. Ancora più difficile tracciare questi confini nel caso della penisola iberica, dove alla metà del Quattrocento le leggi di limpieza de sangre, imponendo una discriminazione tra vecchi cristiani e nuovi cristiani (cioè i discendenti degli ebrei convertiti) riconducevano, in contrasto con la dottrina cristiana ma con l'assenso della Chiesa spagnola, l'ebraismo al sangue e non al credo religioso (Yerushalmi 1982).
L'antisemitismo nell'Ottocento
Il movimento politico antisemita che si diffuse in una vasta parte d'Europa (Francia, Impero austro-ungarico, Germania, Russia) negli ultimi due decenni dell'Ottocento rappresentò un fenomeno nuovo e in gran parte diverso dall'ostilità antiebraica che aveva caratterizzato il passato. Nell'Europa occidentale (diverso è il discorso per gli ebrei dell'Europa orientale, lontani da ogni prospettiva di emancipazione), esso prese di mira un mondo ebraico largamente emancipato e inserito nella società circostante, un ebreo che nulla, né l'apparenza fisica né il modo di vestire né i modi della vita in società, distingueva dagli altri cittadini. Diversi, e assai meno caratterizzati in senso religioso, sono gli elementi di questo nuovo stereotipo antisemita. Se per K. Marx già nel 1844 gli ebrei erano stati identificati con il capitalismo, e quindi considerati nemici della classe operaia, adesso gli ebrei erano visti come gli agenti di una finanza volta a impadronirsi del potere mondiale, legati a una rete tribale sopranazionale e stranieri negli Stati stessi che avevano loro concesso la cittadinanza, oscuri nemici che tramavano nell'ombra, facilitati dal fatto di essere divenuti indistinguibili dagli altri. Nella Francia di fine Ottocento, dove aveva preso piede un movimento antisemita assai radicale, l'arresto sotto l'accusa di tradimento, poi rivelatasi falsa, di un capitano ebreo dello Stato maggiore dell'esercito, A. Dreyfus, suscitò un clima violentemente antisemita e divise in due opposti schieramenti il Paese e la sua opinione pubblica. Nell'Europa dell'Est, dove gli ebrei erano ancora lontani da ogni emancipazione e dove forte era l'adesione dei più giovani ai movimenti rivoluzionari, d'altronde, essi furono in misura crescente percepiti come anarchici, socialisti, terroristi. L'assassinio nel 1881 dello zar Alessandro ii da parte di un gruppo populista per mano di un attentatore ebreo fu seguito da pogrom e persecuzioni che portarono la questione ebraica alla ribalta anche in Russia e seppellirono definitivamente l'ipotesi di una graduale emancipazione degli ebrei russi. Nei testi antisemiti dell'epoca, ebrei rivoluzionari ed ebrei capitalisti appaiono alleati per impadronirsi del mondo. Questa nuova immagine trova piena espressione in un testo, I protocolli dei Savi di Sion, pubblicato in Russia per la prima volta nel 1905 sotto forma di appunti, trovati e svelati al mondo, in cui i Savi di Sion, cioè i capi del movimento ebraico mondiale, avrebbero tracciato i loro piani segreti per impadronirsi del potere mondiale. Il libello fu riconosciuto come un falso nel 1921, ma questo non impedì che venisse pubblicato e diffuso in centinaia di migliaia di copie e fatto proprio da A. Hitler nella sua battaglia contro gli ebrei.
Tra gli ultimi decenni del 19° sec. e i primi decenni del 20°, questo antisemitismo poteva apparire come un residuo del passato, e come tale lo percepisce, vinta ormai la battaglia sul caso Dreyfus, anche molta parte del mondo ebraico. Poco o nulla lasciava presagire quali ne sarebbero stati gli esiti nella storia del Novecento. La tragedia della Shoah, e ancor prima la dimostrazione, con le leggi razziste tedesche e italiane, della reversibilità del processo di emancipazione, hanno però cambiato anche i criteri interpretativi di questo antisemitismo, e obbligato gli studiosi a reinterpretarne il ruolo nella storia e nella politica europea. Fondamentale è l'interpretazione datane, nel 1951, da H. Arendt nel suo lavoro The origin of totalitarism (trad. it. 2004), in cui l'antisemitismo appare come un movimento del tutto nuovo e moderno, radicalmente diverso dall'antigiudaismo, legato non tanto al nazionalismo quanto piuttosto alla disgregazione del sistema di Stati nazionali e avviato a diventare il catalizzatore di tutte le altre questioni politiche. Germinato in società moderne nonché profondamente laicizzate, questo nuovo antisemitismo non ha tuttavia totalmente reciso i suoi rapporti con l'antico stereotipo antigiudaico dell'ebreo usuraio, deicida, ostinato negatore del Cristo. Negli anni Novanta del 19° sec., in Austria, il leader del cattolico Christlichsozialen Partei, K. Lueger, fu eletto sindaco di Vienna su un programma antisemita. Nello stesso periodo in Francia, il mondo cattolico appoggiò senza incrinature le fazioni antisemite nel corso dell'affaire Dreyfus (1894-1906), un episodio che portò "le forze sotterranee del xix secolo alla ribalta della storia scritta" (Arendt 1951; trad. it. 2004, p. 168), rendendo così l'antisemitismo protagonista della storia europea.
Ma i legami tra l'antigiudaismo e l'antisemitismo sono più intimi di queste alleanze sostanzialmente politiche e riguardano l'antico rifiuto della Chiesa di accettare l'uguaglianza degli ebrei, cioè la loro partecipazione a ogni genere di potere. Su questa idea si era retta nei secoli la tradizionale convivenza tra minoranza ebraica e società cristiana. Ed era sempre in nome di questa tradizione che la Chiesa prese a considerare l'emancipazione come un rovesciamento della condanna degli ebrei a vivere servi, e quindi a combatterla. Nuovo è però il contesto in cui la Chiesa cattolica opera, quello della diffusione di un antisemitismo politico volto a colpire proprio gli ebrei emancipati e inseriti nella società: naturale che con questo antisemitismo la Chiesa trovasse connessioni e alleanze, dal momento che a essere in discussione, per gli uni come per gli altri, era il 'potere' degli ebrei. Negli ebrei emancipati e lontani dalla religione, inoltre, la Chiesa vedeva un tramite privilegiato di secolarizzazione, quando non di ateismo. A partire dal 1870, e dalla perdita del potere temporale, la battaglia della Chiesa cattolica contro gli ebrei si inasprì e assunse forme che consentono di catalogarla sotto l'etichetta di 'antisemitismo'.
Uno dei terreni principali dello scontro fu il Talmud, contro cui si scatenò una campagna, iniziata in Boemia da un canonico, A. Rohling, che nel suo Der Talmud-Jude (1871) lo attaccò come un testo pieno di bestemmie e di odio anticristiano. Le formulazioni di Rohling, che sfociarono nell'esortazione a impedire agli ebrei il godimento dei diritti civili, erano tutte nell'alveo della tradizione antigiudaica. Ma la sua recezione negli ambienti antisemiti europei fu vastissima, tanto che fu É.A. Drumont, l'autore de La France juive (1886), a scriverne la prefazione per l'edizione francese. Attraverso questa polemica, molte delle formulazioni più tradizionali dell'antigiudaismo sarebbero diventate parte integrante del nuovo pensiero antisemita, non ultima l'accusa di omicidio rituale, che si ripropose nell'Europa orientale generando pogrom e processi contro gli ebrei. È in questo contesto che la Chiesa cattolica, che pur nel 13° sec. aveva respinto l'accusa di omicidio rituale come una favola, la fece poi propria in una campagna di stampa assai violenta mossa dall'organo dei gesuiti La civiltà cattolica (Miccoli 1997). L'adesione della Chiesa di fine Ottocento al movimento antisemita non fu probabilmente senza conseguenze sul fatto che, contrariamente agli altri Paesi europei, l'Italia liberale ne fu invece in quei decenni sostanzialmente immune. Per le élites italiane, in rotta di collisione con la Chiesa cattolica, l'antisemitismo rappresentò un fenomeno da rigettare fra le superstizioni del passato, non certo un aspetto della modernità.
Antisemitismo politico e antisemitismo razzista
Nella seconda metà dell'Ottocento del 19° sec. l'idea, nuova nella cultura europea, che l'umanità fosse distinta in razze e che queste fossero suddivise tra razze dominanti, superiori (sostanzialmente quella bianca) e razze inferiori, destinate a essere dominate e guidate, divenne un'idea egemone, facilitata dall'avanzata del colonialismo e resa vincente dall'affermarsi della nuova cultura scientifica. Molti e anche contrastanti furono in realtà gli apporti alla nuova cultura razzista: in primo luogo quelli delle scienze, in particolare l'antropologia e l'eugenetica, che trovarono un punto di riferimento nel darwinismo sociale e nella sua enfasi sull'ereditarietà e la sopravvivenza del più forte, ma anche il diffuso spiritualismo divulgato in tutta Europa dalla Società Teosofica di Madame H.P. Blavatsky, con la sua esaltazione delle religioni indiane. Nasceva il mito ariano, che vedeva negli ariani popoli del Nord i portatori di creatività e forza vitale, e negli ebrei una razza inferiore, degenerata (Poliakov 1971). A operare la saldatura definitiva tra le prime teorie razziali e l'antisemitismo furono, verso la fine del 19° sec., i circoli pangermanisti tedeschi, in particolare il circolo wagneriano di Bayreuth, dove operò H.S. Chamberlain (Mosse 1978) il maggior teorico di queste dottrine. Meno stretta fu la connessione tra antisemitismo e razzismo in Francia, in cui l'antisemitismo, a parte il gruppo pur influente dei darwinisti sociali, restò fortemente caratterizzato in senso religioso, e quindi estraneo all'ideologia razzista. Il nuovo razzismo era infatti figlio della moderna cultura scientifica, che la Chiesa guardava con sospetto e con ostilità. L'immutabilità dei confini tra le razze, che presto divenne uno dei suoi dogmi più importanti, era quanto di più lontano ci potesse essere dalla concezione cristiana dell'uguaglianza di tutti gli uomini e della possibilità per tutti di convertirsi al cristianesimo. Ma al pari delle forme di odio antiebraico che lo hanno preceduto, l'antisemitismo razzista era una formazione complessa, in cui trovarono posto, sia pur snaturate ed estremizzate, molte delle tradizionali formulazioni antigiudaiche - in primis la denuncia del potere degli ebrei - e in cui si ripetevano molte delle antiche accuse medioevali. Gli ebrei avvelenatori del Medioevo diventano ora portatori di tare nascoste e contagiose, sifilitici per usare una metafora utilizzata da Hitler a designare lo stesso ebraismo, considerato come la tabe per eccellenza dell'umanità. Quella che si diffonde, tra il 19° e il 20° sec., è un'immagine radicalmente negativa dell'ebreo: razzialmente diverso, intento a minare dall'interno la società ariana, a contaminarla. Il miscuglio era nuovo ed esplosivo, ma non conteneva necessariamente in sé i germi di Auschwitz. Perché si concretizzasse nello sterminio degli ebrei d'Europa, non c'era solo bisogno dell'avvento al potere del nazismo in Germania e della guerra, ma c'era un passo ulteriore da fare, cioè l'inserzione della teoria razzista in un progetto di ordine nuovo mondiale dominato dalla cosiddetta razza ariana, i tedeschi e i popoli del Nord, in cui alcuni popoli (ebrei, zingari in primis) erano destinati inizialmente all'estinzione (attraverso politiche di eutanasia e di sterilizzazioni forzate) e poi allo sterminio nei campi, mentre altri (slavi, meridionali) erano destinati a essere ridotti in schiavitù. Un progetto che è stato definito neopagano dalla Chiesa, e che è lontano dalla tradizione cristiana e a essa fondamentalmente ostile. A queste teorizzazioni dell'antisemitismo nazista, il mondo cattolico fu evidentemente estraneo. D'altronde, il nazismo mutuò dalla tradizione antigiudaica molti strumenti, quali il segno distintivo, e molti termini per indicare realtà diverse, quale il termine ghetto, che designò ormai spazi chiusi dove gli ebrei di tutta Europa erano rinchiusi fino al trasporto nei campi. Ma in quello scorcio degli anni Trenta del 20° sec., fino a che la Shoah con le razzie degli ebrei e il loro assassinio sistematico non rese impossibile la commistione, i confini tra antisemitismo razziale e antisemitismo religioso non furono così netti. Nel 1938, sia pur da un punto di vista spiritualistico opposto a quello eugenetico, padre A. Gemelli sostenne e affiancò la campagna di stampa antiebraica. E ancora nel 1943, dopo la caduta del regime fascista, ignaro che gli accordi stessi dell'armistizio dell'8 settembre ne prevedevano la totale abrogazione, il gesuita padre P. Tacchi Venturi, parlando a nome della Santa Sede, poteva auspicare che una parte almeno delle leggi razziali del 1938 potesse essere mantenuta in vita dal nuovo governo presieduto da Badoglio, perché in accordo con la tradizione della Chiesa cattolica.
La svolta del Concilio
Il cambiamento non fu immediato. Né nei Paesi europei, sconvolti dalla guerra e inclini a vedere nella Shoah solo uno dei tanti terribili aspetti di questa guerra, né nella Chiesa fu facile la consapevolezza che un limite era stato superato, che si era verificato qualcosa che avrebbe obbligato a modificare la propria concezione del mondo. Ci vollero almeno quindici anni, prima che i primi interrogativi dell'immediato dopoguerra lasciassero il passo a quello che ormai consideriamo come un processo tutto particolare, quello di costruzione dell'idea stessa di Shoah. In questo ambito, se il ruolo degli Stati era quello di fare piazza pulita di ogni forma di antisemitismo e di fare sì che la memoria della Shoah divenisse fondante del futuro, quello della Chiesa fu di rivedere radicalmente il rapporto con l'ebraismo e di iniziare un'opera di insegnamento del rispetto che sostituisse quell'insegnamento del disprezzo di cui si cominciavano ad additare i rapporti con la tragedia della Shoah. È del 1959, sotto il pontificato di Giovanni xxiii, la cancellazione dalla liturgia dell'espressione tradizionale perfidis judeis. Un passo fondamentale fu compiuto dal Concilio Vaticano ii e in particolare dalla dichiarazione Nostra aetate (approvata dal Concilio sotto il pontificato di Paolo vi nel 1965) che riguardava i rapporti con tutte le religioni non cristiane, e il cui paragrafo 4, dedicato all'ebraismo, presentava un carattere fortemente innovativo. La dichiarazione cancellava tra l'altro l'antica accusa del deicidio, rivolta collettivamente al popolo ebraico, mentre più ambigua fu, almeno inizialmente, la rinuncia alla tradizionale teologia della sostituzione. La Nostra aetate apriva la strada a un vasto processo di revisione e reinterpretazione dei rapporti con l'ebraismo, affidato alle dichiarazioni dei vertici della Chiesa come all'opera dei gruppi di Amicizia ebraico-cristiana, sorti numerosi sulla scia del Concilio, e successivamente a un'opera di insegnamento volto a mutare anche la catechesi tradizionale. Ulteriori passi avanti sono stati compiuti sotto Giovanni Paolo ii, alcuni di carattere teologico altri dalla forte valenza simbolica, come la visita compiuta nella Sinagoga di Roma nel 1986, la prima visita compiuta in sinagoga da un Papa, e la visita in Israele nel 2000, con il pellegrinaggio al Muro del Pianto. Importante è stata anche, in preparazione del Giubileo del 2000, una serie di iniziative (colloqui, documenti e dichiarazioni) in cui la Chiesa faceva ammenda del suo comportamento passato nei confronti degli ebrei e in cui si sottolineava apertamente il ruolo che l'antigiudaismo della Chiesa aveva avuto nell'indebolire le coscienze dei cristiani di fronte all'antisemitismo e alla Shoah. Nel 2005, Benedetto xvi, un papa tedesco, ha visitato la Sinagoga di Colonia, riaffermando con forza la linea del suo predecessore, e aprendo nuove prospettive di dialogo teologico. Il mutamento del rapporto con gli ebrei appare senza ritorno, la teologia aperta ai cambiamenti.
Antisionismo e antisemitismo
Mentre in Europa cresceva e prendeva sempre più forza la consapevolezza della Shoah e il dialogo ebraico-cristiano, una nuova forma di antisemitismo cominciava a diffondersi, l'antisionismo. Esso aveva origine nel mondo arabo, ed era legato direttamente a un conflitto di natura politica, quello tra i Paesi arabi e il nuovo Stato di Israele, fondato nel 1948. In Europa, esso cominciò a diffondersi soltanto nel 1967, dopo la guerra dei Sei giorni, che vide esacerbarsi il conflitto israelo-palestinese. Ma nei Paesi arabi l'antisionismo aveva radici che precedevano la nascita dello Stato di Israele e lo stesso inizio della lunga emigrazione ebraica, legati alla penetrazione, attraverso il colonialismo europeo, dell'antisemitismo occidentale e all'incontro di questi influssi con il declino dell'Impero ottomano e la disgregazione degli antichi equilibri tra le minoranze (cioè gli infedeli ebrei e cristiani) e la maggioranza musulmana. Per secoli questo equilibrio, fondato sulla sottomissione e sul pagamento di una tassa (dhimma), si era mantenuto e aveva consentito agli ebrei condizioni di vita più tranquille che nel mondo cristiano. A partire dall'inizio del 19° sec., tuttavia, la penetrazione europea aveva alterato radicalmente l'antico sistema della dhimma, mentre gli influssi dell'antisemitismo europeo non mancarono, alla fine del secolo, di farsi sentire fra le minoranze cristiane, che l'influenza occidentale aveva sottratto al loro statuto di inferiorità. Nel 1840, fece la sua clamorosa comparsa a Damasco l'accusa di omicidio rituale: la presunta vittima era un frate cappuccino, accusato fu l'intero gruppo di notabili della Comunità ebraica, mentre il console francese soffiava sul fuoco e l'Inghilterra si schierava in difesa degli ebrei. Nelle terre ottomane, frequenti e ricorrenti furono da allora in poi, nel corso del 19° sec., simili accuse. Alla fine del secolo, numerosissime furono le traduzioni arabe della letteratura antidreyfusarda, mentre la prima edizione araba dei Protocolli apparve al Cairo nel 1927. La fusione nel mondo arabo dell'antisemitismo europeo con l'antico disprezzo islamico per la minoranza ebraica si realizzava così nel momento stesso in cui nasceva la questione sionista, e si intrecciava con questo problema, che era di per sé un problema politico. L'antisionismo non ha infatti, da un punto di vista teorico, nulla a che vedere con l'antisemitismo, e ha rappresentato originariamente l'opposizione al progetto sionista di costituzione di uno Stato ebraico in Palestina. Essenzialmente politica fu, per es., la durissima opposizione al sionismo condotta dal governo ottomano, anche se non mancarono voci inclini a far propri gli stereotipi dell'antisemitismo europeo. Ma negli anni Trenta e Quaranta, mentre si intensificava l'emigrazione ebraica in Palestina e si accentuava lo scontro tra arabi ed ebrei, ampia fu la diffusione della propaganda antisemita nazista sui movimenti nazionalisti arabi. Vicinissimo a Hitler fu, com'è noto, Amin al Hussein, Gran Muftì di Gerusalemme, convinto antisionista e ancor più convinto antisemita. Questa mescolanza divenne esplosiva dopo la fondazione dello Stato di Israele, nel 1948, e il nascere del conflitto israelo-palestinese, dando vita a una forma di violento antisemitismo, in cui la guerra contro lo Stato di Israele e il sionismo trovano la loro giustificazione ideologica nei più vieti stereotipi antiebraici, un processo che il fondamentalismo islamico e il terrorismo internazionale hanno ulteriormente potenziato. Al suo centro, l'idea di un complotto sionista-occidentale contro i Paesi islamici e la negazione della Shoah, vista come un mito occidentale finalizzato a spossessare delle loro terre i palestinesi a favore degli ebrei. In un contesto europeo in cui, dopo la Shoah, l'antisemitismo tradizionale era diventato tabù, questa ideologia di antisemitismo e terzomondismo si è diffusa nella parte più radicale della sinistra, legittimata dal sostegno alla causa palestinese. Tutto questo rende difficile distinguere l'antisionismo dall'antisemitismo e tracciare una linea netta di confine tra l'opposizione alla politica dello Stato di Israele e questo antisemitismo che è alla base di fenomeni nuovi, quali la lotta contro l'Occidente dei fondamentalisti islamici e l'ostilità antiebraica sempre più diffusa fra gli immigrati arabi in Occidente.
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