CENTELLES (Centeglia, da Ventimiglia), Antonio
Primogenito di Gilberto, uomo d'armi di origine catalana, trapiantato in Sicilia, e di Costanza Ventimiglia, figlia del conte di Collesano, il cui cognome usò alternativamente e talvolta contemporaneamente a quello paterno, nacque agli inizi del XV sec. o negli ultimi anni di quello precedente. Seguì Alfonso d'Aragona con altri parenti materni, quando questi, dopo aver invano tentato di riavvicinarsi a Giovanna II, dopo la morte della regina partì dalla Sicilia, nel 1435, diretto nel Regno per rivendicarne il possesso. Come si sa, il sovrano, distoltosi dall'assedio che aveva posto a Gaeta, accettò battaglia con la flotta genovese, subendo presso Ponza il 5 agosto una grave sconfitta. Il C. divise con l'Aragonese la prigionia a Milano (T. De Marinis, La liberazione di Alfonso V d'Aragona, in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., XXXIV [1953-54], p. 103), e, dopo la sorprendente liberazione di questo da parte di Filippo Maria Visconti, seguì il re che raggiunse Gaeta il 2 febbr. 1436, da dove dette inizio alla lotta settennale contro Renato d'Angiò. Condottiero regio di gente d'armi, il C. divenne in questo periodo anche camerlengo della corte sovrana.
Nel frattempo la situazione in Calabria, in cui era stato nominato giustiziere Carlo Ruffo, conte di Sinopoli, cognato del C., non si era andata evolvendo secondo i piani e i desideri di Alfonso d'Aragona, che nell'estate del 1437 vi inviò il C., come viceré. In tre anni, con coraggio, con abili trattative, con decisione ed entusiasmo egli seppe conquistare alla causa aragonese quasi completamente la regione, senza inoltre alienare il Ruffo dalla devozione al re e ottenendone anzi una totale collaborazione.
Durante questo triennio probabilmente nel 1439, il C. portò a compimento anche un'abile operazione per il suo personale vantaggio. Egli riuscì infatti a sposare, con l'appoggio del conte di Sinopoli, Enrichetta Ruffo, donna di grandi qualità, ricchissima e di notevole bellezza, ma soprattutto padrona di vastissimi, seppur non contigui, possessi feudali, costituiti dal marchesato di Crotone, dalle contee di Catanzaro e di Belcastro, oltre che da numerose baronie e da moltissime signorie. L'eccezionalità delle doti di questa nobildonna aveva fatto sì che il re avesse desiderato di accasarla a un amico della casa d'Aragona, e aveva, pare, per questo incaricato il C. di fare sondaggi e di porre le basi per un eventuale matrimonio fra lei e Iñigo d'Avalos. Come si è detto, il viceré di Calabria conseguì per sé medesimo un partito tanto appetibile, divenendo così marchese di Crotone e conte di Catanzaro. Con questi titoli egli partecipò al fastoso corteo che solennizzò l'ingresso di Alfonso d'Aragona a Napoli il 26 febbr. 1443; due giorni dopo, prima di tornare a esercitare il suo ufficio in Calabria, prese parte al Parlamento indetto dal re nella capitale.
L'anno successivo, avendo preso posizione, insieme con Filippo Maria Visconti, in favore del pontefice nel conflitto che opponeva quest'ultimo a Francesco Sforza, il sovrano adunò presso Capua i baroni del Regno, per muovere poi contro il nemico. Lì si diresse ai primi di luglio il C. con 300 cavalli, ma prima che fosse giunto al campo regio apprese dal luogotenente del re, Giovanni Ventimiglia, suo zio materno, che il sovrano, se avesse osato presentarglisi innanzi, gli avrebbe inferto una terribile punizione.
Non è chiaro di quali colpe si fosse macchiato il C. per meritare la riprovazione e le minacce del re. La maggior parte degli storici meno recenti concorda nell'indicare come causa dell'ira e del risentimento la mancanza di lealtà dimostrata dal C. prendendo in moglie la Ruffo in contrasto con i disegni reali; ma è certo che questo motivo ormai remoto di rincrescimento non può essere stato determinante. Oltre al fatto che il C. doveva aver assunto un diverso atteggiamento nei confronti dell'autorità regia, da quando, da seguace fedele ed entusiasta, ma privo di fortuna, al seguito del re in una terra a lui estranea per nascita e per origini, era divenuto uno dei grandi baroni del Regno, sicuramente egli doveva anche essersi compromesso in qualche precisa impresa contro il sovrano.
Così si comprende l'esatta e immediata valutazione della portata dell'ira dell'Aragonese da parte del C., e come il re a sua volta non si ritenesse, almeno per il momento, soddisfatto di quello che poteva apparire un forzato allontanamento del barone dall'esercito e dal seguito regio; il re, comprendendo che il ritorno del C. nei suoi feudi non sarebbe stato senza conseguenze, affidò, mentre già si era posto in viaggio verso la Marca d'Ancona,le truppe a due luogotenenti e ritornò a Napoli, per proseguire in seguito per la Calabria. Lì il C., osando inviare lettere oltraggiose al re e al figlio, aveva assunto un atteggiamento di vera e propria ribellione, coinvolgendo in essa parte della regione. Arrivato in Calabria nell'ottobre, il Magnanimo si accinse a porre energicamente in atto la repressione e, dopo aver conquistato Roccabernarda, Santa Severina e Belcastro, investì Crotone e ne ebbe ragione alla fine del gennaio 1445. Il C., che aveva partecipato alla difesa della cittadina, ma che si era poi trasferito a Catanzaro, si preparò ad affrontare qui l'assalto dell'esercito regio. Egli però, deluso dal mancato intervento in suo favore dei Veneziani, su cui aveva sperato, seguito da un numero esiguo di baroni e da non molti contadini e vassalli, si rendeva conto di essere isolato. A metà febbraio prese allora la decisione di arrendersi, rimettendosi alla clemenza sovrana. Con la moglie e i figli si recò al campo regio, dove si gettò inerme ai piedi di Alfonso; ebbe da questo salva la vita per sé e per i suoi, ma i suoi beni feudali furono tutti confiscati; inoltre gli fu imposto l'obbligo di vivere a Napoli, privatamente.
Trasferitosi nella capitale, il C. non resistette a lungo nell'atmosfera di sospetto di cui era circondato e nell'inattività cui era costretto e fuggì a Venezia, dove si pose al soldo della Repubblica con 400 cavalli. Nell'ottobre del 1447 aveva il compito di presidiare Melzo, ma ai primi di maggio, dell'anno successivo passò al servizio della Repubblica ambrosiana. Militando sotto lo Sforza, egli prese parte il 15 settembre alla battaglia di Caravaggio e, accordatosi questi poco dopo con i Veneziani, l'8 dicembre il C., che precedentemente aveva conquistato Lodi per i Milanesi e che avrebbe firmato la sua condotta con lo Sforza l'11 gennaio dell'anno dopo, con i suoi 500 cavalli si allontanò da Milano e si unì al condottiero. Nel 1449 fu inviato a Cantù, dove venne raggiunto nel maggio da emissari della Repubblica milanese, che cercarono inutilmente di attrarlo di nuovo dalla loro parte. Alla fine dell'anno e nel gennaio del 1450 ebbe la sorte contraria in due scontri con i Veneziani e, sconfitto, si rifugiò a Cantù. Subito dopo però Francesco Sforza, informato delle trattative segrete che conduceva con agenti veneziani nell'intento di cambiare ancora una volta bandiera, lo fece imprigionare, prima a Lodi e poi nel castello di Pavia. Qui il C. godette di un trattamento di riguardo, potendo ricevere visite e usufruire della lettura di volumi della biblioteca ducale. Ai primi di marzo del 1452, corrompendo due guardie, il C. riuscì a porre in atto la fuga, favorita, pare, dallo stesso Sforza, che soddisfece così a una richiesta, sia pure non ufficiale, del re di Napoli in favore del barone, liberandosi nello stesso tempo di un incomodo personaggio. La magnanimità di Alfonso d'Aragona verso il C. si manifestò inoltre con la concessione a più riprese di aiuti finanziari alla marchesa di Crotone rimasta a Napoli, e in ultimo, in epoca imprecisata, con il permesso di tornare nella città partenopea accordato al C., cui fu pure conferita la carica di siniscalco. Con questo titolo il C. fece parte del seguito di Lucrezia d'Alagno, quando, nell'autunno del 1457, ella si recò a Roma a impetrare dal papa l'improbabile grazia dello scioglimento del matrimonio che legava il re di Napoli, suo amante, alla regina Maria di Castiglia.
Morto Alfonso d'Aragona il 27 giugno 1458 e caduta ben presto la candidatura alla successione di Carlo di Navarra, conte di Viana, che i baroni contrapponevano a Ferdinando, il figlio illegittimo di Alfonso, da lui designato a succedergli, il C. abbracciò il partito dei sostenitori di Giovanni, figlio di Renato d'Angiò, allora luogotenente del re di Francia a Genova. Portatosi da Napoli a Marigliano, egli, che già prima della morte di Alfonso aveva espresso propositi di vendetta e di ribellione, con la famiglia raggiunse alla fine di agosto a Taranto il principe Orsini al quale facevano capo, pur non avendo egli interrotto i rapporti con Ferdinando, tutte le trame angioine.
Qui il C. riuscì a fidanzare il suo primogenito, Antonio, a una figlia dell'Orsini, che assumendo su di sé tutti i problemi del consuocero, prese a contrattare con Ferdinando la restituzione dei beni feudali del barone. È dir poco definire complicate le contrattazioni che fra i due si avviarono, si svolsero, si disfecero, si ricomposero. Dopo dieci mesi fu raggiunto un accordo, che prevedendo la consegna dei feudi del C. al principe Orsini garantiva la restituzione di essi al figlio del C. stesso. L'accordo, viziato dalla reciproca sfiducia, fu superato dall'azione intrapresa dal C. il quale nel frattempo, eludendo gli ostacoli frappostigli da Ferdinando, aveva raggiunto con la famiglia la Calabria, dove si apprestò a coagulare intorno a sé tutti gli oppositori antiaragonesi.
Dopo aver scritto, come già altra volta, ingiuriosamente al re, il C. iniziò prima di tutto la riconquista dei suoi feudi, senza cessare di esplicare una propaganda appassionata contro l'Aragonese. In breve guadagnò alla causa di Giovanni d'Angiò la maggior parte dei baroni calabresi ed eccitò con successo alla sommossa molte popolazioni rurali e cittadine; inoltre riuscì anche ad avere il controllo delle coste. Mentre le trattative fra Ferdinando e l'Orsini continuavano, assumendo le caratteristiche di un colloquio fra sordi, una qualche speranza di aver ragione del C. fu suscitata nel re dalle vittorie che i suoi inviati Alfonso d'Avalos e Carlo di Campobasso riportarono sul C. a Zagarise, a Taverna, intorno a Belcastro il 9 maggio 1459 e successivamente sui villani cosentini, capitanati da Cola Tosto, a Sant'Eufemia il 2 giugno. Non essendo però queste vittorie determinanti, e continuando la regione a essere teatro di estremo disordine e di sanguinose rappresaglie, Ferdinando decise di recarvisi di persona. Durante il viaggio egli, che non aveva cessato di trattare con l'Orsini, non si mostrò contrario a un riavvicinamento con il C., ed anzi fece liberare i due fratelli del barone, Giacomo e Alfonso, caduti prigionieri, ma si guardò bene dal fare in concreto qualsiasi concessione. Giunse sulla Sila ai primi di settembre e, attaccato Castiglione presso Cosenza, lo conquistò e lo dette alle fiamme. La vittoria pose fine alla rivolta: i baroni calabresi ribelli, ridotti all'obbedienza, furono pochi giorni dopo (22 settembre) riuniti dal sovrano a parlamento a Cosenza.
Intanto, già dall'agosto, gli approcci del C. verso il monarca si erano fatti più decisi e precisi. Dopo aver offerto a Ferdinando di far desistere dalla rivolta i Casali vicino Cosenza, fece prospettare al re la possibilità e l'opportunità di un matrimonio fra una sua figlia e un figlio bastardo di lui. Con subdola pazienza il re fece vista di considerare con benevolenza tutte le proposte, cosicché il 20 settembre, mentre il sovrano era accampato a Piano del Lago, fra Cosenza e Nicastro, il C. raggiunse il campo regio, dove si ripeté la scena di quattordici anni prima, che aveva avuto allora come secondo protagonista Alfonso d'Aragona. Anche questa volta il C. parve ottenere il perdono del re, che lo trattò con affabilità ed amore, ma il giorno dopo, quando, secondo gli accordi, egli raggiunse di nuovo il campo, fu imprigionato insieme con il fratello Giacomo e le altre persone del seguito. Dopo essere stati detenuti per poco tempo a Martirano, essi furono trasferiti nel castello di Cosenza prima e quindi in Castelnuovo a Napoli. Il C. rimase in carcere fino al 23 apr. 1460, quando, con il sistema già una volta adottato della corruzione di una guardia, riuscì a evadere.
Dopo una sosta a Marigliano, raggiunse il principe di Taranto, mentre nel frattempo le sorti della guerra parevano volgere al peggio per Ferdinando d'Aragona, battuto a Sarno il 7 luglio dalle forze angioine guidate da Giovanni d'Angiò, giunto nel Regno nel novembre precedente. Più che prendere parte attiva alla guerra il C., che nell'agosto sottoscrisse con gli altri baroni angioini una lettera a Pio II da Castellammare di Stabia, con la quale si invocava l'aiuto o almeno la neutralità del papa, attese in Puglia ad arruolare uomini per tornare in Calabria. Riuscito a malapena a radunare un esiguo numero di armati, si pose in mare e raggiunse le coste calabre ai primi del 1461. Per la seconda volta quindi il barone, il cui destino sembrava ripetersi, tornava in Calabria, privo di mezzi di fortuna, nel tentativo di recuperare i suoi feudi. Cercato invano di ottenere il possesso di Catanzaro, il C. si unì a Giovanni Battista Grimaldi, viceré dell'Angiò. Si trovava a Nicastro, quando si avvicinò a questa località l'esercito regio, guidato da Roberto Sanseverino e da Roberto Orsini, reduce dalla conquista e dal saccheggio di Cosenza (8 febbraio). I due angioini si trasferirono allora a Maida e nel giugno sostennero vittoriosamente presso i Casali di Cosenza uno scontro con Luca Sanseverino. Mentre gli esiti della lotta rimanevano incerti, Ferdinando inviò in Calabria nel settembre Maso Barrese. Questa terrificante presenza nella regione, il fatto di non aver potuto recuperare i feudi, la dipendenza dal Grimaldi, il comprendere forse l'inanità di una lotta sanguinosa, costellata di episodi di inaudita barbarie, convinsero a questo punto - si era nel novembre 1461 - il C. a scrivere al re offrendo la sua sottomissione ed impetrando il perdono. Le trattative, di cui Ferdinando incaricò lo zio del C., Giovanni Ventimiglia, giunsero a buon fine, e quando il 18 ag. 1462 l'Aragonese conseguì sul rivale la decisiva vittoria nei pressi di Troia, il C. aveva già ottenuto il 24 giugno, il decreto di restituzione dei feudi e l'indulto. Egli riprese allora a combattere, ma sull'altro campo a fianco di Maso Barrese e accanto ad Alfonso primogenito del re, quando questi fu inviato dal padre in Calabria nella primavera del 1463. Partecipò così a tutta l'ultima parte della campagna aragonese nella Calabria, prendendo parte ai fatti d'arme di Seminara, Pentedattilo, Fiumara.
Ormai Ferdinando d'Aragona aveva riconquistato il Regno e la sconfitta degli oppositori fu sancita dalla partenza dell'Angiò verso Ischia prima e quindi verso la Provenza nella primavera del 1464. Il C. attese allora alla riorganizzazione dei suoi feudi di recente recuperati, cui, anche a risarcimento della mancata restituzione di qualche terra e a ringraziamento della lealtà dimostrata combattendo nelle file aragonesi, il re volle aggiungere nel giugno 1464 Santa Severina, con il titolo di principe. Il 15 ott. 1465 un altro avvenimento parve consolidare la fortuna del C., il matrimonio, cioè, di una sua figlia, Polissena, con Enrico d'Aragona, figlio naturale di Ferdinando. Fu questo stesso genero, che pochissimi mesi dopo, fra il gennaio ed il marzo dell'anno seguente, in Santa Severina arrestò il C. per ordine del re. È difficile credere che il barone avesse commesso qualche nuova imprudenza nei riguardi del sovrano. Ormai invecchiato, tornato in possesso dei suoi feudi, godeva di una posizione invidiabile, in un momento storico tutto volto in favore di Ferdinando. Quale febbre invincibile di autodistruzione l'avrebbe dovuto spingere ad operare contro il monarca? L'analogia con i casi di altri nemici interni rende la tardiva vendetta del re la spiegazione più probabile del suo arresto. Anche perché, condotto in Castelnuovo a Napoli, il C. non ne uscì più, né di lui si ebbe mai più notizia.
Aveva avuto da Enrichetta Ruffo tre figli, Antonio, Giovanna e Polissena, e aveva sposato in seconde nozze Costanza Morano. Tristano Caracciolo dedicò al C. un breve profilo biografico nel suo opuscolo De varietate fortunae (T.Caracciolo, Opuscula, in Rer. Ital. Script.,2 ed., XXII, 2, a cura di G. Paladino, p. 91), facendone un testimone della variabilità della sorte umana.
Nell'infelice destino del C. fu coinvolto il figlio Antonio, il quale alla scomparsa del padre si trovò privato dei feudi, che passarono ad Enrico d'Aragona e successivamente al figlio di lui, da cui furono rifiutati. Antonio si rifugiò allora in Sicilia, probabilmente presso la famiglia della nonna e visse nell'ombra, fino a vent'anni dopo, quando, all'epilogo di un altro terribile scontro fra Ferdinando e i baroni, egli, dopo aver scambiato messaggi con gli ex ribelli, attraverso un suo segretario, che a Roma si era abboccato con il principe di Salerno, inviò loro nel giugno 1487 una fusta da Messina, per farli fuggire, provocandone invece la cattura.
Sceso Carlo VIII in Italia e dissoltasi la potenza aragonese, egli ricomparve nel Regno, per rivendicare i possessi paterni, dei quali gli fu restituita dal sovrano francese solo una parte, fra cui Catanzaro, eretta a ducato. Ritornati gli Atagonesi sul trono, fuggì di nuovo e si diede a corseggiare le coste dello Ionio. Nel maggio del 1498 era assediato a Roccella (Reggio Calabria), quando acconsentì a scendere a patti, ottenendo da re Federico un salvacondotto per lasciare il Regno via mare. Imbarcatosi, fu catturato dai Turchi e morì schiavo a Costantinopoli, offrendo agli storici, a differenza del padre, testimone di una fortuna variabile, un esempio di costante sfortuna.
A lui nel 1475 il carmelitano Giov. Andrea Ferabos dedicò la sua traduzione in italiano delle Epistolae di Falaride (Ind. gen. d. incunaboli d. Biblioteche d'Italia, n. 7706).
Fonti e Bibl.: G. Simonetta, Rerum gestarum Francisci Sfortiae Mediolanensium ducis commentarii, in Rer. Ital. Script.,2 ed., XXI, 2, a cura di G. Soranzo, pp. 150, 203, 215, 226, 232, 244, 249, 258, 260, 264, 272 s., 275, 277, 298, 301 s., 304, 321-23, 326 s., 329-334, 424 (confuso nell'indice con lo zio Giovanni); Cronaca di ser Guerriero da Gubbio, ibid., XXI, 4, a cura di G. Mazzatinti, p. 69; Diurnali del duca di Monteleone, ibid., XXI, 5, a cura di M. Manfredi, pp. 188-90, 206 s.; Cronica di Napoli di notar Giacomo, a cura di P. Garzilli, Napoli 1845, pp. 113, 164; Le codice aragonese, a cura di A. A. Messer, Paris 1912, pp. XXXV, CXXXI s., 82, 94, 115, 118, 121 s., 138, 140, 150, 157, 174, 236 s., 242, 283-86, 289-292, 323, 454, 458, 482, 487; A. Colombo, Due mem. ined. della Repubblica ambrosiana, in Arch. stor. lomb., XLVIII (1921), pp. 179, 183; E. Resti, Docum. per la storia della Repubblica ambrosiana, ibid., s. 8, V (1954-55), p. 221; Il registro "privilegiorum summariae XLIII" …, a cura di J. Mazzoleni, Napoli 1957, pp. 18-20, 25, 38 s.; I registri della cancell. vicereale di Calabria (1422-1453), a cura di E. Pontieri, Napoli 1961, p. X; Regis Ferdinandi primi instructionum liber, a cura di L. Volpicella, Napoli 1916, pp. 315-18; C. Minieri Riccio, Alcuni fatti di Alfonso I d'Aragona, in Arch. stor. per le prov. napol., VI(1881), pp. 15, 34; C. Porzio, La congiura de' baroni...,a cura di E. Pontieri, Napoli 1958, pp. 41, 174 (per i Processi si veda l'edizione a cura di S. D'Aloe, Napoli 1859, pp. CXLIII-CLVII, CLXIII s., CLXXIV, CXC; F. Nunziante, Iprimi anni di Ferdinando d'Aragona, in Archivio storico per le prov. napol., XVIII (1893), pp. 425 s., 429 ss., 434 ss., 439 ss., 443 ss., 563, 565, 571, 575, 578-83, 588, 594 s., 606 s., 610, 612 s.; XIX (1894), p. 329; XX (1895), pp. 481, 505 s.; E. Pontieri, La Calabria a metà del sec. XV e le rivolte di A. C., Napoli 1962, passim (cui si rimanda per ulteriori indicazioni di fonti e bibl.).