Gramsci, Antonio
Intellettuale e politico, nato ad Ales nel 1891 e morto a Roma nel 1937.
In una lettera dal carcere di Turi alla cognata Tatiana Schucht, in data 23 febbraio 1931, G. ricorda come il suo interesse per M. risalisse agli anni della formazione universitaria a Torino, anche per impulso del docente di letteratura italiana, Umberto Cosmo:
quando vidi il Cosmo, l’ultima volta, nel maggio 1922 […] ancora insistette perché io scrivessi uno studio sul Machiavelli e il machiavellismo; era una sua idea fissa, fin dal 1917, che io dovessi scrivere uno studio sul Machiavelli, e me lo ricordava a ogni occasione (Lettere dal carcere 1926-1937, a cura di A.A. Santucci, 1996, p. 399).
Nonostante tale testimonianza, non sono molti i riferimenti a M. negli scritti fino al 1926. Il G. giornalista militante, anche sulla scorta di Benedetto Croce, non ripudia la politica come forza, ma prende le distanze da chi si rifà a quella ‘ragion di Stato’ fatta discendere da Machiavelli. Gli sono invise le «varie formule escogitate dal bolso machiavellismo nostrale» (così in un articolo del 22 marzo 1916, in Cronache torinesi 1913-1917, a cura di S. Caprioglio, 1980, p. 210), ed egli accomuna machiavellismo e giacobinismo, fino al 1921 letto come fenomeno negativo. Scrive G. sull’«Avanti!» del 18 maggio 1919:
I signori statisti italiani e francesi […] discendono direttamente da Machiavelli, hanno esplicitamente rimesso sugli altari la ragion di Stato come criterio sovrano [...]. Questi Machiavelli del realismo capitalistico sono essenzialmente giacobini: delle leggi, dei trattati si son fatti dei feticci (L’Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana, A.A. Santucci, 1987, p. 28).
Tuttavia, una cosa è M., un’altra il ‘machiavellismo’. Non mancano ripetuti richiami in positivo al Segretario fiorentino: «L’Italia – scrive il 2 novembre 1918 – è la culla del metodo sperimentale applicato alle scienze sociali dal Machiavelli e applicato alle scienze fisiche da Galileo» (Il nostro Marx 1918-1919, a cura di S. Caprioglio, 1984, p. 389). E il 7 novembre 1919: «Come per Machiavelli la religione non era che un mezzo per il consolidamento del principato, così per quel Machiavelli in sessantaquattresimo che è Giolitti il socialismo è un mezzo per l’“ordinaria amministrazione” dello Stato. E lo Stato giolittiano non ha certo nulla della bellezza ideale, degli attributi propri del “Principato” di Machiavelli» (L’Ordine Nuovo 1919-1920, cit., p. 288). Ancora, in una lettera scritta a Lev Davidovič Trockij nel 1922 G. ricorda che
a Milano poco tempo fa è stato fondato un settimanale politico, ‘Il principe’, che si richiama o cerca di richiamarsi alle stesse teorie che Machiavelli predicava per l’Italia del Cinquecento: la lotta, cioè, tra i partiti locali che conducono la nazione verso il caos, dovrebbe essere accantonata per opera di un monarca assoluto, novello Cesare Borgia, che si ponga alla testa di tutti i dirigenti dei partiti in lotta (Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, 1966, p. 527).
L’opinione che il giovane G. si è fatto di M. è anche deducibile dalla citazione, in un articolo sul l’«Avanti!» del 10 marzo 1917, di una strofa di Giuseppe Giusti (→): «Dietro l’avello / di Machiavello / giace lo scheletro / di Stenterello». A cui G. fa seguire il commento: «È tutta una caterva di Stenterelli quella che circonda la persona di un solo Machiavello» (La città futura 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, 1982, p. 84). La contrapposizione con Stenterello – che sarà ripresa ripetutamente da G. – indica la pochezza delle forze e dei protagonisti della vita politica, a paragone della concezione della politica di M., forse «cinica», ma seria e grande. Ancora nell’ottobre 1926, alla vigilia dell’arresto, G. ripete il motto di Giusti aggiungendo: «Il nostro ‘Machiavelli’ sono le opere di Marx e Lenin» (La costruzione del partito comunista 1923-1926, 1971, p. 351).
Si può in definitiva affermare, in base alle citazioni e alla testimonianza autobiografica ricordata, che G. negli anni universitari e della militanza politica abbia letto le opere di M. e dia rilievo al suo pensiero, pur non facendone (ancora) un punto di riferimento centrale nella propria elaborazione politica.
L’approfondimento del pensiero di M. giunge con gli anni del carcere. La sconfitta subita dal movimento comunista di cui G. fa parte lo induce a un ripensamento che investe alcune delle categorie politiche che reputa fondamentali: la rivoluzione, la fondazione di un nuovo Stato, il partito rivoluzionario. Un ruolo importante ha poi la ripresa degli studi su M. degli anni Venti, con le riletture proposte nel 1927, in occasione del centenario della morte. In una lettera a Tatiana del 14 novembre 1927, G. scrive: «Quando cadde il centenario del Machiavelli lessi tutti gli articoli pubblicati dai 5 quotidiani che allora leggevo; ricevetti più tardi il numero unico del ‘Marzocco’ sul Machiavelli» (Lettere dal carcere 1926-1937, cit., p. 133). Già poco dopo l’arresto, dal provvisorio confino di Ustica, il 27 dicembre 1926, in una delle prime lettere alla cognata, che con Piero Sraffa costituiva il principale anello di collegamento tra il prigioniero e il suo partito, G. aveva chiesto il libro «su Machiavelli di Francesco Ercole» (p. 24). Ora non solo richiede raccolte o antologie di scritti di M., ma aggiunge un’annotazione che già illumina sugli sviluppi futuri della sua interpretazione:
Mi ha colpito il fatto come nessuno degli scrittori sul centenario abbia messo in relazione i libri del Machiavelli con lo sviluppo degli Stati in tutta Europa nello stesso periodo storico. Deviati dal problema puramente moralistico del cosiddetto ‘machiavellismo’ non hanno visto che il Machiavelli è stato il teorico degli Stati nazionali retti a monarchia assoluta, cioè che egli, in Italia, teorizzava ciò che in Inghilterra era energicamente compiuto da Elisabetta, in Ispagna da Ferdinando il Cattolico, in Francia da Luigi XI e in Russia da Ivan il Terribile, anche se egli non conobbe e non poté conoscere alcune di queste esperienze nazionali, che in realtà rappresentavano il problema storico dell’epoca che il Machiavelli ebbe la genialità di intuire e di esporre sistematicamente (p. 133).
All’altezza del dicembre 1927, dunque, G. sostiene che M. non è il teorico della Real-Politik, come interpreti conservatori avevano mostrato di credere, ma anche che M. non è solo il teorico della politica tout court, come Croce aveva affermato, poiché per comprenderne pienamente il pensiero occorre storicizzarlo, metterlo in relazione con il problema della nascita degli Stati nazionali e con il fatto che in Italia tale evento non si era verificato. Quando nel 1929 G. inizia a stendere i Quaderni del carcere, in una delle primissime note di riflessione teorica, il § 10 del Quaderno 1, egli partirà da queste convinzioni:
Su Machiavelli. Si suole troppo considerare Machiavelli come il «politico in generale» buono per tutti i tempi: ecco già un errore di politica. Machiavelli legato al suo tempo: 1) lotte interne nella repubblica fiorentina; 2) lotte tra gli stati italiani per un equilibrio reciproco; 3) lotte degli stati italiani per equilibrio europeo. Su Machiavelli opera l’esempio della Francia e della Spagna che hanno raggiunto una forte unità statale […]. Machiavelli è uomo tutto della sua epoca e la sua arte politica rappresenta la filosofia del tempo che tende alla monarchia nazionale assoluta, la forma che può permettere uno sviluppo e un’organizzazione borghese (Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, 1975, pp. 8-9).
Già nelle prime pagine di questo Quaderno 1, dunque, si trova una nota interamente dedicata a M. e a lui intitolata. Nel «programma di lavoro» situato in apertura dei Quaderni, tuttavia, il tema M. non compare. G. non si propone inizialmente di approfondirne lo studio, anche se al terzo punto dell’elenco compare l’argomento della Formazione dei gruppi intellettuali italiani, nel cui ambito è inizialmente compresa la ricerca su Machiavelli. Tanto che G. scrive alla cognata Tatiana, il 17 novembre 1930:
Mi sono fissato su tre o quattro argomenti principali, uno dei quali è quello della funzione cosmopolita che hanno avuto gli intellettuali italiani fino al Settecento, che poi si scinde in tante sezioni: il Rinascimento e Machiavelli, ecc. (Lettere dal carcere 1926-1937, cit., p. 364).
Il § 10 del Quaderno 1 prosegue affermando che M. si batteva contro «i residui del feudalismo, non contro le classi progressive», ovvero le «classi produttive, contadini e mercanti». Dall’Arte della guerra, dall’affermazione dell’opportunità di sostituire le milizie mercenarie armando uomini del contado, G. trae la convinzione che M. abbia voluto indicare ai «borghesi della città» la necessità di «appoggiarsi sui contadini come massa, costituendo una forza armata sicura e fedele» (Quaderni del carcere, cit., p. 9). Ancora nel Quaderno 1, nel § 44 sui rapporti tra moderati e democratici nel Risorgimento, G. scrive: «nelle scritture militari del Machiavelli è vista abbastanza bene la necessità di legarsi i contadini per avere una milizia nazionale che elimini le compagnie di ventura» (pp. 43-44). L’alleanza tra classi progressive della città e masse contadine era alla base del parallelo tra giacobinismo e leninismo che G. aveva mutuato, nel 1921, dal grande storico francese Albert Mathiez. Ne era derivata anche una nuova valutazione, positiva, del giacobinismo. Su questa base G., in una lettera a Tatiana del 7 settembre 1931, può definire M. «il primo giacobino italiano» (Lettere dal carcere 1926-1937, cit., pp. 458-59). E nel coevo Quaderno 8 aggiunge:
Ogni formazione di volontà collettiva nazionale popolare è impossibile senza che le masse dei contadini coltivatori entrino simultaneamente nella vita politica. Ciò voleva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese, in ciò consiste il giacobinismo [precoce] di Machiavelli (Quaderni del carcere, cit., pp. 952-53; «precoce» è un’aggiunta interlineare).
Nei Quaderni la riflessione su M. e sul Principe compie un salto di qualità nella sezione Appunti di filosofia del Quaderno 4 (1930), dove assume lo spessore problematico che verrà travasato nel Quaderno 13. Tale nuova complessità è data dal fatto che qui convergono sia la questione della lettura di M. da un punto di vista marxista sia quella della riflessione su alcune categorie fondamentali della scienza politica. È nel Quaderno 4, infatti, che G. scrive:
Questo argomento può dar luogo a un duplice lavoro: uno studio sui rapporti reali tra i due in quanto teorici della politica militante, dell’azione, e un libro che traesse dalle dottrine marxiste un sistema ordinato di politica attuale del tipo Principe. L’argomento sarebbe il partito politico, nei suoi rapporti con le classi e con lo Stato […] il protagonista di questo «nuovo principe» non dovrebbe essere il partito in astratto […] ma un determinato partito storico che opera in un ambiente storico preciso, con una determinata tradizione, in una combinazione di forze sociali caratteristica e bene individuata (Quaderni del carcere, cit., p. 432).
L’idea non è solo quella di riflettere sulla ridefinizione del partito rivoluzionario componendo un’‘arida’ opera teorica: scrivere del «nuovo principe» significa – aggiunge G. – «scrivere un libro ‘drammatico’ in un certo senso, un dramma storico in atto, in cui le massime politiche fossero presentate come necessità individualizzata e non come principi di scienza». Significa dunque – come sarà meglio focalizzato ed esplicitato nel Quaderno 8 – prendere a modello il Principe per scrivere un libro politico come il Manifesto di Marx ed Engels, in cui teoria politica, esemplificazioni storiche e appello alla mobilitazione formino un tutt’uno: come nel Principe di M., secondo l’interpretazione che ne dà Gramsci. «Il Machiavelli – afferma infatti nel Quaderno 5 – ha scritto dei libri di ‘azione politica immediata’» (p. 657). Essi, aggiunge poco più avanti, sono stati studiati e sono persino divenuti immediata fonte di ispirazione, ma soltanto per i ‘potenti’. La qual cosa tuttavia dimostra che «Machiavelli servì realmente gli Stati assoluti nella loro formazione, perché era stato l’espressione della ‘filosofia dell’epoca’ europea più che italiana» (p. 723).
Sempre nel Quaderno 4 troviamo altre due note dedicate a M. e a Marx. La prima, il § 4 intitolato Machiavellismo e marxismo, è cassata e parzialmente ripresa nel successivo § 8, dove G. fissa le differenze tra l’antropologia di M. e quella marxiana:
La innovazione fondamentale introdotta da Marx nella scienza politica e storica in confronto del Machiavelli è la dimostrazione che non esiste una «natura umana» fissa e immutabile e che pertanto la scienza politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto […] come un organismo storicamente in isviluppo. Nel Machiavelli sono da vedere due elementi fondamentali: 1) l’affermazione che la politica è un’attività indipendente e autonoma che ha suoi principi e sue leggi diversi da quelli della morale e della religione in generale (questa posizione del Machiavelli ha una grande portata filosofica, perché implicitamente innova la concezione della morale e della religione, cioè innova tutta la concezione del mondo); 2) contenuto pratico e immediato dell’arte politica studiato e affermato con obbiettività realistica, in dipendenza della prima affermazione (pp. 430-31).
G. concorda con la tesi crociana dell’autonomia della politica quale novità determinante introdotta dal Segretario fiorentino, ricordando (p. 503) l’antica affermazione fatta da Croce, di Marx come «Machiavelli del proletariato». Si spinge però ben oltre, e contro Croce, nell’apprezzamento della dimensione ‘filosofica’ del pensiero di M., poiché nel Quaderno 5 aggiunge che M. è autore di una «concezione del mondo originale» che potrebbe essere definita, come la filosofia di Marx, «filosofia della praxis», in quanto «non riconosce elementi trascendentali o immanenti[sti]ci (in senso metafisico) ma si basa tutta sull’azione concreta dell’uomo che per le sue necessità storiche opera e trasforma la realtà» (p. 657).
Al § 8 del Quaderno 4, G. trae spunto dalla tesi foscoliana secondo cui «“Machiavelli ha svelato” qualcosa di reale» per sostenere che in realtà il Segretario scrive per le «genti», «pensa ‘a chi non sa’», alla «classe rivoluzionaria del tempo, il ‘popolo’ e la ‘nazione’ italiana […]. Il Machiavelli vuol fare l’educazione di questa classe» (p. 431). G. avanza cioè una interpretazione ‘nazionale’ e ‘democratica’ di M., grande teorico della politica, ma calato nel suo tempo e ‘al servizio’ di interessi di classe determinati, come si evince anche dall’ipotesi che sia un predecessore del mercantilismo e dei fisiocratici, come G. scrive a Tatiana il 14 marzo 1932 per avere il parere dall’amico, e grande economista, Piero Sraffa (Lettere dal carcere 1926-1937, cit., pp. 548-49). Il limite di fronte a cui si è trovato M. è per G. quello del soggetto sociale che doveva mettere l’Italia al passo con l’Europa, la «borghesia italiana medioevale» che non aveva saputo superare compiutamente il Medioevo, emancipandosi dall’ingombrante presenza del papato per «creare uno Stato autonomo» (Quaderni del carcere, cit., p. 658).
È nel § 127 del Quaderno 5 che G., proseguendo l’ipotesi fatta nel Quaderno 4, ‘traduce’ «la nozione di ‘Principe’» di M. nel «linguaggio politico moderno»: «‘principe’ potrebbe essere […] un capo politico che vuole conquistare uno Stato o fondare un nuovo tipo di Stato; in questo senso ‘principe’ potrebbe tradursi in lingua moderna ‘partito politico’» (pp. 661-62). L’idea già avanzata nei Quaderni 4 e 5 – il «Principe» di cui scrive M. tradotto nel moderno partito rivoluzionario di cui vuol scrivere G. – trova poi nel Quaderno 8 un momento di fondamentale messa a fuoco. L’importanza che il tema M. ha assunto nella riflessione di G. – in uno con l’evidenziarsi della problematicità del rapporto struttura-sovrastruttura, crisi economica-azione politica, dopo il fallimento della rivoluzione in Occidente nonostante la grave crisi che scuote i Paesi capitalistici, e il conseguente, ulteriore allargamento dello spazio della politica nella riflessione di G. (Donzelli 1981, p. XVIII) – si evince già dai due ‘piani dell’opera’ che si trovano a inizio quaderno, spazialmente contigui, ma temporalmente distanziati, risalendo il primo – Saggi principali – alla fine del 1930 e il secondo – Raggruppamenti per materia – all’aprile 1932 (Francioni, in Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, a cura di G. Francioni, 13° vol., 2009, pp. 8-9). Tra i Saggi principali M. compare due volte, nei più asciutti Raggruppamenti per materie una volta, collocato al secondo posto dell’elenco (Quaderni del carcere, cit., p. 936). È inoltre nel Quaderno 8 che si trova per la prima volta l’espressione, che diverrà celebre, di «moderno Principe». È questo infatti il titolo del § 21, che inizia così: «Il moderno Principe. Sotto questo titolo potranno raccogliersi tutti gli spunti di scienza politica che possono concorrere alla formazione di un lavoro di scienza politica che sia concepito e organizzato sul tipo del Principe del Machiavelli» (p. 951). È lo sviluppo di quanto già accennato nel Quaderno 4, l’intenzione di raccogliere sotto il titolo di «moderno Principe» non soltanto osservazioni e note su M., ma un trattato di «scienza politica» attuale ‘ricalcato sul modello’ del Principe.
Le osservazioni che sull’argomento G. sviluppa nel Quaderno 8 costituiscono il primo e più importante nucleo del Quaderno 13, intitolato Noterelle sulla politica del Machiavelli, in cui G. inizia a ricopiare le note scritte nei quaderni precedenti e intitolate al Segretario fiorentino. Il Quaderno 13 – che comprende quaranta note, di cui una sola di nuova stesura (il § 25) – si rivelerà insufficiente e G. cercherà di proseguire l’attività di raccolta delle note sull’argomento nel Quaderno 18, intitolato Niccolò Machiavelli II, dove però copierà solo tre note (dal Quaderno 3). Sempre più malato, interromperà questo lavoro, preferendo dedicare le forze residue ad altre raccolte monotematiche, ma anche a scrivere testi occasionati da nuove letture. Così nei Quaderni 14, 15 e 17 vi sono nuove note riguardanti sia M. e il suo pensiero sia (in maggior numero) riflessioni di «scienza politica».
È il Quaderno 13, dunque, che contiene i risultati più compiuti del pensiero gramsciano sul Principe e sul «moderno Principe». Delle complessive quaranta note, tredici trattano di M., mentre in ben ventisette l’argomento è di «scienza politica». I temi trattati qui da G. sono il rapporto struttura-sovrastruttura, i rapporti di forza, il conformismo sociale, i partiti politici, la distinzione guerra manovrata-guerra di posizione, l’egemonia politico-culturale, il cesarismo e altri ancora. Per quel che concerne il pensiero di M., di grande rilievo è il § 1, in cui G. scrive:
Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro ‘vivente’, in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del ‘mito’. Tra l’utopia e il trattato scolastico, le forme in cui la scienza politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma fantastica e artistica, per cui l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e ‘antropomorficamente’ il simbolo della ‘volontà collettiva’ (p. 1555).
Per suscitare una «volontà collettiva», bisogna prendere come esempio il Principe, da G. considerato
una esemplificazione storica del ‘mito’ sorelliano, cioè di una ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva (pp. 1555-56).
Un libro per la mobilitazione delle masse, non solo opera di «scienza politica», destinato ai militanti e alla loro formazione. Che il libro di M. sia anche questo, cioè non «un libro di ‘scienza’, accademicamente inteso, ma di ‘passione politica immediata’, un ‘manifesto’ di partito» (p. 1928), G. lo esplicita ulteriormente aggiungendo due passi non presenti nella prima stesura della nota (il § 21 del Quaderno 8), e che dunque hanno particolare valore, riferiti entrambi alla famosa Exhortatio del capitolo xxvi del Principe, la «chiusa» che per G. è «legata a questo carattere ‘mitico’» del libro:
nella conclusione il Machiavelli stesso si fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo ‘genericamente’ inteso, ma col popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro ‘logico’ non sia che un’autoriflessione del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato. […] L’epilogo del Principe non è qualcosa di estrinseco, di ‘appiccicato’ dall’esterno, di retorico, ma deve essere spiegato come elemento necessario dell’opera, anzi come quell’elemento che riverbera la sua vera luce su tutta l’opera e ne fa come un ‘manifesto politico’ (pp. 1555-56).
Per G. il Principe rivela la sua ragion d’essere «nella conclusione», dove M. diviene autocoscienza del popolo. L’intreccio, nei Quaderni, tra la riflessione sul Principe e quella sul «moderno Principe», tra la situazione su cui aveva riflettuto M. e quella sulla quale scrive G., quasi in un rispecchiamento del secondo nel primo, sembra evidente (E. Garin, Gramsci nella cultura italiana, in Studi gramsciani, 1958, p. 416). Entrambi scrivono dopo essere stati messi ‘fuori gioco’; entrambi pensano all’Italia avendo presente il contesto internazionale e i ‘modelli’ stranieri ritenuti più avanzati (la Russia dei soviet nel caso di G., i grandi Stati nazionali in quello di M.); entrambi cercano di ‘tradurre in italiano’ le rispettive grandi esperienze storiche di riferimento del loro tempo, ovviamente con tutti i mutamenti e gli adattamenti che una buona ‘traduzione’ comporta.
La nota e il quaderno proseguono intrecciando i richiami al pensiero di M. e quelli alle questioni di teoria politica. Il problema che sia M. sia G. hanno davanti è quello di suscitare «una volontà collettiva nazionale-popolare», «una forza giacobina efficiente» (Quaderni del carcere, cit., pp. 1559-60), tentativo fallito ai tempi di M. per «la funzione internazionale dell’Italia come sede della Chiesa e depositaria del Sacro Romano Impero ecc.», fattori che determinano «una situazione interna che si può chiamare ‘economico-corporativa’», arretrata e di ostacolo allo stesso processo di costituzione dello Stato unitario. G. si chiede se vi siano ora le condizioni per superare questo ostacolo, ripetendo che in questa direzione M. aveva compreso il punto fondamentale e ancora valido del coinvolgimento delle masse contadine. Si tratta di problemi non limitati alla dimensione economico-sociale, ‘strutturale’. G sottolinea infatti che
una parte importante del moderno Principe dovrà essere dedicata alla quistione di una riforma intellettuale e morale, cioè alla quistione religiosa o di una concezione del mondo. […] Il moderno Principe deve e non può non essere il banditore e l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna (p. 1560).
Questi due punti, «formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare» di cui il «moderno Principe» è organizzatore e al contempo «espressione attiva e operante», e «riforma intellettuale e morale», «legata a un programma di riforma economica» (Quaderni del carcere, cit., p. 1561), costituiscono la struttura del lavoro che G. si propone. Per questo – egli aggiunge – «il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali» e «ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo». È la riaffermazione della convinzione che il «moderno Principe» debba essere banditore di una «riforma intellettuale e morale», grazie alla quale esso «prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico», divenendo «la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume». Una riaffermazione avanzata in termini perentori e totalizzanti, termini che riflettono la drammatica situazione in cui G. e i comunisti italiani sono impegnati nella dura e impari lotta al fascismo, ma anche il fatto che il partito è visto come il fondatore di «un nuovo tipo di Stato», sua prima cellula, dunque teso fortemente a espandersi e affermarsi dando vita a una «forma superiore e totale di civiltà moderna» (p. 1560).
La «riforma intellettuale e morale» è momento fondamentale per la conquista di una nuova egemonia. E anche in M., anche nel Principe, scrive G. nel § 5, non mancano «accenni al momento dell’egemonia o del consenso accanto a quelli dell’autorità o della forza» (p. 1564). Il «carattere militare-dittatoriale» del principe machiavelliano è spiegato con la situazione storica in cui deve operare, segnata dal tentativo di fondazione e consolidamento di un nuovo Stato (pp. 1572-73). Nel § 52 del Quaderno 6, G. aveva definito «dissidio tragico» quello vissuto da M., che «non sa staccarsi dalla repubblica ma capisce che solo un monarca assoluto può risolvere i problemi dell’epoca» (p. 725). Per questo è errato contrapporlo all’‘antimachiavellico’ Jean Bodin, che «fonda la scienza politica in Francia in un terreno molto più avanzato e complesso di quello che l’Italia aveva offerto al Machiavelli»: le loro differenze sono ascritte alle differenti situazioni in cui vivono, alla differente coscienza che di sé ha il Terzo stato francese, nell’ambito di uno Stato nazionale ormai consolidato (p. 1574). La figura del Centauro machiavelliano e la sua «doppia natura» sono richiamate come simbolo di una teoria che contempera i momenti «della forza e del consenso, dell’autorità e dell’egemonia» (p. 1576). Scrive ancora G.:
Il ‘troppo’ (e quindi superficiale e meccanico) realismo politico porta spesso ad affermare che l’uomo di Stato deve operare solo nell’ambito della ‘realtà effettuale’, non interessarsi del ‘dover essere’, ma solo dell’‘essere’. Ciò significherebbe che l’uomo di Stato non deve avere prospettive oltre la lunghezza del proprio naso. […] Ma il Machiavelli non è un mero scienziato; egli è un uomo di parte, di passioni poderose, un politico in atto, che vuol creare nuovi rapporti di forze e perciò non può non occuparsi del ‘dover essere’, certo non inteso in senso moralistico (p. 1577).
M. è «politico in atto». Scrivere il Principe è volere indicare la strada di un’azione politica effettiva, così come lo è per G. scrivere i Quaderni. È una teoria ‘per la prassi’. Ma che tipo di politico è Machiavelli? Per G., egli è un rivoluzionario. Poiché se il «dover essere» non è «un atto arbitrario» o «velleità», ma una «volontà concreta» che poggia «sulla realtà effettuale», tale realtà va intesa in senso dinamico, come «un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di equilibrio» (pp. 1577-78). Il «dover essere» va dunque inteso anch’esso in senso realistico: «L’opposizione Savonarola-Machiavelli non è l’opposizione tra essere e dover essere […] ma tra due ‘dover essere’». Solo che quello di Savonarola è «astratto e fumoso», mentre quello di M. è «realistico». E nulla cambia il fatto che esso non sia diventato «realtà immediata, poiché non si può attendere che un individuo o un libro mutino la realtà ma solo la interpretino e indichino la linea possibile dell’azione». M. voleva «mostrare come avrebbero dovuto operare le forze storiche per essere efficienti».
G. è rispetto a M. più direttamente «politico in atto». Ma impossibilitato comunque ad agire, prigioniero in mano del nemico e con speranze di liberazione sempre più flebili. Se anche egli scriva solo per «mostrare come avrebbero dovuto operare le forze storiche» o creda ancora di poter svolgere un ruolo attivo nel processo rivoluzionario, è questione che resta di incerta definizione.
Bibliografia: Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, Torino 1966; La costruzione del partito comunista 1923-1926, Torino 1971; Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Torino 1975; Cronache torinesi 1913-1917, a cura di S. Caprioglio, Torino 1980; La città futura 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Torino 1982; Il nostro Marx 1918-1919, a cura di S. Caprioglio, Torino 1984; L’Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana, A.A. Santucci, Torino 1987; Lettere dal carcere 1926-1937, a cura di A.A. Santucci, Palermo 1996; Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, 18 voll., a cura di G. Francioni, Roma-Cagliari 2009.
Per gli studi critici su G. interprete di M. si vedano: N. Matteucci, Antonio Gramsci e la filosofia della prassi, Milano 1951; L. Paggi, Il problema Machiavelli, «Studi storici», 1969, 4, poi in Id., Le strategie del potere in Gramsci, Roma 1984, pp. 387-426; C. Donzelli, introduzione ad A. Gramsci, Quaderno 13. Noterelle sulla politica del Machiavelli, Torino 1981, pp. IX-CII; F. Sanguineti, Gramsci e Machiavelli, Roma-Bari 1982; R. Medici, La metafora Machiavelli. Mosca Pareto Michels Gramsci, Modena 1990; B. Fontana, Hegemony and power. On the relation between Gramsci and Machiavelli, Minneapolis-London 1993; Gramsci: il partito politico nei Quaderni, a cura di S. Mastellone, G. Sola, Firenze 2001; Dizionario gramsciano, a cura di G. Liguori, P. Voza, Roma 2009 (in partic. le voci Machiavelli, Niccolò e Moderno Principe di L. La Porta e Machiavellismo e antimachiavellismo di L. Mitarotondo); D. Kanoussi, Notas sobre el Maquiavelismo contemporáneo, Puebla 2012; F. Frosini, Luigi Russo e Georges Sorel: sulla genesi del “moderno Principe” nei Quaderni del carcere di Gramsci, «Studi storici», 2013, 3, pp. 545-91.