Antonio Labriola
Nel periodo della Seconda Internazionale Antonio Labriola fu tra i più originali teorici del marxismo, al quale era approdato dopo essersi formato nell’alveo dell’hegelismo napoletano e a contatto con il dibattito internazionale sullo statuto delle ‘scienze dello spirito’. Le sue formulazioni di metodo, all’interno di una lettura critica del materialismo storico, della riflessione sulla storia d’Italia e d’Europa e sulla prassi politica del movimento socialista, hanno avuto varia eco nello storicismo del Novecento.
Nato a San Germano (Cassino) il 2 luglio 1843, Antonio Labriola si trasferì a Napoli nel 1861 e vi ebbe per maestro l’hegeliano Bertrando Spaventa. A Roma, dal 1874, insegnò filosofia morale e pedagogia e, dal 1887, filosofia della storia. Pubblicista legato alle idee liberal-moderate della Destra (1871-74), deluso dai partiti tradizionali e dal trasformismo, dopo il fallimento di una sua candidatura alle elezioni nel 1887, aderì alla democrazia radicale; infine, verso il 1890, divenne socialista. In contatto con Friedrich Engels e con la socialdemocrazia tedesca, seguì da una posizione di autonomia critica la formazione del Partito socialista a opera di Filippo Turati. Le esperienze politiche (scandalo della Banca romana, che egli contribuì a far emergere, moti operai di Roma, Fasci siciliani) influirono sulla sua maturazione teorica, mentre s’impadroniva dei fondamenti del marxismo.
Nel 1895-97, su impulso dell’allievo Benedetto Croce, pubblicò i Saggi sul materialismo storico, atto di nascita del marxismo teorico in Italia. Nel dialogo con i quadri del movimento operaio internazionale, sorpreso dalla ‘crisi del marxismo’ e dal ‘revisionismo’, tentò di sviluppare un’analisi storico-politica all’altezza dei compiti posti dallo sviluppo capitalistico, non cessando di riflettere sui tratti peculiari della storia civile italiana e tentando di orientare la politica del Partito socialista. Morì a Roma il 2 febbraio 1904.
Nel 1903 Labriola ricordò (forse pensando a Karl Marx, mai atteggiatosi «a compiuto istoriografo») di essere «di professione filosofo, e non storico» (La concezione materialistica della storia, 1965, p. 191; Da un secolo all’altro. 1897-1903, 2012, p. 254): del resto, aveva esordito nel 1863, al tempo della sua formazione alla scuola di Spaventa, sostenendo hegelianamente l’«immanenza» dell’idea nella storia (Opere, 1° vol., 1959, p. 47). Tra il 1865 e il 1871 considerava la filosofia come l’unità delle diverse sfere del sapere (logica, etica, storia), ma questo primo orientamento non diede luogo a una sistemazione speculativa: anzi la crisi della scuola hegeliana lo spinse verso l’esigenza di una correzione realistica del ‘sistema’.
Nel 1899 aveva suggerito un altro parallelo fra la propria vicenda intellettuale e quella di Marx – il quale aveva preso le mosse non dalla filosofia, ma da problemi specifici (la critica dell’economia) – per avere operato egli stesso un capovolgimento dell’idealismo alla stregua della sinistra hegeliana tedesca: giacché, dopo aver atteso a lavori storico-filosofici (su Socrate e Spinoza) e progettato una storia del cristianesimo, si era dedicato a ricerche etiche (ispirate a Johann Friedrich Herbart e alla sua scuola), di linguistica e di psicologia sociale (impadronendosi del metodo della ‘psicologia dei popoli’ di Moritz Lazarus e Heymann Steinthal), con una costante attenzione al dibattito tedesco sul metodo storiografico e sulle ‘scienze dello spirito’. Gli si venne allora chiarendo un concetto di filosofia al quale rimarrà fedele: non un’ipostasi metafisica, ma una funzione del procedimento scientifico, ossia, secondo la definizione di Herbart, l’elaborazione formale dei concetti: «pensare in concreto e poter riflettere in astratto» – come dirà molti anni dopo – sui «dati e sulle condizioni di pensabilità» dell’esperienza (La concezione materialistica della storia, cit., p. 234).
Le sue idee sulla storia, nei primi anni, mostrano una tensione tra individualità dei fatti ed esigenza di unità, tra i singoli fenomeni storici e una filosofia della storia che ne fissi il valore all’interno di un piano finalisticamente orientato (Opere, cit., p. 127; Dal Pane 1975, pp. 126-33). Ma questo modello provvisorio s’incrina presto: la filosofia della storia dell’ortodossia hegeliana è giudicata una «mostruosa» contaminazione tra saperi diversi e sono respinte sia l’idea che la storia costituisca un’unità, sia quella di un indefinito «progresso»: la storia gli si va chiarendo come una molteplicità che richiede indagini speciali sulle singole forme della coscienza sociale e l’apporto di discipline come la linguistica, la mitologia comparata, la storia del diritto e la statistica (Opere, cit., pp. 278-79, 285).
La Prelezione al corso del 1887 su I problemi della filosofia della storia è una prima sintesi metodologica. La storiografia, sostiene Labriola – sulla scorta della trattatistica da Johann G. Droysen a Georg G. Gervinus –, consapevole dei propri limiti e attraverso un uso solo regolativo di concetti generali, ha per scopo di narrare, con il criterio della «distinzione», fatti molteplici e formazioni storiche individualizzate. La filosofia della storia si riduce, dunque, a una «ricerca su i metodi, su i principii e sul sistema delle conoscenze storiche», non prefigurando né la generalizzazione dei canoni di particolari discipline (economia, sociologia, psicologia sociale ecc.), né un approccio finalistico o totalizzante – come nello spiritualismo tradizionale, nell’idealismo hegeliano e nel positivismo evoluzionistico – che si rivela una sintesi illusoria e frutto di pregiudizi religiosi, culturali e politici.
Labriola invoca cautela nel maneggio dei principi ‘reali’ dei fatti storici, diffidando di spiegazioni unilaterali volte a rintracciarne le cause in fattori determinati, quali la lotta per l’esistenza o la distribuzione della proprietà, e a trascurare il resto come un loro riflesso. Insiste perciò sull’«equilibrio» degli aspetti plurali di una civiltà, presupposto che consente di comprendere non solo il passato, ma anche la struttura della società moderna e dello Stato: quest’ultimo è funzione graduale del progresso civile e implica, appunto, con significativo parallelismo, un «equilibrio» di «forze radicali e conservative» (Scritti filosofici e politici, 1976, pp. 10, 29-30). È la concezione dello Stato che Labriola aveva variamente sostenuto dal periodo moderato a quello radical-democratico, sempre in alternativa allo Stato neutro, liberale, puro garante di interessi individuali: da una forma di ‘Stato etico’, paternalisticamente illuminato, era progressivamente approdato, attraverso le teorie del ‘socialismo giuridico’, all’idea di un regolatore degli antagonismi di classe e dei bisogni sociali.
L’ingresso diretto in politica, non più da osservatore esterno, la riflessione sulla storia d’Italia e le vicende contemporanee, e il giudizio sempre più negativo sulle classi dirigenti postunitarie, consumarono rapidamente l’esperienza democratica: attorno al 1890 Labriola si proclamò socialista e aderì presto alla dottrina marxista, della quale discusse in un vivace carteggio con Engels. Di fronte ai conflitti di classe e alle contraddizioni che muovono la «disarmonica vita» della storia moderna, lo Stato come ‘regolatore sociale’ finisce per apparirgli un’utopia (La concezione materialistica della storia, cit., p. 31, 114).
Da questo momento in poi prassi e riflessione storica costituiscono per Labriola un nesso inscindibile: ma la politica e l’adesione al marxismo finiscono per scompaginare anche il precedente quadro teorico. La nuova prospettiva, esposta nei Saggi (1895-97), marca su punti fondamentali una cesura netta, anche se restano vive molte delle istanze metodiche della fase ‘herbartiana’, sempre, tuttavia, all’interno di un marxismo dichiaratamente non eclettico. La tesi della molteplicità dei fattori storici viene meno di fronte al bisogno di una spiegazione unitaria, di un «principio direttivo» attraverso il quale si è messi in grado di comprendere le cause intime della storia, rintracciato nella struttura economica e nei rapporti di produzione, autentica «anatomia» dei fatti sociali. La storia, pur senza un presupposto finalistico, assume una ‘direzione’ perché è una successione di forme sociali destinate a risolversi, in modo necessario e per «le leggi immanenti del proprio divenire», nella fine del modo di produzione capitalistico e nell’avvento del socialismo. Infine – con una ripresa di toni hegeliani – la storia gli appare non solo l’oggetto dello storico, ma oggetto e soggetto insieme, perché produce le condizioni del superamento delle sue contraddizioni, mediante l’«autocritica» che la società esercita sopra se stessa, culminando nell’autocoscienza del proletariato moderno (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 5, 10-11, 17, 105-106). La storia, dunque, tende a divenire ‘trasparente’ ai suoi protagonisti.
Il materialismo storico si presenta così come un’interpretazione unitaria e ‘scientifica’, risultato essa stessa del processo attraverso il quale l’uomo modifica i rapporti sociali, e assume i caratteri di una «definitiva» filosofia della storia, perché «obiettivizza» la storia e si pone al di là delle concezioni mitologiche e dell’opacità delle visioni ideologizzate (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 66, 99).
Questo forte oggettivismo, che domina soprattutto nel primo Saggio, è temperato da una serie di precisazioni che riformulano, all’interno del nuovo quadro teorico, le osservazioni metodiche del 1887, nel tentativo di chiarire come il materialismo storico non implichi una riduzione dei fenomeni storici al momento economico, come una sorta di «talismano» che spieghi «il complicato ingranaggio della società» e dal quale risultino come «effetti automatici e macchinali, istituzioni e leggi, e costumi, e pensieri, e sentimenti, e ideologie». È semmai un «filo conduttore», che connette sì, più direttamente, la sovrastruttura statale-giuridica alla struttura economica, ma che occorre seguire con prudenza nella spiegazione dei fenomeni culturali (religione, scienza, arte) e delle ideologie. Queste ultime non sono «involucri» o parvenze della sottostruttura economica, ma forme di consapevolezza più o meno evolute, che accompagnano sempre i rapporti sociali: facendo propria la formulazione di Engels, Labriola ripete che la struttura economica le determina solo in «ultima istanza».
Il materialismo storico è dunque un nuovo metodo di «revisione delle fonti storiche», che si sforza di ricondurre le ideologie alla loro base reale, con un «ipotetico» e non sempre decifrabile processo di derivazione, ma senza rinunciare a considerarne la «specificata circostanzialità». Per questi speciali problemi, ammetteva Labriola, si è trovata una «linea di metodo», ma l’«esecuzione particolare non è facile» (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 94-96, 69-70, 130, 134-35; Da un secolo all’altro, cit., p. 264).
Labriola non rimise in discussione questi fondamenti nemmeno quando si cominciò a parlare di una ‘crisi del marxismo’, concetto che egli rifiutava come un equivoco e un pretesto politico. Ribadì infatti che i principi della storia «sono negli accadimenti stessi» e che il materialismo storico è una «comprensiva interpretazione senza della quale i fatti non hanno significato» (Da un secolo all’altro, cit., p. 249), ma, per lo stimolo congiunto dell’interesse teorico, dell’approfondimento storico e di problemi pratico-politici, rimeditò – senza che si possa parlare di una vera e propria revisione – decisivi aspetti di metodo. In primo luogo il rapporto tra sociologia e storia: sebbene la sociologia, con l’economia, abbia trasformato l’assetto scientifico della storia attraverso la considerazione «morfologica» degli agglomerati umani, la storia, sostiene Labriola, non può esserne «assorbita». La sociologia è infatti un sapere ‘tipologico’ che lavora su «astrazioni» e «forzate classificazioni», laddove la storia si occupa dell’«eterogeneo», che è oggetto di ricerca empirica. Nessuna sociologia può dimostrare analiticamente la corrispondenza tra determinate istituzioni politiche o costumi e un ‘tipo’ economico, come se le prime fossero accidenti di una sostanza, nel qual caso gli uomini sarebbero ridotti a «marionette», i cui fili sono «tenuti e mossi, dalla provvidenza non più, ma anzi dalle categorie economiche».
Il materialismo storico si estende dunque dallo studio della morfologia sociale alla considerazione della storia «particolare» e implica, per non rimanere «nel dualismo di storia e spiegazione», una storia «materialisticamente raccontata», che ha natura di «arte», consiste cioè in «pensate narrazioni» su determinati complessi d’eventi (Carteggio, 3° vol., 2003, pp. 437-38; Da un secolo all’altro, cit., pp. 219, 254-59; La concezione materialistica della storia, cit., pp. 136, 140). È un’«arte difficile», sottolinea Labriola – il cui modello rimanevano il 18 Brumaio di Marx e le parti storiche del Capitale – della quale, passando dalla chiarificazione dei principi alla loro applicazione, egli stesso si studiò di fornire esempi e applicazioni negli ultimi corsi, armonizzandone i risultati con la dottrina, ma ribadendo che le fonti sulle quali lavora qualunque storico, anche quello marxista, sono comuni agli storici «d’ogni scuola o indirizzo»: Marx, ricordava, non aveva mai pensato di «modificare ciò che tecnicamente dicesi disciplina della ricerca storica» (Da un secolo all’altro, cit., pp. 259, 56; La concezione materialistica della storia, cit., p. 194). Negli stessi Marx ed Engels, semmai, andava rilevando una certa semplificazione in «schemi» della storia concreta, e qualche unilateralità nel tracciare lo sviluppo del capitalismo (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 164, 54): ma diffidava soprattutto di certe applicazioni di scuola, non esitando a parlare nel corso del 1897-98 di «marxisti volgari che portano in giro da per tutto la lotta di classe».
Delle trattazioni storiche di Labriola rimangono solo cenni nelle opere e si conservano gli appunti dei corsi sulla Rivoluzione francese, sulla biografia di Giordano Bruno, sulla rivolta di fra Dolcino (all’interno di un’attenzione di lunga data alla storia del cristianesimo). In essi Labriola si mosse in relativa autonomia dalla letteratura storica marxista (per es., da Karl Kautsky), verso un’esposizione che tende a non schiacciare sui rapporti di produzione l’individualità degli eventi e la sfera ideale. Elemento decisivo del materialismo storico, egli afferma, è la comprensione del mutamento della società, del quale la morfologia storica può solo indicare le cause generali, ma non può riprodurne il processo concreto senza far ricorso ai «naturali canoni della esposizione e della narrazione» (Da un secolo all’altro, cit., pp. 264-65). La Rivoluzione francese, per es., mostrava come a partire da «condizioni» strutturali, solo l’analisi di eventi circostanziati e irripetibili era in grado di spiegare perché l’«erosione» di una formazione sociale – la società ‘feudale’ – e il suo epilogo in forma «catastrofica» (problema sul quale Labriola rifletteva già dalla Prelezione del 1887) si fossero verificati in un determinato Paese e in un determinato momento.
Per questi motivi egli discusse con Engels sul rapporto tra ‘metodo dialettico’ e ‘metodo genetico’, definizione quest’ultima preferibile, a suo parere, perché «lascia impregiudicata la natura empirica» e il «contenuto reale» delle formazioni storiche, mentre l’altra ha maggior valenza logico-formale (Carteggio, 3° vol., cit., p. 412).
Di nuovo, non si trattava solo di problemi di storiografia ‘pura’. Come nel periodo che precede l’adesione al marxismo, è l’urgenza della politica che fa evolvere la riflessione metodologica di Labriola, la quale riguarda dunque la comprensione del passato, ma più ancora la storia ‘contemporanea’: la conoscenza del passato – scriveva – interessa solo in quanto getta luce sull’oggi, e il «mezzo per misurare la nostra cultura storica» è «la capacità ad intendere il presente». Per questo pensò di comporre un ‘quarto saggio’, dando forma alle lezioni del 1900-1901 sulle «caratteristiche del secolo decimonono» e sulla «configurazione del mondo civile» nel passaggio di secolo (La concezione materialistica della storia, cit., p. 54; Da un secolo all’altro, cit., pp. 99-101). Il corso rispondeva al bisogno di chiarire l’arresto di sviluppo del socialismo di fronte ai fenomeni emersi dopo il 1870: il ciclo espansivo del capitalismo – che smentiva le correnti ipotesi sul ‘crollo’ –, il colonialismo e l’imperialismo (una «Crociata senza finzioni», il ritorno alla politica di «conquistadores», Da un secolo all’altro, cit., pp. 177, 201), la persistenza di forme di produzione precapitalistiche, il declino del liberalismo e della democrazia, la reviviscenza di ideologie ‘decadenti’, l’emergere del cattolicesimo democratico. E ancora, in Italia: il ritardo e l’incompiutezza dell’unità nazionale, la timidezza della politica estera, l’ingombrante presenza della Chiesa, l’analfabetismo, i limiti strutturali dell’economia e la debolezza della borghesia alla quale corrispondeva quella del movimento operaio. Non era questione dei fondamenti (la critica dell’economia), né del principio e dei ‘valori’ del socialismo (il «più profondo e più ampio senso di comunanza umana», il «postulato della solidarietà contrapposto all’assioma della concorrenza»), ma di comprendere la «complicata resistenza dei rapporti mondiali». L’imperialismo aveva solo «differita» nel 20° sec. la «catastrofe della concorrenza» e la storia contemporanea appare ora perciò non un processo regolare, ma una «linea spezzata, che cambia spesso direzione» e che «non sappiamo dove andrà a finire». Alla domanda – tipica del periodo della Seconda Internazionale – sui tempi e i modi del passaggio al socialismo in base a previsioni morfologiche, doveva perciò sostituirsi (esattamente come nello studio dell’evento che segna l’inizio del mondo moderno, la Rivoluzione francese) l’analisi della storia ‘in atto’ (La concezione materialistica della storia, cit., p. 149; Da un secolo all’altro, cit., pp. 148, 153, 100, 102, 254-55).
La distinzione tra sociologia/morfologia e storia aveva serie implicazioni politiche: l’oggettiva valutazione del momento storico induceva a un atteggiamento realistico e privo di illusioni sulle forze in campo e le dinamiche dello sviluppo capitalistico ed era un irrinunciabile presupposto della prassi dei partiti socialisti (La concezione materialistica della storia, cit., p. 286). Ciò condusse, tra l’altro, Labriola – ed è una delle sue posizioni più controverse, per il residuo di determinismo che palesa – ad appoggiare l’espansione coloniale, ritenendo che fosse un modo per promuovere lo sviluppo della borghesia italiana e con essa del proletariato. Più in generale, egli sostenne la necessità per i socialisti di confrontarsi con la «politica sociale» liberale, attenendosi «all’attuabile»: pena la ricaduta nel fatalismo evoluzionistico, nel «neoutopismo», nel ribellismo anarcoide, o, viceversa, in un pragmatismo empirico, ove l’indispensabile politica di riforme utili alla classe operaia finiva per trasformarsi in un’«acquiescenza» ai meccanismi del mondo borghese e in un allineamento con le tesi del ‘revisionismo’ emergente in alcuni settori della socialdemocrazia (Scritti politici, 1975, p. 464; La concezione materialistica della storia, cit., p. 171).
Un’incipiente, grave malattia, la scarsa propensione a dar forma letteraria ai propri pensieri e difficoltà oggettive impedirono a Labriola di sviluppare compiutamente, a livello dottrinale e sul piano dei contenuti, la sua interpretazione del materialismo storico. Gli interpreti hanno sottolineato l’inadeguatezza di molte delle sue risposte ai problemi aperti: per l’incompetenza, confessata, nel campo dell’economia (esposta alle complesse discussioni di fine secolo sulla ‘teoria del valore’, nelle quali Labriola entrò solo marginalmente), per gli errori prospettici nell’analisi della congiuntura – e di conseguenza nelle proposte concrete –, per le oscillazioni sul concetto di ‘ideologia’, per la tensione tra ricerca ‘idiografico-genetica’ e impianto morfologico, e, non da ultimo, per il suo isolamento sul piano dottrinale e politico nel movimento operaio organizzato e presso i suoi gruppi dirigenti. Labriola fu molto deluso della scarsa comprensione del suo lavoro, sia in Italia (per la mancanza di tradizioni culturali e l’insensibilità del socialismo ufficiale ai problemi teorici e del rapporto teoria-prassi), sia all’estero (dove, come è stato detto, la sua reale influenza fu del tutto impari rispetto al suo «prestigio», cfr. Gerratana 1979, p. 621).
Ciò non toglie, entro questi limiti, che il suo acuto, crescente senso della concretezza storica costituisca un contributo di valore europeo all’elaborazione critica della dottrina marxista. Labriola ebbe lucida consapevolezza che il materialismo storico era «poco progredito dalle prime e generali enunciazioni» e che occorreva compierlo anziché decretarne la crisi, estendendolo in direzione della comprensione oggettiva del presente, piuttosto che approfondirne gli aspetti formali o trasformarlo in un ‘sistema’. Su questa base egli criticò con efficacia le deformazioni del marxismo della Seconda Internazionale: non solo le inconsistenti contaminazioni con evoluzionismo e positivismo della tradizione italiana, esemplificate nell’opera di Enrico Ferri e Achille Loria, ma anche il rigido determinismo del marxismo ortodosso tedesco (come nel suo maggior teorico, Kautsky), così come le versioni filosofico-enciclopediche e scientistiche (Georgij V. Plechanov) – che si sarebbero poi cristallizzate nel Novecento – e infine i tentativi dichiaratamente eclettici (come avveniva presso certe formulazioni del revisionismo tedesco, per es. in Eduard Bernstein, che coniugava marxismo e morale kantiana). L’autonoma ‘filosofia’ del marxismo si compendiava per Labriola nel principio «che tutto è pensabile come genesi» e nella «filosofia della praxis», ossia nella considerazione della storia, del sapere e dell’azione politica come prodotto delle variazioni della forma sociale del lavoro (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 232, 204). Anche l’approfondimento della teoria economica marxista non doveva situarsi sul piano astratto-formale, ma su quello della «critica dell’economia», poiché l’economia non è una scienza ‘pura’, ma un’interpretazione della politica e della storia: la critica dell’economia rappresenta sì la «premessa tipica» della dottrina del socialismo, ma è anche il modo in cui Marx intese «trattare la storia».
Il rinnovamento degli «indirizzi della storiografia» non implicava infine una visione neutra della ricerca storica, ma corrispondeva «al bisogno pratico proprio ai partiti socialistici» di un’adeguata conoscenza della specifica condizione del proletariato e «di commisurare, congruamente alle cause, alle promesse ed ai pericoli della complicazione politica, l’azione del socialismo». Labriola ammoniva tuttavia che era lontano il tempo in cui il materialismo storico potesse divenire «la dottrina piena e completa di tutte le fasi storiche già ridotte alle rispettive forme della produzione economica, e regola al tempo istesso della politica»: servivano uno «studio accuratamente nuovo di fonti, per chi voglia ingegnarsi a studiare il passato secondo l’angolo visuale della nuova veduta storico-genetica, o speciali attitudini di orientazione politica in chi voglia praticamente operare al presente» (La concezione materialistica della storia, cit., pp. 180-82, 189, 191, 226-27, 194).
Non è paradossale il fatto che le posizioni di Labriola rimasero estranee al socialismo italiano: per Turati erano poco più di un esercizio intellettuale adatto non all’azione, ma ai momenti «d’ozio». Ebbe semmai influenza sotterranea su qualche lavoro storico, come quelli di Gaetano Salvemini o Gioacchino Volpe, o, attraverso la mediazione attualistica e soggettivistica di Giovanni Gentile, su Rodolfo Mondolfo e fino ad Antonio Gramsci. Ma soprattutto sullo storicismo di Croce, che resta peraltro l’interprete più avvertito, all’epoca, delle esigenze metodiche della dottrina labrioliana, nonostante egli avesse intrapreso una severa critica del materialismo storico, riducendolo – cosa inaccettabile per Labriola – a mero «canone metodologico» della storiografia. Dimenticato sostanzialmente tra le due guerre, salvo per gli sforzi di chi ne rimise in circolazione l’opera (come Luigi Dal Pane o lo stesso Croce, che ripubblicò i Saggi nel 1938-1939), Labriola è tornato oggetto di studio per l’impulso dato dalle riflessioni di Gramsci alla corrente storicista del marxismo del Novecento, che ha sempre più messo in rilievo il carattere aperto del marxismo labrioliano, in difficile equilibrio tra «tendenza (formale e critica) al monismo» e «specializzata ricerca» (La concezione materialistica della storia, cit., p. 233).
Opere, a cura di L. Dal Pane, 3 voll., Milano 1959-1962.
La concezione materialistica della storia, a cura di E. Garin, Bari 1965.
Scritti politici (1886-1904), a cura di V. Gerratana, Bari 1970.
Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, 2 voll., Torino 19762.
Scritti liberali, a cura di N. Siciliani de Cumis, Bari 1981.
La politica italiana nel 1871-1872. Corrispondenze alle «Basler Nachrichten», a cura di S. Miccolis, Napoli 1998.
Carteggio, a cura di S. Miccolis, 5 voll., Napoli 2000-2006.
Giordano Bruno. Scritti editi e inediti (1888-1900), a cura di S. Miccolis, A. Savorelli, Napoli 2008.
Gli scritti politici di Antonio Labriola editi da Stefano Miccolis, a cura di A. Savorelli, Stefania Miccolis, in Quaderni per l’edizione nazionale delle Opere di Labriola, 2° vol., Napoli 2010.
Da un secolo all’altro. 1897-1903, a cura di S. Miccolis, A. Savorelli, Edizione nazionale delle Opere, 11° vol., Napoli 2012.
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S. Poggi, Antonio Labriola: herbartismo e scienze dello spirito alle origini del marxismo italiano, Milano 1978.
V. Gerratana, Antonio Labriola e l’introduzione del marxismo in Italia, in Storia del marxismo, 2° vol., Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale, Torino 1979, pp. 619-57.
G. Galasso, Il problema della metodologia storica in Antonio Labriola, «Prospettive Settanta», 1982, pp. 219-35.
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V. Gerratana, Antonio Labriola e la politica, «Studi storici», 1985, 3, pp. 565-80.
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Antonio Labriola filosofo e politico, a cura di L. Punzo, Milano 1996.
G. Cacciatore, Labriola in un altro secolo, Soveria Mannelli 2005.
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Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, a cura di A. Burgio, Macerata 2005.
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S. Miccolis, Antonio Labriola. Saggi per una biografia politica, a cura di A. Savorelli, Stefania Miccolis, Milano 2010.
A. Savorelli, «Sanculotti e devoti». Fra Dolcino «narrato» da Labriola, «Giornale critico della filosofia italiana», 2012, pp. 445-59.
Luigi Dal Pane (Castel Bolognese, 1903-Faenza, 1979) lesse giovanissimo – da militante socialista e poi comunista – le opere di Labriola. A Roma nel 1922, presso i familiari del filosofo, poté studiarne le carte: ne risultò il tentativo – importante, ma filologicamente poco curato – di ricostruire sulla base di appunti del corso del 1900-1901 (e di altri materiali eterogenei) il ‘quarto saggio’, progettato da Labriola e mai portato a termine (Da un secolo all’altro. Considerazioni retrospettive e presagi, a cura di L. Dal Pane, 1925). Nel 1935 pubblicò Antonio Labriola: la vita e il pensiero (riproposto e ampliato poi come Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, 1975). La prefazione di Gioacchino Volpe al volume, che accentuava la distanza di Labriola dal Partito socialista, indugiando sui ‘precorrimenti’ del fascismo nelle sue posizioni sulla politica estera e la questione coloniale, favorì la circolazione del testo in pieno regime (pp. XIV-XVII). L’opera segnò la ripresa d’interesse nei confronti di Labriola, dopo un lungo oblio (negli anni successivi apparvero la ristampa degli studi su Marx di Gentile, 1937, e la riedizione dei Saggi curati da Croce, 1938-39), ripresa continuata poi ininterrottamente a partire dal dopoguerra. Docente di storia economica (a Bari, Perugia e Bologna), Dal Pane progettò l’edizione integrale degli scritti di Labriola, editi e inediti, della quale uscirono però, per dissensi con l’editore, solo i primi tre volumi (Opere, 1959-1962), contenenti le opere giovanili.
Il volume del 1935 e la successiva riedizione sono ancora oggi assai utili per la ricca mole di inediti e documenti che chiariscono in punti decisivi la vicenda di Labriola. Il fondo manoscritto raccolto da Dal Pane (costituito dalle carte, da parte del carteggio e da trascrizioni di corsi di mano degli allievi), ora acquisito dalla Società napoletana di storia patria, è la fonte principale del testo critico previsto dall’Edizione nazionale delle Opere di Labriola in corso di attuazione. Dal Pane giunse a scrivere, accentuando alcuni motivi dell’edizione del 1935, che l’importanza dei corsi universitari è «superiore a quella degli stessi lavori a stampa» (Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, cit., p. 421). Questo giudizio si spiega con la crescente propensione di Dal Pane, sulla base della problematicità del marxismo dell’ultimo Labriola, a scinderne l’opera storica da quella politica (che Labriola concepiva invece come strettamente unite, anzi inseparabili), sottolineando la «prevalenza» dei «criteri scientifici e positivi» su quelli «ideologici»: al punto che il materialismo storico nella versione labrioliana (superiore persino a quella di Marx) non sarebbe più «né socialistico, né antisocialistico» (pp. XIV, 333, 380). Labriola, sarebbe perciò autore di un sistema «aperto» e di una rivoluzione nei «metodi della storiografia», della quale lo stesso autore ebbe solo in parte coscienza (pp. 374, 444). Dal Pane finiva così per consentire con il primo Croce sul valore del marxismo di Labriola come canone di metodo storico, respingendone invece la lettura come «semplice ideologia rivoluzionaria» (pp. 449, 457). Gli autentici eredi di Labriola non furono così, per Dal Pane, Croce o Gramsci, ma piuttosto due autori con i quali egli aveva avuto stretti contatti, ossia Rodolfo Mondolfo e Volpe. La «filosofia della praxis» di Mondolfo sarebbe in qualche modo implicita nel materialismo storico di Labriola, il quale, nonostante i suoi residui deterministici e la preminenza data all’economia nella spiegazione dei fatti storici, si accosterebbe alla comprensione dell’«infinita varietà e complessità» della vicenda umana. Il primo Volpe per parte sua – quello degli studi sulle istituzioni medievali – mostra secondo Dal Pane l’assimilazione più consapevole del metodo storiografico di Labriola, alieno da qualsiasi «sociologismo astratto» (pp. 370-72, 466-68).