Antonio Scialoja
Antonio Scialoja è considerato un protagonista di primo piano della politica economica risorgimentale. Stretto collaboratore di Cavour prima e dei governi della Destra storica poi, partecipò infatti attivamente alla realizzazione del progetto unitario. Convinto sostenitore di un’economia di mercato nelle sue pubblicazioni, nella pratica di uomo di governo dovette spesso venire a patti con le sue stesse convinzioni, senza peraltro mai perdere la fiducia nella forza trainante della scienza economica ai fini dell’emancipazione dall’arretratezza economica e sociale dell’Italia.
Scialoja nasce il 1° agosto 1817 a San Giovanni a Teduccio (Napoli) da Aniello e Raffaella Madia. Indirizzato fin dall’adolescenza agli studi classici, dimostra un particolare interesse per le scienze sociali, dedicandosi con impegno allo studio dell’economia e del diritto. Nel 1840, in uno studio privato a Napoli, comincia a insegnare economia politica e diritto commerciale e pubblica, a soli 23 anni, I principj della economia sociale, opera che attira su di lui una notevole attenzione, non esente tuttavia da critiche, e sulla quale ritornerà nella seconda edizione del 1846 con sostanziali modifiche. Nel 1841 ottiene da Ferdinando II, per i suoi meriti scientifici, la laurea «gratuita e senza esami» in giurisprudenza.
Nell’aprile del 1844 un viaggio di lavoro a Parigi e a Londra coincide con la pubblicazione in francese dei suoi Principj. Il 25 agosto 1845 sposa Giulia Achard, dalla quale avrà cinque figli. Continua nel frattempo la sua attività di pubblicista, nonché di studioso e insegnante di diritto ed economia e nel 1846 è nominato professore di economia politica all’Università di Torino. A questo impegno si aggiungeranno altri incarichi autorevoli: a Napoli il 3 aprile 1848 è nominato membro del consiglio del Ministero delle Finanze da Carlo Troya e il 7 aprile ministro di Agricoltura e Commercio nonché deputato nel collegio elettorale di Pozzuoli.
La situazione politica di quegli anni incide profondamente sugli avvenimenti della sua vita, ma non frena la sua attività. Il 23 settembre 1849 è arrestato con l’accusa di cospirazione contro la sicurezza interna dello Stato borbonico, nel febbraio del 1852 viene condannato a nove anni di reclusione, pena che nell’ottobre dello stesso anno viene commutata nell’esilio dal Regno.
Chiamato a Torino vi organizza un corso di diritto commerciale e di economia industriale e politica. Subito dopo ottiene la ratifica del titolo di professore onorario di economia politica all’università.
Negli anni seguenti i suoi impegni si dividono fra l’insegnamento, diversi incarichi pubblici di prestigio, le numerose pubblicazioni scientifiche. Nell’ottobre del 1860 è nominato professore di economia pubblica all’Università di Napoli, carica che lascia nel gennaio del 1861 per assumere altri importanti incarichi istituzionali: nel 1862 diviene consigliere della Corte dei conti e senatore del Regno, e successivamente incaricato di concordare il primo trattato commerciale con la Francia; nel 1865 è nominato ministro delle Finanze nel secondo ministero La Marmora, incarico che mantiene fino al 17 febbraio 1867, poi ministro della Pubblica istruzione nel 1872 nel ministero Lanza. Nel 1876 è inviato dal ministro Marco Minghetti in Egitto con il compito di razionalizzare le finanze del Paese. Muore a Procida il 13 ottobre 1877.
Tra gli anni Trenta e la fine degli anni Quaranta dell’Ottocento i Paesi di tutta l’Europa vivono un periodo di grande instabilità economica e finanziaria, durante il quale emergono i limiti dei meccanismi autoregolatori del mercato sia interno sia internazionale, il che mette in discussione il diffuso ottimismo del modello di sviluppo classico. Si assiste dunque a un approfondimento della teoria economica e a un generalizzato bisogno di cambiamento anche in Paesi, come il Regno delle due Sicilie, amministrati da governi fortemente reazionari.
Scialoja, ancora molto giovane, si trova a far parte della nuova classe intellettuale napoletana particolarmente interessata alle questioni di teoria e di politica economica, ma anche di scienza delle finanze e di statistica, nell’ottica dei nuovi bisogni della società meridionale. L’esigenza fortemente sentita lo spinge nel 1840 a pubblicare I principj della economia sociale. Nel 1846 la seconda edizione conterrà «aggiunte e correzioni» che denotano il passaggio di Scialoja da una cultura economica tipica del Settecento italiano a quella della scuola classica in un tentativo interpretativo del tutto personale.
A I principj, che rimangono il suo principale e più compiuto contributo economico, seguono nel 1848 il Trattato e le Lezioni universitarie tra il 1846 e il 1854.
Nonostante gli approfondimenti continui, si nota che alcuni temi del pensiero economico di Scialoja persistono e riemergono anche a distanza di tempo durante la sua attività di uomo di governo, concentrati intorno a un unico nucleo teorico, il concetto di valore, grazie al quale è possibile spiegare ogni manifestazione dell’attività economica nella sua globalità.
Secondo Scialoja «l’utilità delle cose dunque congiunta alla difficoltà più o meno grande di ottenerle, costituisce il loro valore permutabile» (I principi della economia sociale, in Id., Opere, 1° vol., a cura di G. Gioli, 2006, p. 3). Dunque, il valore è sempre, in qualche modo, l’espressione del giudizio che l’uomo dà sulle cose, a seconda dei propri bisogni materiali e immateriali e delle difficoltà che incontra nel soddisfarli. Queste ultime in particolare condizionano la domanda del singolo consumatore, orientando in tal modo anche il processo della distribuzione e dello sviluppo economico di un Paese (Introduzione a I principi della economia sociale, cit., pp. LXII-LXIII).
Da queste premesse Scialoja sviluppa l’analisi della rendita, sia assoluta sia differenziale, quella sull’accumulazione del capitale e quella sull’attività dell’imprenditore innovatore ai fini del benessere sociale.
Per Scialoja la causa principale del sottosviluppo e degli squilibri che impediscono la crescita equilibrata del sistema economico va ricercata nell’arretratezza agricola e nella carenza di capitali cioè nel divario fra l’agricoltura e l’industria manifattrice (I principi della economia sociale, cit., p. 139). Secondo l’autore non si può comunque parlare di sviluppo se oltre alla crescita quantitativa della ricchezza non avviene una promozione continua e duratura della facoltà dei singoli, della loro intelligenza creativa. Non stupisce, dunque, se al centro dell’attenzione di Scialoja troviamo l’imprenditore, cioè colui che, sia per circostanze favorevoli, sia per intelligenza, sia infine per capacità innovativa, è in grado di aumentare la produzione e di abbassare i prezzi.
Ponendosi nella tradizione di Adam Smith (1723-1790), anche Scialoja privilegia soprattutto la descrizione delle condizioni necessarie per la crescita come logica conseguenza di una grande efficienza produttiva, dovuta alle invenzioni di nuove tecniche, di nuovi macchinari, nonché alla specializzazione, alla divisione e associazione del lavoro, della terra (nel caso di latifondi) e del capitale.
Volgendo lo sguardo verso le società più industrializzate, particolarmente l’Inghilterra e la Francia, Scialoja ha modo di osservare come la formazione di capitale sia stata una delle molle decisive che hanno favorito il loro decollo economico. Ecco dunque l’importanza attribuita da Scialoja a quelle innovazioni che comportano risparmio di lavoro, riduzione del costo di produzione, quindi riduzione generale dei prezzi e specialmente un aumento del potere di acquisto di tutti i soggetti economici, sia pure in misura differenziata tra loro.
A tale riguardo egli ha presente che, senza un consistente mutamento tecnologico, la sola accumulazione di capitale non sarebbe in grado di far decollare l’economia dei Paesi ancora sottosviluppati, come è appunto il caso dell’Italia. Lo sviluppo di un Paese non può prescindere dalle sue condizioni reali e dalle sue potenzialità naturali: quindi Scialoja sottolinea l’importanza che i governanti operino scelte che, oltre a tener conto di una pluralità di fenomeni economici, tendano anche ad adeguare le istituzioni alle nuove esigenze politico-sociali dei Paesi in via di sviluppo.
Tuttavia, questo aumento di potenzialità economica non potrà dar luogo a una crescita indifferenziata della produzione. Esso dovrà essere indirizzato verso quei beni la cui domanda sia prevista crescente e verso nuovi prodotti. Da qui nasce la sua critica ai «profeti sociali», e in primo luogo a Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi, che a torto temono il verificarsi di eccessi produttivi generali e duraturi. Il progresso dell’industria è l’unica strada percorribile per garantire l’«agiatezza dei popoli». Se la realtà fa registrare attriti negli sbocchi di alcuni mercati, lo squilibrio ha natura occasionale ed è interpretabile solo come effetto temporaneo e settoriale di un incidente di percorso. I bisogni dell’uomo, una volta soddisfatti quelli di pura sussistenza, sono per Scialoja quasi sempre indotti, e pertanto crescono con il crescere del benessere della società. Non solo. Molti bisogni, essendo pure creazioni della capacità imprenditoriale, sembrano essere inesauribili e infiniti. La crescita economica non può prescindere peraltro dall’idea che «la ricchezza mal compartita non è ricchezza ben goduta; è ricchezza cui manca qualcosa per essere ricchezza sociale» (I principj della economia sociale, 1840, p. 148). Un’idea questa che lo accompagnerà durante tutto il suo cammino di studioso e di uomo politico.
In particolare, l’attenzione di Scialoja si concentra sulla rendita, sulla remunerazione del fattore terra che, pur dipendendo come tutti gli altri fattori della produzione dall’utilità nonché dalle difficoltà, a causa della sua natura limitata e della diversa fertilità, è inevitabilmente destinata ad aumentare con il progredire del sistema economico e della popolazione. Così come tende ad aumentare il prezzo di beni prodotti in regime di monopolio, «naturale che artificiale» che sia, anche quello della terra sarà governato dalle stesse regole e questo fatto crea una distorsione nella distribuzione delle entrate. Sebbene sia chiaro il riferimento alla teoria ricardiana della rendita come guadagno differenziale, Scialoja precisa che condivide solo in parte l’analisi dell’economista inglese. Fra i molti grandi che trattarono della rendita – Smith, James M. Buchanan, Thomas R. Malthus, Sismondi – le simpatie di Scialoja, ma sempre con il beneficio d’inventario, vanno ad Álvaro Flórez Estrada.
La politica protezionista che regolamenta in misura diversa l’economia degli Stati italiani prima dell’Unità rappresenta un anacronismo economico e sociale anche in Scialoja rispetto al principio su cui si basa il pensiero fisiocratico del «si lasci passare e fare liberamente», seguito poi dall’indirizzo di pensiero di Smith, dal quale i governanti del nuovo regno non potevano né dovevano prescindere.
Secondo Scialoja, la crescita della ricchezza di una nazione passa, inevitabilmente, attraverso un processo graduale, e occorre sottolineare tale aggettivo, di liberalizzazione del mercato. Solo così può realizzarsi quel forte impulso alla produzione e agli scambi, chiaro indice di progresso. In tutti i momenti della sua vita egli si mantiene fedele al principio della libertà di commercio che, tra l’altro, implica il principio etico della libertà personale tutelato dal diritto di proprietà.
Una volta garantito dallo Stato un quadro istituzionale di libertà, non solo economica, Scialoja sembra disposto a mutare le sue proposte di politica economica a seconda del mutare della situazione del momento. «Col cambiare de’ bisogni l’opera dell’uomo, le istituzioni da lui fondate debbono cambiare» (I principi della economia sociale, 2006, p. 161). L’intervento pubblico è voluto in particolare per correggere e guidare l’economia del Paese che per cause naturali e per cause artificiali si trovi nell’incapacità di rendere operativi i principi teorici su cui si fonda la scienza economica.
Comunque, nel 1861, quando Carestia e governo è di nuovo pubblicato, arricchito da una lunga Prefazione, il pensiero di Scialoja risulta molto più a favore dell’assoluta libertà rispetto all’edizione del 1853. La posizione già manifestata in occasione del Congresso internazionale di Bruxelles del 1856 è espressa con motivazioni ancor più approfondite appunto nella suddetta Prefazione, a proposito dei problemi creati dai prezzi eccessivi della produzione agricola.
Le soluzioni economiche, soprattutto nell’Italia meridionale, per Scialoja vanno ricercate nei maggiori investimenti in agricoltura destinati a ridurre i costi e a colmare il divario con l’industria e nell’introduzione della libertà di commercio nelle province napoletane.
Solo così le aree arretrate del Sud possono partecipare ai miglioramenti che si fanno nelle altre parti dell’Italia, poiché la libertà stimola con la concorrenza l’agricoltore, elimina alcune produzioni artificiali sostenute dai dazi protettori e destina la terra a favore delle produzioni naturali, quelle cioè in cui essa è più dotata. Tuttavia, se è vero che il processo di sviluppo economico deve passare dall’industrializzazione dell’agricoltura, Scialoja sottovaluta le oggettive difficoltà di applicare alla realtà agricola dell’Italia meridionale, più povera e parcellizzata, i sistemi già industrializzati del Nord.
In realtà la posizione di Scialoja non è sempre lineare. In molte occasioni, pur sottolineando egli stesso di parlare più come delegato del governo che come economista teorico, si trova a enfatizzare l’importanza dell’intervento pubblico. Notevole interesse suscita ancor oggi il volume I bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi del 1857 in cui analizza la positività di una forte spesa pubblica finalizzata, nel lungo periodo, allo sviluppo morale e socioeconomico del Paese.
Tuttavia, la situazione economica alla fine degli anni Cinquanta impone decisioni difficili ma necessarie come la chiusura di attività incapaci di sostenere la concorrenza in un mercato liberalizzato. E le scelte di Scialoja si adeguano alle leggi del libero mercato e della concorrenza internazionale.
Il 4 febbraio 1862 si aprono a Parigi i negoziati per la stesura del Trattato di commercio e di navigazione con la Francia concluso il 17 gennaio 1863. Scialoja, deputato al Parlamento italiano, vi partecipa svolgendo un ruolo importante durante tutti i lavori, sia con i delegati francesi, sia in occasione del dibattito parlamentare italiano.
La posizione di Scialoja, condivisa con Cavour, è nota: occorre favorire lo sviluppo delle esportazioni agricole, senza pregiudicare la crescita del settore industriale sia tessile sia meccanico. Favorevole a una crescita equilibrata dei due settori, egli opta per una politica economica che privilegi i settori naturali, quelli cioè che godono di vantaggi che non dipendono da una politica protezionistica (Magliulo, in Antonio Scialoja e la politica economica del Risorgimento, 2009, p. 126).
Nel primo periodo dell’Unificazione, l’attività di Scialoja è dominata dalle questioni di finanza pubblica, che costituiscono la parte più rilevante del processo di unificazione economica. Nominato ministro delle Finanze il 31 dicembre 1865 (secondo ministero La Marmora) il suo ruolo è strettamente legato all’introduzione del corso forzoso, un provvedimento che lascerà tracce sulla struttura monetaria e creditizia del nuovo Stato. Altri progetti come quello di riforma tributaria in cui affronta il problema di una revisione organica del sistema finanziario rimangono però inattuati.
Il 22 gennaio 1866, nel Discorso inaugurale alla Camera, Scialoja espone le linee generali del suo piano, in un momento in cui, come scrive Francesco Ferrara, «mai forse un ministro non ebbe a prendere la parola in mezzo a tante preoccupazioni avverse» perché tutte le vie normali di provvedere ai bisogni di tesoreria dello Stato sembravano precluse. Scialoja, con una nota di ottimismo, dichiara di poter raggiungere il pareggio del bilancio grazie a un piano che eviti di ricorrere a misure di natura straordinaria.
L’annoso problema del disavanzo può avviarsi alla normalità secondo un piano di riordinamento generale delle imposte dirette. Il disegno di Scialoja appare semplice. Tre imposte stanno alla base del suo edificio finanziario. L’imposta fondiaria – ridotta rispetto alla legge del 1864 –, l’imposta di esercizio e una tassa generale, ma lieve, su tutte le entrate, che comprenda anche i proprietari terrieri, perché sarebbe stato assai incoerente esentarli dal pagamento dell’imposta. Lo Stato moderno, che l’Italia si avvia a essere, non può permettere a una classe assai numerosa di cittadini di godere di privilegi particolari, esentandola, tra l’altro, dalla denuncia delle proprie entrate. Dichiara in più occasioni l’economista napoletano:
Che i proprietari terrieri si calmino [...] È tempo ormai di rinunciare ad essere una classe di privilegiati che ha dichiarato una guerra ad oltranza alle denunce. Poiché se l’incomodo esiste deve essere tale per tutti e per tutto.
La riforma fiscale esposta da Scialoja non è soltanto la reazione immediata alla domanda di fondi fatta dal Tesoro. È infatti, quella di Scialoja, una riforma che trova il suo supporto nella teoria della distribuzione e, soprattutto, nella teoria della rendita.
Il fattore terra resta comunque per Scialoja un fattore del tutto speciale. Di conseguenza, anche il proprietario viene a trovarsi in una situazione assai particolare che lo differenzia dai possessori degli altri fattori della produzione. Sono i due requisiti di appropriazione e di limitazione naturale dello spazio a qualificare tale differenza.
Il disegno di politica finanziaria proposto da Scialoja ha evidenti lati deboli soprattutto ai fini di un rapido aumento delle entrate ordinarie. Gli stessi sostenitori della sua proposta, Giovanni Arrivabene, Carlo De Cesare, Agostino Magliani per es., osservano che l’ipotesi di Scialoja sembra perseguire un altro obiettivo, quello di voler essere uno strumento riequilibratore delle sperequazioni esistenti nella distribuzione del reddito in Italia, piuttosto che un mezzo di incremento delle entrate del Tesoro. Tutto il suo pensiero, dunque, converge su di un sistema tributario ordinario basato sulle imposte dirette e contrario, sul piano teorico e pratico, al sistema di imposte indirette, antico retaggio degli Stati protezionisti e assolutisti. Certo è che non vi era stata peggiore situazione finanziaria di quella esistente al momento in cui Scialoja avanza il suo progetto.
Nonostante il carattere di organicità che distingue la sua proposta di riforma, l’ottimismo iniziale manifestato da Scialoja non sembra tener conto della condizione di emergenza in cui versa la finanza pubblica. Infatti, soltanto quattro mesi più tardi, lo stesso Scialoja, in seguito ai pieni poteri ottenuti dal governo in materia finanziaria (30 aprile 1866), è costretto ad assicurare alla tesoreria un mutuo di 250.000.000 da parte della Banca nazionale e a dichiarare il corso forzoso (1° maggio 1866), abbandonando il suo progetto di riforma.
Si introduce così per la prima volta nella storia dello Stato unificato una misura che sanziona coercitivamente l’impiego della circolazione fiduciaria e che, contrariamente alla valutazione di Scialoja circa il suo carattere straordinario e nonostante ripetute proposte di revoca, sarà destinata a persistere fino al 1883.
Intorno al provvedimento e alle sue implicazioni, superata la fase più acuta della crisi, si sviluppa un acceso dibattito che sbocca nell’apertura di un’inchiesta parlamentare di cui è incaricata una commissione nominata dalla Camera dei deputati il 10 marzo 1868, inchiesta che rappresenta, nel contesto economico-finanziario, il principale «caso» del periodo.
La valutazione di Scialoja, largamente divergente da quella della commissione, intende sottolineare il progressivo deteriorarsi della congiuntura finanziaria e politica: l’impatto su quest’ultima delle alterne vicende nelle trattative con la Prussia, il timore diffuso che l’Italia possa andare incontro a un prolungato sforzo bellico, la crisi sulle principali piazze finanziarie, la grave flessione nei corsi della rendita pubblica italiana, lo stesso diffondersi delle attese di provvedimenti straordinari, rendono attendibile il quadro allarmante dipinto da Scialoja.
Per la Commissione d’inchiesta, invece, Scialoja, responsabile di un grave errore di valutazione, è da considerarsi come lo strumento inconsapevole di una speculazione abilmente condotta dalla Banca nazionale. La sfiducia del Parlamento sull’attività finanziaria svolta (con particolare riguardo al progetto di riforma tributaria, all’attuazione del corso forzoso e all’emissione del prestito nazionale obbligatorio) lo inducono a dimettersi dal governo Ricasoli il 17 febbraio 1867. Ciò che tuttavia si deve evidenziare è l’uso della politica fiscale come strumento indirizzato al conseguimento di una maggiore equità nella distribuzione della ricchezza nella società italiana. Ma, come molti economisti, Scialoja non è un rivoluzionario, ma un critico di alcune istituzioni e consuetudini del tempo, e offre determinate risposte in vista di quello che egli considera il progresso. E, se questa linea interpretativa è convincente, non stupisce il fatto che Scialoja nel 1874, pressato dalle «necessità dei nuovi tempi», sottoscriva assieme a Luigi Cossa, Luigi Luzzatti, Fedele Lampertico, la ben nota «circolare» di Padova, nella quale, tra l’altro, è definita la funzione economica che spetta allo Stato, affinché la libertà non sia sfruttata dal fatalismo degli ottimisti, ma divenga più certa e feconda.
I principj della economia sociale esposti in ordine ideologico, Napoli 1840, Torino 1846; poi in Id., Opere, 1° vol., a cura di G. Gioli, Milano 2006 (trad. franc. Paris 1844).
Industria e protezione, ossia intorno alle riforme di Robert Peel, applicate alle condizioni dell’industria napoletana. Osservazioni, Livorno [ma Napoli] 1846.
Lezioni di economia politica, Torino 1846-1854; poi in Id., Opere, 3° vol., a cura di E. Pesciarelli, M.F. Gallifante, S. Perri, R. Romani, Milano 2006.
Trattato elementare di economia sociale, Torino 1848; poi in Id., Opere, 2° vol., a cura di A. Magliulo, Milano 2006.
Carestia e governo, Torino 1853 (rist. con Prefazione, Napoli 1861).
Discorso di Scialoja sulle dogane sarde, napoletane e toscane, «Annali universali di statistica», s. III, 1856, 12, pp. 79-92.
I bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi, con note e confronti, Torino 1857.
Sui trattati di commercio e sulle convenzioni di navigazione che l’Italia ha stipulato con la Francia e con gli altri stati dopo la costituzione del nuovo Regno, «Nuova antologia», febbr. 1866, 1, pp. 236-51.
Sulla sistemazione delle imposte dirette e sulla introduzione e modificazione di alcune altre imposte (1866), in Storia della finanza pubblica, 10° vol., Documenti, parte II, a cura di S. Buscema, N. D’Amati, Padova 1961.
G. Gioli, Il pensiero economico di Antonio Scialoja, Pisa 1989.
F. Di Battista, Dalla tradizione genovesiana agli economisti liberali. Saggi di storia del pensiero economico meridionale, Bari 1990.
Le cattedre di economia politica in Italia. La diffusione di una disciplina sospetta. 1750-1900, a cura di M.M. Augello, M. Bianchini, G. Gioli, P. Roggi, Milano 19923.
R. Romani, L’economia politica del Risorgimento italiano, Torino 1994.
Associazionismo economico e diffusione dell’economia politica nell’Italia dell’Ottocento, a cura di M.M. Augello, M.E.L. Guidi, 2° vol., Milano 2000.
Antonio Scialoja e la politica economica del Risorgimento, Atti del Convegno di studi, Napoli (22-23 febbraio 2007), a cura di P. Barucci, G. Gioli, P. Roggi, Napoli 2009 (in partic. A. Magliulo, Il trattato di commercio tra Italia e Francia del 1863. Il ruolo diplomatico-parlamentare di Antonio Scialoja, pp. 101-27).