Antonio Serra
Antonio Serra, cosentino, avrebbe potuto ambire al titolo di fondatore dell’economia politica con il suo libro Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere con applicazione al Regno di Napoli (1613) ben prima di William Petty o di Adam Smith. Tuttavia, per oltre un secolo e mezzo il suo lavoro e il suo stesso nome sono rimasti pressoché sconosciuti. Ne dobbiamo la riscoperta all’abate Ferdinando Galiani, poi al barone Pietro Custodi che apre proprio con quel trattato la sua celeberrima collana di Scrittori classici italiani di economia politica. Da allora, il lavoro di Serra ha continuato a suscitare interesse, anche grazie alla varietà di interpretazioni che ne sono state date, mentre le notizie sull’autore continuano a essere incerte e frammentarie.
Di Serra sappiamo pochissimo. L’unica cosa certa è che quattro secoli fa, il 10 luglio 1613, un prigioniero delle carceri napoletane della Vicaria, il cosentino dottor Antonio Serra, firmava la dedica di un suo libro, Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere con applicazione al Regno di Napoli. Il libro era dedicato al viceré del Regno di Napoli, Pedro Fernández de Castro conte di Lemos, e offriva consigli di politica economica per migliorare le condizioni del Regno, di cui si segnalava un netto ritardo rispetto ad altre parti d’Italia. Serra insisteva in particolare – ma non solo – sulla carenza di moneta. In vari casi, in realtà, l’autore si limitava ad accennare o promettere rimedi, senza illustrarli, chiaramente nella speranza di capovolgere le proprie sorti, favorendo la propria liberazione dal carcere e l’ammissione a corte.
Non si trattava di un comportamento inconsueto fra i prigionieri più colti. Possiamo richiamare al riguardo l’esempio di Tommaso Campanella, il celebre autore della Città del sole, rinchiuso nelle carceri napoletane all’incirca negli stessi anni di Serra; egli era stato più volte torturato ed era stato condannato a morte per avere organizzato una rivolta in Calabria in collegamento con i Turchi. Si era salvato solo simulando la pazzia. Tuttavia, riuscì poi a trascorrere l’ultima fase della sua vita presso la corte di papa Urbano VIII, che a quanto pare ne stimava le capacità astrologiche, e infine di Luigi XIII re di Francia, grazie al fatto che in alcune opere aveva attribuito proprio alla Francia un ruolo centrale nello scacchiere internazionale.
È necessario sottolineare questo aspetto, perché esso può giocare un ruolo decisivo nello spiegare certe enfasi e certe cautele, talune importanti omissioni e forse l’impostazione stessa del Breve trattato.
Per quel che sappiamo, però, Serra non ebbe successo. Il suo libro sembra non avere suscitato all’epoca reazioni degne di nota. Risulta solo che qualche anno più tardi, il 6 settembre 1617, l’autore riuscì a farsi ricevere a corte per discutere di alcune sue idee per migliorare le condizioni economiche del Regno; tuttavia, anche in questo caso non fece breccia «con le ciarle, non ave[ndo] altro concluso che chiacchiere», e venne ricondotto in carcere. Così almeno sostiene la testimonianza di un contemporaneo, riportata nei Giornali del governo di don Pietro Giron Duca d’Ossuna (1616-1620), individuata da Luigi De Rosa (1965, p. 115 nota). In effetti, Serra aveva sostenuto nel suo libro, e probabilmente riproposto a voce, una posizione critica rispetto ad alcuni possibili provvedimenti, tra cui proprio quelli adottati dal duca di Ossuna nel 1618.
Riprendendo una «congettura del cittadino Salfi» (cfr. F. Salfi, Elogio di Antonio Serra primo scrittore di economia civile, 1802, pp. 64 e segg.), Custodi (1803, pp. XXXI-XLIV) ritiene plausibile che Serra fosse stato compagno di Campanella non solo nelle carceri napoletane, ma anche nel progetto di secessione delle province meridionali d’Italia dall’impero spagnolo che a tanti congiurati era costato durissime condanne. Su quest’ipotesi affascinante Custodi insiste per costruire una figura di Serra patriota e cittadino impegnato; nello stesso senso essa è stata successivamente ripresa da vari autori (fra i quali Pecchio 1832, pp. 46-47; Ferrara 1852, p. LV; Fornari 1879, p. 42).
Tuttavia essa è ormai abbandonata, dato che nessuno tra i numerosi studiosi che hanno approfonditamente indagato sulla congiura di Campanella ha trovato alcun riferimento al nome di Serra. Anzi, il più tenace fra tali studiosi, Luigi Amabile (1882, 3° vol., pp. 646-48), cita due documenti del 1612 secondo i quali tale Antonio Serra era incarcerato sotto l’accusa di falso monetario. Qualsiasi fosse l’accusa, ancora nel 1617 Serra risultava rinchiuso nel carcere giudiziario della Vicaria e, quindi, sempre in attesa di processo.
Altrettanto tenui sono gli indizi sui quali possiamo basarci per formulare ipotesi sugli studi e la professione di Serra. Se è fondata la tesi di Amabile, secondo cui Serra era accusato di falso monetario, e soprattutto se teniamo conto della relativa familiarità che l’autore del Breve trattato mostra con le pratiche dei mercati dei cambi, possiamo supporre che egli avesse a che fare con una qualche attività finanziaria, più precisamente, non risultando incarichi pubblici presso la Zecca, un’attività privata di intermediario finanziario. Per quanto riguarda gli studi, sappiamo di sicuro solo che lo stesso Serra è indicato nel frontespizio del Breve trattato come ‘dottore’; ma non sappiamo se in teologia, in legge o in medicina.
In sostanza, è questo uno dei casi in cui l’autore vive solo attraverso la sua opera; è all’esame di questa che ora ci dedichiamo, dopo avere brevemente richiamato la storia della sua riscoperta.
L’opera di Serra riaffiora dall’oblio dopo oltre un secolo e mezzo, grazie all’abate Galiani, che ne parla con toni estremamente elogiativi nella seconda edizione (1780) del suo Della moneta. Il vero artefice del rilancio del Breve trattato è comunque il barone Custodi. Questi, sulla scia dell’elogio fattone da Galiani, dichiara di considerare Serra «il primo scrittore di Politica Economia» (Custodi 1803, p. XXVII) e lo pone al primo posto, scavalcando il criterio cronologico, nella sua celebre raccolta di Scrittori classici italiani di economia politica (50 voll., 1803-1816), anche se l’edizione di Custodi non può essere considerata un modello di rigore filologico. Il Breve trattato è, a quell’epoca, un’assoluta rarità bibliografica. Custodi è a conoscenza soltanto di due copie, una delle quali è quella appartenuta a Galiani. Tommaso Fornari (1879, pp. 43-44) indica l’esistenza di cinque copie: una, passata successivamente per le mani di Bartolomeo Intieri, Galiani, Giuseppe Palmieri, Francesco Salfi, Custodi stesso e pervenuta infine alla Biblioteca Ambrosiana; una a Parigi; tre a Napoli, presso la Biblioteca Nazionale, la Biblioteca dell’Università, e la Società storica per le province napoletane. Un’altra copia è custodita alla Fondazione Luigi Einaudi di Torino, dopo essere passata per le mani di Benedetto e poi di Elena Croce e di Luigi Einaudi. Altre copie ancora sono conservate presso la Biblioteca Vaticana di Roma, proveniente dal fondo Barberini, e presso la Biblioteca civica di Cosenza, proveniente dalla famiglia Salfi.
Ricordiamo poi la copia di proprietà del professor Arnold Heertje di Amsterdam, utilizzata dalla Verlag Wirtschaft und Finanzen GMBH per la sua ristampa anastatica, e acquistata di recente dal professor Erik Reinert. Infine, mi è giunta notizia di alcune copie in possesso di privati: la famiglia Mancini di Cosenza e la famiglia Pagano di Napoli.
Da allora, l’opera di Serra è stata ristampata più volte: integralmente e in un’edizione filologicamente accurata in un’antologia curata da Augusto Graziani nel 1913; con qualche taglio, in un’altra antologia curata da Giorgio Tagliacozzo nel 1937; più di recente, in due antologie, curate rispettivamente da Raffaele Colapietra nel 1973 e da Luigi De Rosa nel 1994, e in tre ristampe, una con introduzione di Carmelo Trasselli nel 1974, una curata da Sergio Ricossa nel 1986 e una curata da Antonio Landolfi e Domenico Luciano nel 1999. Dobbiamo anche ricordare la ristampa integrale della Collana Custodi a cura di Oscar Nuccio (1965), quella del solo Breve trattato di Serra – sempre dall’edizione Custodi – a cura di Ettore Rotelli (1985), la splendida ristampa anastatica curata nel 1994 dalla Verlag Wirtschaft und Finanzen GMBH nell’ambito della collana dei Klassiker der Nationalökonomie. Infine, ricordiamo il volume Serra visto da Enzo Grilli (2006), con un’ampia introduzione di Grilli e passi scelti del Breve trattato.
Per lungo tempo l’opera di Serra è rimasta confinata in Italia; ancora oggi gli storici del pensiero di lingua anglosassone la citano assai raramente, e si meravigliano quando ne vedono scrivere nei trattati di storia del pensiero economico. Una traduzione inglese di brani del Breve trattato è inclusa in Early economic thought (1924) di Arthur E. Monroe; una traduzione inglese completa, a cura e con ampia introduzione di Sophus Reinert, è stata pubblicata nel 2011.
Anche gli scritti su Serra (e i rinvii alla sua opera) divengono decisamente più frequenti nel corso dell’ultimo secolo. Oltre alle introduzioni, note e appendici di Graziani, Tagliacozzo, Nuccio, Trasselli, Rotelli, Ricossa, De Rosa, Landolfi e Luciano, Grilli, Reinert nei volumi da loro curati, ricordiamo qui il volume di Fornari (1879), gli articoli di Antonio De Viti De Marco (1889), Rodolfo Benini (1892), Gino Arias (1923), De Rosa (1965), Tullio Toscano (1985), Annalisa Rosselli (1995), e il volume Antonio Serra und sein “Breve trattato” (Schefold 1994), pubblicato in occasione della ristampa anastatica della Verlag Wirtschaft und Finanzen GMBH. Sia consentito anche richiamare Alessandro Roncaglia (1999), ampiamente utilizzato nello scrivere queste pagine.
Consideriamo ora la struttura e il contenuto del libro. Dopo la dedica e il Proemio, il Breve trattato è diviso in tre parti. La prima, per noi oggi probabilmente la più interessante, indaga sulle «cause per le quali li regni possano abbondare, d’oro e argento», come dice il titolo del cap. I: ossia, in pratica, sulle cause – pur se non sulla natura – della prosperità economica delle nazioni intesa in senso lato, procedendo anche a un confronto fra le condizioni del Regno di Napoli e quelle di altre parti d’Italia, in particolare Venezia.
La seconda parte è essenzialmente dedicata alla confutazione delle proposte avanzate qualche anno prima da Marc’Antonio De Santis (Discorso di Marc’Antonio De Santis intorno a gli effetti, che fa il cambio in Regno, 1605) e accolte in una ‘prammatica’ (decreto governativo) del giugno 1607 ben presto abbandonata, miranti a ridurre il cambio per attirare dall’estero moneta nel Regno (Raffaele Colapietra, 1973, pp. 24-28, illustra le principali prammatiche adottate in campo monetario tra il 1605, data di pubblicazione dello scritto di De Santis, e il 1613, quando Serra licenzia per le stampe il Breve trattato).
La terza parte discute in modo sistematico, ma sempre con riferimento critico alle tesi di De Santis, i diversi interventi di politica monetaria sperimentati o proposti «per fare abbondare il Regno di moneta».
La prosperità economica di un Paese, spiega Serra, dipende da «accidenti propri», cioè caratteristiche originarie specifiche di ciascun Paese, e da «accidenti comuni», cioè circostanze più o meno favorevoli che possono essere ricreate ovunque. Tra i primi, Serra ricorda «la superabondanzia delle robbe», ossia la dotazione di ricchezze naturali, in particolare la fertilità della terra (Serra utilizza comunemente il termine robbe per indicare i prodotti agricoli), e «il sito», ovvero la localizzazione «a rispetto d’altri regni e altre parti del mondo». Gli «accidenti comuni» invece sono quattro: «quantità d’artifici, qualità de genti, trafico grande de negozi e provisione di quel che governa». In altri termini: produzione manifatturiera, qualità morali e capacità professionali della popolazione, estensione del commercio (specie quello internazionale di transito), assetto politico-istituzionale. Quest’ultimo è l’elemento più importante «poiché si può dire come causa efficiente e agente superiore di tutti gli altri accidenti» (Breve trattato [1613], in Economisti del Cinque e Seicento, a cura di A. Graziani, 1913, p. 161).
Dopo avere analizzato questi elementi nei primi sette capitoli della prima parte, Serra rileva che per quanto riguarda gli «accidenti propri» il Regno di Napoli risulta avvantaggiato (tranne che per il sito) in particolare rispetto a Venezia: se Napoli è tanto più povera di Venezia, questo non può che dipendere dagli «accidenti comuni». Nel mostrare come ciò si verifichi, e per quali motivi oro e argento defluiscano dal Regno di Napoli, Serra ricostruisce con molto acume la situazione della bilancia dei pagamenti del Paese, sia pur senza fornire un’esposizione sistematica di questo concetto.
La seconda parte del Breve trattato è la più lunga e più convoluta delle tre. Per metà (i primi cinque capitoli) essa è dedicata alla confutazione della tesi di De Santis secondo cui «l’altezza del cambio della piazza di Napoli con l’altre d’Italia è la sola causa che ha fatto impoverire il Regno di denari», perché fa sì che i pagamenti dall’estero vengano effettuati tramite lettere di cambio mentre i pagamenti verso l’estero avvengono in contanti. Serra invece nega che lo squilibrio possa avere origine nel meccanismo delle lettere di cambio; la scarsità di moneta nel Regno dipende dal sottostante squilibrio in quella che oggi chiamiamo bilancia dei pagamenti. Infatti, se traduciamo nella nostra terminologia quanto Serra sostiene nel cap. X, l’afflusso di valuta corrispondente alle esportazioni di prodotti agricoli è ben più che controbilanciato dalle rimesse per interessi sui titoli del debito pubblico e per i profitti sulle attività produttive controllate da «forastieri», soprattutto mercanti-banchieri genovesi e fiorentini.
I restanti capitoli della seconda parte del Breve trattato, dal VI al XII, sviluppano critiche alla prammatica proposta da De Santis (e, nel cap. VIII, a quella analoga precedentemente adottata dal conte d’Olivares), diretta a fissare un basso cambio tra Napoli e le altre piazze finanziarie (i lavori di De Santis discussi da Serra sono ristampati in Problemi monetari negli scrittori napoletani del Seicento, 1973, e in Il Mezzogiorno agli inizi del ’600, 1994).
Infine, la terza parte discute le politiche economiche utilizzabili per migliorare la situazione del Regno, sviluppando l’analisi svolta nelle due parti precedenti. Nei primi quattro capitoli Serra passa in rassegna diversi interventi amministrativi sui mercati finanziari e valutari, alcuni già sperimentati (proibizione all’esportazione di monete e metalli preziosi, riduzione del cambio, utilizzazione delle monete estere come mezzo di pagamento interno, sopravvalutazione delle monete estere e/o obbligo di consegna alla Zecca nazionale) e altri – dice prudentemente il nostro autore – solo proposti (aumento del valore facciale delle monete nazionali, riduzione del loro contenuto aureo o argenteo). Il quinto capitolo discute brevemente «della proporzione giusta fra l’oro e l’argento». Pur non opponendosi in linea di principio a misure amministrative, Serra avanza critiche più o meno drastiche verso questi interventi: quando non siano addirittura controproducenti, essi risultano comunque inefficaci, in quanto, come si è visto, il vero problema riguarda lo squilibrio nella bilancia dei pagamenti.
Negli ultimi capitoli, infine, Serra sottolinea quanto sia difficile affrontare questi problemi di fondo, indicando come obiettivo principale lo sviluppo dell’attività produttiva nel Regno, e rinviando a una sperata udienza diretta con le autorità politiche la specificazione di un programma dettagliato d’interventi. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’obiettivo di Serra nello scrivere il Breve trattato non era quello di fornire una trattazione completa dell’argomento prescelto, come cercherebbe di fare un economista di oggi, né quello di delineare in dettaglio misure di politica economica, ma piuttosto quello di attirare l’attenzione sulle sue capacità, in modo da essere scarcerato e chiamato a fornire una collaborazione diretta alle autorità di governo.
Come abbiamo appena visto, il Breve trattato di Serra ha come oggetto immediato la critica di una specifica proposta di politica valutaria avanzata da De Santis: la fissazione d’autorità di un prezzo più basso – rispetto a quello all’epoca prevalente sul mercato – per la valuta estera acquistata tramite lettere di cambio (o, come si diceva in breve, un cambio più basso). De Santis sosteneva, infatti, l’esistenza di un nesso causa-effetto tra il cambio elevato e la scarsità di moneta che affliggeva il Regno di Napoli.
In effetti, con un prezzo della valuta acquistata tramite lettere di cambio nettamente superiore al rapporto tra i contenuti di metallo della valuta estera e di quella nazionale, gli operatori che dovevano effettuare pagamenti all’estero avrebbero trovato conveniente spedire all’estero le monete argentee del Regno di Napoli e convertirle in valuta estera nella Zecca del Paese d’arrivo. Viceversa, gli operatori che avessero desiderato spostare denaro dall’estero verso il Regno di Napoli avrebbero trovato conveniente acquistare lettere di cambio, data la maggiore quantità di valuta napoletana ottenibile in tal modo rispetto all’importazione nel Regno di valuta metallica.
La teoria classica dei cambi, centrata su un tasso di cambio tra le valute pari al rapporto tra i rispettivi contenuti d’oro più o meno un margine di oscillazione limitato entro le spese di trasporto e assicurazione, non può tuttavia essere applicata in modo diretto al caso in esame, a causa di alcune complicazioni. Innanzitutto le lettere di cambio includono anche un elemento d’interesse (di cui comunque è possibile tenere conto: cfr. Marcuzzo, Rosselli 1991, cap. 6) e un premio per il rischio d’insolvenza legati alla loro natura di strumento creditizio. Inoltre, era frequente il riferimento a una valuta di conto (lo scudo di Piacenza) priva di esistenza concreta. Infine, la moneta napoletana, il carlino, era argentea, mentre le monete estere erano generalmente auree (una descrizione dei mercati dei cambi nel Regno di Napoli dell’epoca può essere trovata in De Rosa 1994).
Di conseguenza, il tasso di cambio dipendeva non solo dall’offerta e dalla domanda di valuta estera derivante dall’andamento della bilancia dei pagamenti (l’elemento che nella teoria tradizionale faceva oscillare il cambio attorno alla parità aurea), ma anche dall’andamento del tasso d’interesse e dal prezzo relativo dei due metalli preziosi, oro e argento (un aspetto, quest’ultimo, sul quale lo stesso Serra si sofferma nel cap. IV della seconda parte e nel cap. V della terza parte del Breve trattato). Inoltre, dato il cambio rispetto alla valuta di conto, quello rispetto alle valute estere non risultava univocamente determinato, in quanto queste ultime potevano continuare a oscillare rispetto alla valuta di conto. Molte apparenti oscurità nelle opere di De Santis e Serra derivano da questi elementi di complicazione (per una trattazione più ampia di questi temi si rinvia a Rosselli 1995).
Secondo De Santis, monete e metalli preziosi (oro e argento) sarebbero usciti dal Regno in corrispondenza delle voci passive della bilancia dei pagamenti, mentre in corrispondenza delle voci attive sarebbero giunti nel Regno non monete e metalli, ma solo lettere di cambio. Se un editto governativo avesse fissato d’autorità un prezzo delle valute estere acquistate tramite lettere di cambio inferiore al loro contenuto relativo di oro o argento, sosteneva De Santis, si sarebbe verificata la situazione inversa: monete e metalli sarebbero affluiti nel Regno, mentre per i pagamenti all’estero sarebbero uscite dal Regno solo lettere di cambio.
Come abbiamo visto, Serra viceversa ritiene che l’elevato prezzo della valuta estera acquistata tramite le lettere di cambio non sia la causa dello squilibrio nei mercati valutari, che deriva piuttosto da un passivo persistente in quella che oggi chiamiamo bilancia dei pagamenti, inclusiva delle cosiddette partite invisibili. A sua volta, questa situazione viene ricondotta alla debolezza della struttura produttiva e allo scarso spirito d’intrapresa dei cittadini del Regno di Napoli: il tema con il quale Serra apre il suo Breve trattato. La proposta di De Santis viene quindi condannata: come inefficace, perché non rimuoverebbe le vere cause della situazione; come velleitaria, perché gli operatori dei mercati valutari esteri potrebbero facilmente aggirarla; come controproducente, perché aggiungerebbe ostacoli al commercio.
Obiezioni analoghe a quelle di Serra, per quanto riguarda l’impossibilità di fissare d’autorità prezzi massimi per le lettere di cambio, erano già state avanzate da un anonimo gentiluomo, forse un mercante genovese (Risposta sopra il discorso fatto per Marc’Antonio De Santis intorno a gli effetti, che fa il cambio in Regno, 1605), e riportate dallo stesso De Santis che le controbatte (Secondo discorso di Marc’Antonio De Santis intorno a gli effetti, che fa il cambio in Regno. Sopra una risposta, che è stata fatta adverso del primo, 1605). Inoltre l’anonimo critico, come più tardi Serra, sostiene che «le prime, e principali cause» del cambio alto sono le rimesse all’estero dei redditi percepiti sui capitali investiti nel Regno di Napoli da mercanti genovesi e fiorentini. Al riguardo, l’anonimo critico di De Santis attribuisce il peggioramento della situazione, rispetto agli anni precedenti, alla crescente sfiducia nelle prospettive economiche del Regno di Napoli – derivante dall’insolvenza di alcuni debitori (privati e «università», cioè comuni) e dalla peggiore qualità dello stesso debito pubblico – che induce i mercanti esteri a non reinvestire nel Regno i redditi percepiti, ma a rimetterli all’estero:
Come gl’anni passati mentre si andavano raccogliendo li redditi delle terze delle loro rendite, solevano tornargli ad impiegare in altre rendite, con università, e con particolari, o con la Corte, da pochi anni in quà li primi sono quasi tutti falliti e con la Corte mancano le consignationi di buone rendite, di modo, che non si risolvendo nessuno à far nuove compre, convien di necessità, che tutto il danaro si rimetta in le fiere di Piacenza (Risposta, in Problemi monetari negli scrittori napoletani del Seicento, a cura di R. Colapietra, 1973, pp. 146-47).
Serra attribuisce anch’egli importanza decisiva alle partite invisibili di bilancia dei pagamenti; infatti, pur rilevando (nel cap. XI della parte prima, in contrasto con le valutazioni di De Santis) l’importanza delle importazioni di manufatti, ritiene che esse portino a una bilancia commerciale sostanzialmente in pareggio, o forse in lieve attivo, pur se assai minore del valore delle esportazioni. Rispetto all’anonimo critico di De Santis, invece, Serra sembra attribuire minore importanza al problema della fiducia nelle attività finanziarie del Regno e maggiore importanza ai fattori reali di lungo termine, cioè alle prospettive dell’attività produttiva e in particolare agli investimenti esteri diretti. Si tratta comunque di sfumature nell’ambito di un giudizio sostanzialmente analogo che attribuisce la carenza di denaro nel Regno al passivo di bilancia dei pagamenti dovuto soprattutto, se non esclusivamente, alle rimesse dei redditi derivanti dai capitali esteri investiti nel Regno.
Vale la pena di sottolineare, a questo proposito, che sia De Santis, sia il suo anonimo critico del 1605, sia Serra, si mostrano più perspicaci di quanto facciano molti commentatori successivi per ciò che riguarda l’importanza delle partite invisibili nella bilancia dei pagamenti e, più in generale, dei movimenti finanziari nel concreto operare dei mercati valutari. Perfino alcuni interpreti di Serra (fra gli altri, Fornari 1879, p. 45, e Toscano 1985, pp. 209-10), nel dargli ragione rispetto a De Santis sul ruolo del cambio, limitano l’attenzione alla sola bilancia commerciale.
Quel che colpisce positivamente i lettori del libro di Serra, e che distingue il suo lavoro dagli altri dedicati all’epoca allo stesso argomento, non è tanto la conoscenza che egli pure dimostra degli aspetti tecnici del funzionamento del mercato dei cambi e la notevole intuizione mostrata nel valutare – ben più correttamente dell’ottimista De Santis – la reale situazione economica del Regno di Napoli, quanto piuttosto il legame decisivo che il nostro autore istituisce tra la carenza di denaro nel Regno e la scarsa solidità della sua struttura economica: carente sviluppo dell’attività produttiva e importanza dei capitali esteri.
Proprio questo collegamento costituisce una risposta sostanziale a quanti, a partire da Jean-Baptiste Say (1803, p. 15), John R. McCulloch (1845, p. 189) e Ferrara (1852, pp. XLIII-LVII), attribuiscono a Serra l’identificazione della ricchezza con la moneta e con i metalli preziosi: una tesi che non ha alcun fondamento testuale nella sua opera, in cui il problema di cosa costituisca la ricchezza delle nazioni non è direttamente affrontato, e che è contraddetta dal ruolo prioritario attribuito, appunto, all’attività produttiva. Questa opinione è sostenuta fra gli altri da Luigi Einaudi (1938):
Il silenzio sul fine da conseguire (abbondanza d’oro e d’argento) e il lungo ragionare delle cause [...] atte a produrre quel fine indicano dove batta il pensiero del Serra: non lo interessano tanto il fine quanto i mezzi, sì che di essi unicamente si occupa [...] e dell’oro e dell’argento non gli importa punto (rist. 1953, pp. 132-33).
Anche Joseph A. Schumpeter (1954) sostiene che «l’intero trattato si occupa dei fattori da cui dipende l’abbondanza delle merci» (trad. it. 1959-1960, p. 433).
Per una valutazione più equilibrata del contributo di Serra, dunque, conviene abbandonare i temi monetari considerati in questo paragrafo, per soffermarci sulla prima parte del Breve trattato, in cui egli illustra – come abbiamo già accennato – gli elementi che determinano l’andamento dell’attività produttiva. Nel far ciò, fra l’altro, seguiamo un orientamento ampiamente diffuso tra gli interpreti del nostro autore.
Come avviene frequentemente nella storiografia del pensiero economico, le contrastanti valutazioni del contributo di Serra allo sviluppo della scienza economica dipendono dalla posizione stessa degli interpreti nel dibattito teorico. Possiamo distinguere, in questo senso, due tesi contrapposte: da un lato, il liberismo estremista di un Ferrara, che condanna senza appello Serra come qualsiasi autore che non opponga un rifiuto di principio a ogni forma di intervento pubblico nell’economia; dall’altro lato, il nazionalismo e il riformismo empirista di autori come Custodi e Pecchio, ma anche come Friedrich List, che sostengono l’importanza cruciale dello scritto di Serra, come prima manifestazione di una nuova scienza, proprio a causa dei cenni all’economia reale e al ruolo dell’industria, nel senso originario di spirito attivo d’iniziativa, per il benessere della nazione.
Ferrara era stato criticato per non avere incluso Serra e altri italiani nei primi due volumi della sua Biblioteca dell’economista (serie I), dedicati invece ai fisiocrati e a Smith. Rispondendo a questa critica nella Prefazione al terzo volume (1852) della serie I della Biblioteca (dedicato ai Trattati italiani del secolo XVIII: Genovesi, Verri, Beccaria, Filangieri, Ortes), Ferrara fornisce un giudizio decisamente negativo sulle qualità di economista di Serra, classificandolo come bullionista («l’oro e l’argento erano per lui l’unica e suprema ricchezza possibile», p. XLIX) e parlando di «miserabile cicaleccio economico» (p. LVI); mentre lo riscatta (pp. LV-LVI) come patriota animato da passione civile, sostenendo che lo scritto di Serra era in realtà diretto a insinuare nel lettore, tramite il confronto fra Napoli e Venezia, l’ipotesi che la repubblica fosse una forma di governo migliore della monarchia assoluta, e considerando «probabile che Galiani abbia inteso, esagerando il merito dell’economista, accennare al politico» (p. LVI).
Contrapposta a quella di Ferrara è l’interpretazione di Custodi (1803), Pecchio (1832, pp. 45-50), List (1841; trad. it. 1972, pp. 320-22, 326). Quest’ultimo loda Serra in particolare per «la giusta valutazione dell’influenza che esercita il regime politico sulla ricchezza delle nazioni» (List 1841; trad. it. 1972, p. 320). Il giudizio di List ebbe una certa risonanza; a parere di Karl Marx (in Engels 1878; trad. it. 1968, p. 245) esso era stato ripreso più o meno di peso da Duhring; Marx aggiunge erroneamente, antedatando al 1609 la pubblicazione del Discourse of trade (1621) di Thomas Mun, che a quest’ultimo andrebbe riconosciuta la priorità su Serra. Appare invece probabile che nessuno dei due autori fosse a conoscenza del lavoro dell’altro. Di opinione opposta a Marx è poi Mario Nigro il quale, richiamando i viaggi in Italia di Mun, sostiene che quest’ultimo «probabilmente conobbe l’opera del cosentino» (1953, p. 82). Tra Serra e Mun esistono, comunque, accanto a indubbie analogie, importanti differenze.
Rispetto alle tesi contrapposte appena illustrate, conviene forse prendere una via intermedia. Da un lato, è sicuramente errato sottovalutare Serra incasellandolo fra i tanti autori mercantilisti dell’epoca, responsabili di errori nella concezione del sistema economico non più accettabili dopo la critica di Smith. Come abbiamo visto, infatti, Serra attribuisce il ruolo fondamentale all’attività produttiva nazionale, quindi non corrisponde alla caratterizzazione del mercantilismo secondo la quale «la ricchezza delle nazioni è [...] frutto degli scambi, e quindi si origina nella sfera della circolazione» (Vaggi 1993, p. 25).
Dall’altro lato, è anche difficile da accettare la posizione interpretativa contrapposta che giunge a fare di Serra il fondatore della scienza economica. A tal fine non è certo sufficiente l’importanza attribuita ai fenomeni reali, in particolare alla produzione manifatturiera, in un lavoro in cui invano si cercherebbe un’individuazione sufficientemente chiara di quel concetto di sovrappiù che costituirà nei due secoli successivi la base per lo sviluppo dell’economia politica classica, o la traccia di una qualsivoglia teoria del valore e della distribuzione. Gli accenni di Serra alla «robba soverchia» o alla «quantità dell’artifici [...] che soprabordi al bisogno del paese» (Breve trattato, cit., p. 155) sono insufficienti al riguardo (contrariamente a quanto detto da Cosimo Perrotta 1988, pp. 59-63, con il quale comunque si concorda quando afferma che «come per la divisione del lavoro, il concetto generico di sovrappiù esiste da sempre», p. 59).
Inoltre, non è difficile trovare precursori di Serra sui punti specifici che attirano le lodi degli interpreti. Per es., come si è visto sopra, Serra è preceduto dall’anonimo critico genovese di De Santis nel rilievo attribuito alle partite invisibili di bilancia dei pagamenti. Inoltre, è preceduto da autori come Giovanni Botero (Della Ragion di Stato libri dieci, 1589) nell’importanza attribuita all’«industria dell’uomo», o come Gasparo Scaruffi (Alitinonfo, 1584) nell’ostilità ai divieti all’esportazione di moneta e metalli preziosi (cfr. Fornari 1879, pp. 55-69 e 94-95).
Alcuni interpreti (fra i quali ricordiamo Graziani 1913, p. 389; Arias 1923, p. 134; Tagliacozzo 1937, p. XXXI; Toscano 1985, p. 212) esaltano Serra in quanto precursore di temi centrali dell’elaborazione teorica successiva, in particolare del principio dei rendimenti decrescenti in agricoltura e di quello dei rendimenti crescenti nell’industria. Serra sembra attribuire maggiore importanza ai rendimenti crescenti; tuttavia, la ‘legge dei rendimenti decrescenti’ – come è stata chiamata da Marshall in poi – riceve in genere più attenzione, com’è comprensibile dato il suo ruolo centrale nella teoria del valore marginalista dominante nell’epoca in cui queste interpretazioni sono state proposte.
In realtà, un’interpretazione del genere costituisce un esempio di lettura whig che sovrappone agli autori di un’altra epoca le nostre forme di ragionamento e li giudica rispetto a esse. Serra, infatti, sostiene semplicemente che lo sviluppo economico deve basarsi soprattutto sull’espansione delle manifatture (gli «artifici»), che non incontra ostacoli, mentre la crescita della produzione agricola (le «robbe») è limitata dalla disponibilità delle terre. Nella teoria classica invece (come mostra Sraffa 1925) i due principi si riferivano a due problematiche diverse: la teoria ricardiana della distribuzione per i rendimenti decrescenti, la teoria smithiana del rapporto fra ampiezza del mercato e divisione del lavoro per i rendimenti crescenti. Nella successiva teoria marginalista, infine, l’equilibrio delle unità produttive richiede un ‘coordinamento’ dei due principi, tale da stabilire una relazione prima decrescente e poi crescente tra costo unitario e quantità prodotta per ogni singola impresa. Ecco quanto dice Serra:
Nell’artefici vi può essere moltiplicazione, e per quella moltiplicarsi il guadagno; lo che non può succedere nella robba, non si possendo quella multiplicare, che nissuno, per essempio, se in alcun suo territorio non si può seminare se non cento tomola di frumento, potrà fare che se ne seminino centocinquanta. Ma nell’artifici è il contrario, che si possano moltiplicare non solo al doppio, ma a cento doppi e con minor proporzione di spesa (Breve trattato, cit., p. 155).
Per quest’aspetto, più che della teoria marginalista, Serra può essere considerato un precursore di Turgot e dei critici della fisiocrazia, come dice, per es., Ricossa (1986, p. IX). Perrotta (1988, pp. 42 e segg.) ricorda che una rivalutazione del ruolo del lavoro umano rispetto a quello della natura (la terra) e la connessa esaltazione dell’attività produttiva e delle manifatture sono parte centrale della «rivoluzione antropocentrica del Rinascimento» che ha costituito un passo fondamentale nella formazione dell’economia politica.
Comunque, ben poca influenza Serra può avere avuto sulle fasi iniziali di sviluppo della scienza economica, data la rarità del suo scritto prima che venisse riproposto nella collana di Custodi, e dato che quando tale edizione apparve – quasi due secoli dopo la pubblicazione originaria del Breve trattato – il baricentro del dibattito economico si era ormai spostato nei Paesi dell’Europa settentrionale, mentre la riflessione teorica aveva compiuto passi in avanti importanti. Ciò spiega come mai, fuori d’Italia, la ristampa del Breve trattato nella celebre collana di Custodi attirasse l’attenzione di pochi, come il già ricordato List; per tutto il Novecento, Serra venne ricordato solo da alcuni fra gli storici del pensiero, assai raramente fuori d’Italia e quasi solo grazie alle pagine tradotte in inglese da Monroe (1924). Ricordiamo fra tutti Schumpeter (1954; trad. it. 1959-1960, pp. 236-37, 433-34), Hutchison (1988, pp. 19-20) e la voce di Peter Groenewegen su Serra nel New Palgrave (1987).
Eppure, nonostante le asprezze dello stile che rendono difficile la lettura del Breve trattato e nonostante la patina degli anni evidente sia nel quadro storico di riferimento sia nella primitività dell’impianto analitico, vale la pena andare oltre la semplicistica (e fuorviante) suggestione bullionista del titolo. Serra non è un mercantilista nel senso spregiativo attribuito a tale etichetta dai seguaci di Smith, che aveva in realtà creato questa figura, nel IV libro dell’An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), come uomo di paglia per la sua critica degli ostacoli feudali all’iniziativa economica. È un autore immune dal settarismo interventista come da quello liberista, che considera ammissibili gli interventi pubblici nell’economia quando siano diretti non a scontrarsi con gli interessi degli operatori individuali, ma a fornire a essi un quadro appropriato di condizioni entro cui operare. È un autore che non identifica la ricchezza con la moneta e i metalli preziosi, ma che, a differenza dei più schematici fra gli autori classici del Sette-Ottocento, coglie – quasi intuitivamente, potremmo dire – il rapporto di interdipendenza tra fenomeni finanziari e reali. È un autore ancora non impacciato dalla concezione classica dell’homo oeconomicus: una concezione già di per sé meno rigida (nell’accezione smithiana ancor più che in quella ricardiana) della concezione monodimensionale dell’homo oeconomicus prevalente nella tradizione marginalista e quindi in larga parte della letteratura contemporanea.
A Serra risulta naturale collegare aspetti politici (la «provisione di quel che governa»), sociali («qualità de genti») ed economici («quantità d’artifici, [...], trafico grande de negozi»): come dovremmo di nuovo imparare a fare oggi. In questo senso vanno accolti gli elogi alla mentalità «attivistica, volontaristica, idealistica, in contrapposizione a quella fatalistica, meccanica, materialistica degli economisti classici» (Tagliacozzo 1937, p. XXXIV; Rodolfo Benini osserva che Serra «non si lagna mai della concorrenza estera, bensì della inettitudine dei propri concittadini», 1892, p. 248).
Questi ultimi aspetti costituiscono elementi di collegamento fra il contributo di Serra in quanto economista e quello – sottolineato con particolare enfasi da Arias (1923, pp. 145-46) e Croce (1925, p. 140) – di sostenitore sul piano politico delle tesi meridionalistiche di valutazione critica della situazione del Regno di Napoli, che auspica un intervento attivo per lo sviluppo, non solo economico ma anche politico e civile, delle regioni meridionali d’Italia. In particolare Croce dice che lo scritto di Serra «è sostanzialmente un libro politico, di critica politica delle condizioni in cui si trovava il regno di Napoli» (1925, p. 140).
Certo, occorre evitare di cercare nel Breve trattato più di quello che vi è: anche perché non ha molto interesse, per l’economista di oggi, cercare formulazioni primitive della legge dei rendimenti decrescenti in agricoltura o di quelli crescenti nell’industria. Anzi, la lettura di questo testo può essere estremamente utile proprio per comprendere l’artificiosità delle forme concettuali oggi utilizzate come se fossero applicabili a ogni tempo e ogni luogo, e l’essenzialità della lunga fase di ‘concettualizzazione’ per la nascita della scienza economica. Inoltre, Serra è comunque un autore del quale il lettore coglie immediatamente la forza intellettuale e sul cui scritto si può utilmente meditare.
Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere con applicazione al Regno di Napoli, Napoli 1613 (rist. in Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, parte antica, t. 1, Milano 1803, pp. 1-179; Economisti del Cinque e Seicento, a cura di A. Graziani, Bari 1913, pp. 141-235; Problemi monetari negli scrittori napoletani del Seicento, a cura di R. Colapietra, Roma 1973, pp. 163-228; a cura di C. Trasselli, Reggio Calabria 1974; a cura di E. Rotelli, s.l. 1985; rist. anstatica dell’ed. originale a cura di S. Ricossa, Napoli 1986; Antonio Serra und sein “Breve trattato”, hrsg. B. Schefold, Düsseldorf 1994; a cura di A. Landolfi, D. Luciano, Vibo Valentia 1999); trad. ingl., con testo italiano a fronte, A short treatise on the wealth and poverty of nations (1613), ed. S. Reinert, London 2011.
P. Custodi, Notizie degli autori contenuti nel presente volume, in Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, parte antica, t. 1, Milano 1803, pp. XXVII-XLVIII (in partic. pp. XXVII-XLV).
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