Abstract
L’attuale disciplina dell’appello civile è esaminata con particolare riferimento al nuovo volto che il legislatore degli ultimi anni ha inteso attribuire al giudizio di secondo grado, accentuandone la funzione di revisio prioris instantiae (rispetto al carattere tradizionale di novum iudicium, ancora predominante sino alla riforma introdotta dalla l. n. 353/1990) e la velocità della trattazione, sia pure al costo – come è avvenuto con il criticato “filtro” ex artt. 348 bis e ter c.p.c. – di attenuarne l’attitudine a costituire un processo giusto.
La decisa opzione del legislatore del 1990 a favore del modello della revisio prioris instantiae si era segnalata per aver posto le premesse dell’opportuna trasformazione dell’appello da mezzo di gravame – qual era nell’impianto originario del codice, che lo costruiva alla stregua di un vero e proprio novum iudicium – a mezzo d’impugnazione a critica libera ma a cognizione vincolata: l’effetto devolutivo, di cui anche la giurisprudenza sottolinea ormai da anni la necessità di una «concezione minimalista» (Cass., S.U., 29.1.2000, n. 16), non è più regola nei rapporti tra cognizione del giudice di primo e di secondo grado ed è anzi eccezione che, in un’applicazione quasi letterale del principio del tantum devolutum quantum appellatum, consente il “passaggio” al grado d’impugnazione soltanto delle specifiche censure contenute – e motivate secondo i precisi oneri formali indicati dal nuovo art. 342 c.p.c. – nell’atto d’appello, delle domande ed eccezioni riproposte ai sensi dell’art. 346 c.p.c., oltre che delle questioni rilevabili d’ufficio che non siano state trattate in primo grado.
Non possiamo confermare la valutazione complessivamente positiva espressa a suo tempo sulla direzione impressa dal legislatore al giudizio d’appello.
Una mal interpretata esigenza di contenimento dei tempi processuali, anche a discapito di altri canoni costituzionali (come se al cittadino interessasse un processo in ogni caso breve o quasi istantaneo quale è, patologicamente, quello derivante dall’applicazione del cd. filtro d’inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c., piuttosto che un processo giusto e di durata ragionevole), ha condotto ad un procedimento connotato da dinamiche cervellotiche, frutto di vera e propria improvvisazione: si pensi, per rimanere al meccanismo introdotto dal citato filtro, alla sorprendente impugnabilità per cassazione della sentenza di primo grado a seguito del rilievo, in grado d’appello, dell’insussistenza di alcuna ragionevole probabilità di una sua riforma; o all’evidente «mancanza di ogni coordinamento» (Balena, G., Le novità relative all’appello nel d.l. n. 83/2012, in Giusto proc. civ., 2013, I, 336) tra il filtro e l’estensione dell’art. 281 sexies all’appello introdotta soltanto qualche mese prima con l. 12.11.2011, n. 183; o ancora all’erroneità dell’espressione “inammissibilità” per indicare un’infondatezza nel merito non soltanto evidente, ma persino dichiarata se si pensa che la relazione di accompagnamento al d.l. 22.6.2012, n. 83 alludeva alla «prognosi negativa» sul «merito della impugnazione»: improprietà lessicale, quest’ultima, ereditata dall’altrettanto contraddittoria dizione adottata per il cd. filtro in Cassazione nella rubrica dell’art. 360 bis, n. 2, c.p.c. e anch’essa concettualmente ricondotta dalle Sezioni Unite (nel 2010, seppur con le incertezze successivamente manifestate nel 2017) alla più corretta nozione di manifesta infondatezza, nell’indifferenza del legislatore del 2012.
E si tratta di un’improvvisazione tanto più inaccettabile se si considera che essa non riguarda soltanto la sfera delle definizioni – in merito alle quali, sin dai primi commenti alla riforma, gli interpreti hanno volenterosamente messo riparo con esegesi “ortopediche” – ma anche le scelte di fondo: tutt’oggi incomprensibile è la preoccupazione del legislatore di assicurare una decisione in tempi brevi, se non tendenzialmente immediati, agli appelli ictu oculi sprovvisti di alcuna chance di successo, la cui corsia preferenziale introdotta dagli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c. non può che rallentare la trattazione e la decisione, che anche socialmente apparirebbero più urgenti, degli appelli ictu oculi fondati, e come tali idonei ad impedire l’esecuzione di sentenze ingiuste.
Per altro verso, le ultime riforme confermano la politica di riduzione delle impugnazioni esaminabili nel merito, quale frutto del non esemplare ragionamento – ispirato ad un freddo efficientismo, totalmente estraneo alla logica di un ordinamento che si prefigga l’obiettivo, almeno tendenziale, di rendere giustizia – per cui, se non si è in grado di ridurre i tempi dei singoli processi d’appello, si possono sempre ridurre i processi (rectius: si può rendere sempre più impervia all’impugnante la strada che conduce ad una pronuncia sul merito) e ne deriverà forse un’accelerazione di quelli sopravvissuti.
Tale finalità era già stata espressamente perseguita per il giudizio di cassazione con il citato filtro di cui all’art. 360 bis c.p.c. (senza dimenticare il mai troppo rimpianto quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c.) ed è proseguita nel 2012 attraverso la demolizione del vizio di motivazione derivante dalla riscrittura dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c.; nello stesso contesto il legislatore ha introdotto vere e proprie sanzioni per il rigetto del gravame (quale è la condanna al pagamento di un ulteriore contributo unificato ex l. 24.12.2012, n. 228) o dell’istanza di inibitoria, ma soprattutto ha disseminato di «sovrabbondanti trappole» (Tedoldi, A., L’appello civile, Torino, 2016, 515) la disciplina dell’atto introduttivo del giudizio, trasformando requisiti formali in condizioni di ammissibilità e con ciò offrendo il destro alla giurisprudenza di merito per le applicazioni più formalistiche.
Si pensi al nuovo art. 342 c.p.c., il cui unico vero elemento di novità – alla luce del pacifico orientamento giurisprudenziale che, anche sotto la previgente formulazione, predicava l’inammissibilità dell’appello sprovvisto dell’indicazione di specifici motivi d’appello – parrebbe rappresentato dalla richiesta di illustrazione del nesso causale tra l’error in iure denunciato dall’appellante e l’esito della decisione.
La necessità di tale nesso non era mai stata in discussione, difettando evidentemente l’interesse all’impugnazione qualora l’atto d’appello contesti soltanto alcune delle plurime rationes decidendi su cui risulta fondata la sentenza di primo grado. L’elevazione del presupposto ad elemento formale consente dunque, rispetto al testo anteriore alla riforma del 2012, la dichiarazione dell’inammissibilità delle impugnazioni in cui tale nesso non sia stato expressis verbis evidenziato.
Vi sarà allora una perdita secca in termini di giustizia della decisione, laddove tale nesso oggettivamente sussista e l’appellante abbia semplicemente omesso di esplicarlo.
E vi sarà invece identità di effetti nei casi in cui il nesso non sussiste, ossia quando l’appellante lamenti un errore che, quand’anche rimosso, non condurrebbe ad una riforma della sentenza: sul piano della giustizia sostanziale infatti il giudizio d’appello, applicando l’attuale art. 342 c.p.c. così come la sua versione previgente, si conclude in ogni caso con una conferma della sentenza impugnata; né è lecito attendersi alcun beneficio per la ragionevole durata del processo, atteso che il nuovo vizio di mancata esplicazione del nesso causale deve essere dichiarato con sentenza, e dunque con la medesima forma e con le stesse tempistiche con cui, sotto la precedente formulazione dell’art. 342 c.p.c., il giudice d’appello rilevava il difetto di interesse.
Si profila dunque, come si vedrà infra, § 2.2, un principio di autosufficienza dell’atto d’appello che conferma il progressivo avvicinamento dei giudici di secondo grado a improprie cassazioni decentrate, con effetti che non si annunciano positivi data l’evidente differenza tra le funzioni di un giudice territorialmente unico di legittimità e quelle delle corti d’appello (o dei tribunali in sede d’impugnazione delle sentenze dei giudici di pace), alle quali viene richiesto l’unico, e contemporaneamente ultimo, vaglio di attendibilità della ricostruzione in fatto operata in prime cure.
Si torni all’esempio poco sopra prospettato: a ben guardare, la verifica dell’adempimento o meno dell’onere di esplicazione formale del nesso causale richiede meno tempo e studio al giudice d’appello, rispetto alla verifica che tale nesso oggettivamente sussista, soltanto se si ritiene che, sotto l’attuale art. 342 c.p.c., il giudice di secondo grado possa apprezzare l’ammissibilità o meno dell’impugnazione dalla lettura del solo atto d’appello, e dunque possa esonerarsi dalla lettura non soltanto della comparsa di costituzione dell’appellato, ma altresì della sentenza impugnata (lettura in ogni caso necessaria se si ritiene invece che, quand’anche il nesso non sia stato indicato espressamente, la sua oggettiva sussistenza renderebbe ammissibile l’appello).
In questo – desolante – contesto, non stupisce la sempre più avvertita disaffezione degli interpreti verso l’appello.
Più autori si sono spinti a sostenere che, se il prezzo per avere un giudizio di secondo grado è avere questo appello, tanto varrebbe non averlo affatto (Scarselli, G., Il nuovo contenuto dell’atto di appello ex art. 342 e 434 c.p.c., ovvero della pretesa che gli avvocati scrivano progetti di sentenza, in Giusto proc. civ., 2013, I, 492) o, constatato lo stato di «miserevole larva» (Verde, G., La riforma dell’appello civile: due anni dopo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 977 s.) in cui esso giace dopo la «nefanda riforma» del 2012, sostituirlo con un rimedio della revocazione ripensato sin dalle sue premesse (così Tedoldi, A., op. cit., 362).
Non riteniamo di doverci spingere a tanto, anche in considerazione dell’irrinunciabilità di un nuovo giudizio sul fatto rispetto a quello contenuto nella sentenza di primo grado, e ciò soprattutto ora che – con la nuova versione dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c, e tanto più con l’interpretazione restrittiva della stessa norma offerta da Cass., S.U., 10.7.2015, n. 14477 – il giudizio di cassazione appare impermeabile a qualsiasi sindacato sulle modalità con cui il giudice del merito ha esercitato il proprio prudente apprezzamento.
Ciò che deve essere semmai riaffermato è la possibilità di ottenere questa rivalutazione in tempi ragionevoli, da attuarsi – in attesa di una più organica riforma del giudizio d’appello, che individui ipotesi, in relazione al valore della causa, in cui la trattazione e la decisione avanti alla corte d’appello sono affidate ad un giudice monocratico, così come già avviene per gli appelli avanti al tribunale – tramite l’eliminazione del filtro di cui agli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., secondo gli auspici già espressi dalla dottrina prevalente, e l’abrogazione del superfluo (se non dannoso, come si è visto) n. 2 dell’art. 342 c.p.c.
La disciplina dei termini per appellare (attualmente, sei mesi dalla pubblicazione della sentenza di primo grado ovvero trenta giorni dall’eventuale notifica ex artt. 326 e 327 c.p.c.) è contenuta all’interno della disciplina delle impugnazioni in generale, in funzione della comunanza di regolamentazione in tutti gli aspetti fondamentali con i termini per proporre le altre impugnazioni ordinarie.
L’appello incidentale si propone a pena di decadenza nella comparsa di costituzione da depositarsi in cancelleria entro venti giorni dalla prima udienza (e altresì da notificarsi qualora l’appellante principale ovvero altre parti del giudizio d’appello non siano costituite: Cass., 24.8.2012, n. 14635; Cass., 14.12.2006, n. 26852; Cass., 13.4.2000, n. 4747): l’appellato che sceglie di costituirsi all’udienza ai sensi dell’art. 171, co. 2, c.p.c. non potrà compiere la suddetta attività, così come il convenuto in primo grado non può proporre eccezioni o domande riconvenzionali in quella sede.
Quanto ai soggetti chiamati ad integrare il contraddittorio ai sensi degli artt. 331 e 332 c.p.c., la soppressione del riferimento alle udienze ivi previste, contenuto nel vecchio testo dell’art. 343 c.p.c., comporta che essi dovranno proporre le loro impugnazioni con la comparsa di risposta, almeno venti giorni prima di tali udienze.
Soltanto nell’ipotesi che l’interesse a proporre l’appello incidentale sorga dall’impugnazione proposta da «altra parte che non sia l’appellante principale» (ossia da un appellante incidentale), il termine relativo è la prima udienza successiva alla proposizione dell’impugnazione suddetta ai sensi dell’art. 343, co. 2, c.p.c.
Il giudizio di appello è introdotto con atto di citazione (ovvero con ricorso, in materia di lavoro; la giurisprudenza ha invece recentemente chiarito che l’appello avverso l’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c. si propone con atto di citazione: Cass., 15.12.2014, n. 26326), il quale, a norma del nuovo art. 342 c.p.c. deve contenere, oltre ai requisiti previsti dagli artt. 163 c.p.c., ad esclusione del superfluo avvertimento di cui al n. 7 (Cass., S.U., 18.4.2013, n. 9407), non più l’esposizione sommaria dei fatti, eliminata dal legislatore del 2012 e confluita nella nuova “motivazione” dell’appello, bensì «1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata».
L’atto d’appello entra così nell’orbita di quel principio di autosufficienza che, coniato dalla giurisprudenza nell’esegesi dei requisiti formali del ricorso per cassazione ex art. 366 c.p.c. potrebbe in realtà offrire in grado d’appello risultati non disprezzabili in termini di ragionevole durata del processo, qualora venga applicato dai giudici di secondo grado senza eccedere negli esasperati formalismi cui indulge talvolta la Corte di legittimità: esso potrebbe infatti permettere al giudice d’appello di formarsi un’idea della fondatezza o meno in iure dell’impugnazione senza doversi necessariamente addentrare nel fascicolo, e al contempo non pare aggravare eccessivamente il lavoro dei difensori, ai quali, già sotto la norma previgente, l’onere di specificazione dei motivi sconsigliava di limitarsi ad una mera relatio alle difese esperite in primo grado.
Da questo punto di vista, in realtà, la riscrittura della norma in esame ha il merito di chiarire alcuni punti controversi (si pensi al dibattito sulla possibilità o meno per il giudice d’appello di attribuire al rapporto controverso, in assenza di impugnazione sul punto, una diversa qualificazione giuridica rispetto a quella adottata dal primo giudice: questione che l’art. 342, n. 2, c.p.c. risolve definitivamente a favore della tesi negativa), pur non introducendo a carico dell’appellante – stando almeno all’interpretazione resa dalla Cassazione, e non a quella più “forte” risultante dalle prime pronunce di merito – oneri particolarmente gravosi.
Viene infatti recepito a livello normativo l’orientamento che predicava l’inammissibilità privo di specifici motivi, ovvero, oggi, di “motivazione”.
Non risulta dirompente la previsione della necessità di specifica indicazione delle parti del provvedimento impugnato, già sotteso al principio di specificità dei motivi d’appello.
Sarebbe invece innovativo (e assai gravoso per l’appellante) l’onere di redigere un “progetto alternativo di sentenza”, come sostenuto in alcune decisioni di merito.
Sotto questo profilo le prime applicazioni dell’art. 342 c.p.c. e, per il rito del lavoro, del’art. 434 c.p.c. si sono segnalate infatti per una eccessiva severità, tanto da ipotizzarsi un vero e proprio onere per la parte di mettere il giudice nella doppia condizione di operare un «preciso e mirato intervento di ‘ritaglio’», come consentito dalle «funzionalità di editing redazionale» del processo civile telematico (App. Salerno, 1°.2.2013, in Giusto proc. civ., 2013, I, 481 ss.), e di redigere la motivazione «mediante richiamo alle deduzioni dello stesso appellante» (Trib. Verona, 28.5.2013, in IlCaso.it): una richiesta, neanche troppo mascherata, di poter copiare e incollare nella sentenza d’appello le parti ritenuti utili dell’appello principale ovvero incidentale, che ha giustamente incontrato le censure della dottrina secondo cui l’incombente «rompe la dialettica e i ruoli che contrappongono le figure del giudice e dell’avvocato, rompe la dialettica tra il privato che chiede giustizia e il pubblico che deve renderla» (Scarselli, G., op. cit., 490), tanto più che, dalla lettura dei predetti arresti, neppure si comprende su quali elementi testuali i giudici abbiano tratto argomenti per un’esegesi tanto formalistica (Verde, G., op. cit., 975).
Ad un’interpretazione “debole” dell’art. 342 c.p.c. si è invece ispirata la Cassazione nelle prime pronunce in materia, dalle quali emerge che la nuova norma non impone affatto all’appellante di ricalcare la sentenza appellata con un diverso contenuto, ma soltanto di razionalizzare le ragioni dell’impugnazione individuando in modo chiaro ed esauriente le parti di provvedimento non condivise, nonché di esplicitare le differenti argomentazioni che sorreggono le ragioni di dissenso (Cass., 5.2.2015, n. 2143).
Come si è anticipato (v. supra, § 1), difficilmente il legislatore del 2012 avrebbe potuto ideare un filtro in appello più imperfetto.
Basato sulla sussistenza di una ragionevole probabilità di accoglimento dell’impugnazione, il filtro costituisce una riforma di mera facciata, ispirata ad una miope politica di diminuzione numerica dei giudizi d’appello: alla declaratoria dell’inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c. – “falce” che, conformemente agli auspici dei primi commentatori, parrebbe essere utilizzata con saggia parsimonia dai giudici d’appello – segue infatti non il cristallizzarsi della sentenza di primo grado, bensì la sorprendente ricorribilità di quest’ultima per cassazione, realizzandosi così, in sostanza, un improvvido spostamento del carico di lavoro dalle corti d’appello al giudice di legittimità.
Il meccanismo, per altro, neppure soddisfa l’esigenza di deflazione della mole di lavoro dei giudici d’appello, come dimostra inequivocabilmente la concreta possibilità di una sua prossima eliminazione [per cui v. lo schema di legge delega al Governo per l’efficienza del processo civile A.C. 2953, espressamente inteso a favorire l’«accelerazione dei tempi del processo civile»], ma anzi si segnala per una serie di indesiderati “effetti collaterali”, tra cui il raddoppio del tempo che il giudice deve dedicare allo studio del fascicolo (una prima volta ai fini della valutazione della ragionevole probabilità di accoglimento, e una seconda volta per la decisione nel merito, generalmente a distanza di anni); l’affaticamento degli interpreti nella soluzione dei plurimi problemi interpretativi che la nuova normativa ha sin da subito suscitato in ragione della difettosa traduzione del § 552 del codice di procedura tedesco e, in particolare, nell’individuazione del significato della stessa nozione di “ragionevole probabilità” di accoglimento dell’impugnazione, che oggi, anche sulla scorta della progressiva elaborazione della dottrina, parrebbe assestarsi su un’equiparazione con la nozione di manifesta infondatezza (App. Calabria, 20.12.2013, in DeJure; App. Roma., 11.1.2013, in Riv dir. proc., 2013, 711 ss.).
Quanto all’ordinanza che dichiara l’inammissibilità, mentre non si dubita in dottrina sulla revocabilità (in tal senso Panzarola, A., Tra “filtro” in appello e “doppia conforme”: alcune considerazioni a margine della L. n. 134 del 2012, in Giusto proc. civ., 2013, I, 104; Tedoldi, A., op. cit., 512), il silenzio della norma ha invece originato un contrasto sull’autonoma impugnabilità del provvedimento avanti alla Corte di cassazione: alla tesi positiva, sostenuta sin dai primi commenti (v., se vuoi, Russo, M., Le novità in appello dopo la L. 7 agosto 2012, n. 134, in Giur. it., 2013, 233), hanno dato infine avallo le Sezioni unite (Cass., S.U., 2.2.2016, n. 1914), le quali hanno statuito che l’ordinanza-filtro è impugnabile con ricorso ordinario qualora emessa in presenza di un vizio processuale attinente ad una disciplina differente rispetto a quella propria del filtro anziché per dichiarare l’insussistenza di una ragionevole probabilità di accoglimento, ed è invece impugnabile con ricorso straordinario «limitatamente ai vizi propri della medesima costituenti violazioni della legge processuale che risultino compatibili con la logica (e la struttura) del giudizio sotteso all’ordinanza in questione», e tra queste deve escludersi, secondo la Corte, l’omessa pronuncia su un motivo di appello, «potendo, in relazione al silenzio serbato in sentenza su di un motivo di censura, eventualmente porsi (nei termini e nei limiti in cui possa rilevare sul piano impugnatorio) soltanto un problema di motivazione».
L’area della cognizione sottoposta al giudice d’appello può in concreto risultare più ampia rispetto a quella del primo grado (attraverso le strette maglie delle domande ed eccezioni nuove, come si vedrà infra, § 2.5) ovvero più ristretta, oltre che per avere l’appellante proposto solo alcuni tra i motivi di impugnazione astrattamente proponibili, anche per avere l’appellato omesso di riproporre questioni non risolte a suo favore dal giudice a quo. Dispone, difatti, l’art. 346 c.p.c. che «le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate».
Le maggiori perplessità sorgono con riferimento alle “domande”.
Al proposito occorre anzitutto rilevare che l’art. 346 c.p.c. non si applica alle domande in senso tecnico (artt. 99 e 100 c.p.c.) che siano state respinte o indebitamente non esaminate, poiché la relativa disciplina va ricavata dall’art. 329 c.p.c., dando luogo la loro mancata impugnazione ad un’ipotesi di acquiescenza, ma solo a quelle rimaste assorbite dall’accoglimento della domanda principale: per questa ragione, l’onere di riproposizione copre i “motivi” o “ragioni” della pretesa che siano stati respinti, o dichiarati assorbiti, o non considerati dal giudice a quo, il quale abbia accolto la domanda in base ad altri “motivi” o “ragioni”.
Importanti precisazioni sono giunte recentemente dalle Sezioni Unite, secondo cui, a proposito di domande alternative, si deve distinguere tra alternatività “oggettiva” per ontologica “incompatibilità” tra i risultati cui tendono le singole domande, e alternatività “soggettiva”, dipendente dall’indifferenza della parte per l’accoglimento dell’una o dell’altra (Cass., S.U., 19.4.2016, n. 7700).
Nella prima ipotesi l’attore, nel caso in cui la sentenza abbia ritenuto fondata una delle due pretese, non versa in un’ipotesi di soccombenza in senso tecnico: pertanto, non ha onere né di proporre appello incidentale né di riproporre la domanda non accolta ai sensi dell’art. 346 c.p.c. qualora l’appellante censuri la decisione negando la fondatezza di entrambe le domande, mentre ha onere di impugnare in via incidentale se il convenuto in primo grado appelli la decisione di accoglimento di una domanda per ragioni ad essa solo intrinseche, «che non comporterebbero la fondatezza di quella invece ritenuta infondata». Qualora invece l’alternatività sia soggettiva, l’impugnazione ad opera del convenuto in primo grado fa sorgere l’interesse dell’appellato a rimettere in discussione (con appello incidentale condizionato) il rigetto della domanda non accolta.
Come si è accennato, dall’iniziativa di parte può altresì conseguire un’estensione dell’area della cognizione sottoposta al giudice di secondo grado, sia pure nei limiti, resi progressivamente meno ampi dalle riforme degli ultimi tre decenni, di cui all’art. 345 c.p.c.
È opportuno ricordare che a partire dalla “controriforma” del 1950 (espressione, qui come in altre sue parti, dell’implacabile avversione degli ambienti del foro verso i contenuti riformatori del codice) tale norma consentiva alle parti di proporre nuove eccezioni, produrre nuovi documenti e chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova, ossia reintroduceva l’antica facoltà di deduzione del novum, sia pure con un innocuo temperamento in tema di spese processuali.
ll legislatore del 1990 ha ristrutturato la disciplina dell’appello dando ascolto ad una tradizione culturale molto risalente che lo vuole come un mezzo almeno tendenzialmente chiuso ai nova, come si evince sin dalla disciplina, contenuta nel co. 1, dedicata al divieto di domande nuove.
La determinazione di una precisa linea di confine tra novità e modifica consentita viene di solito ricercata sulla base di una illusione metodologica tipica della giurisprudenza concettuale: si è creduto in altre parole di poter cogliere con le armi della speculazione scientifica l’“essenza” della novità della domanda, così da ritrovare un criterio atto a risolvere tutti i casi dubbi.
Lo sforzo era votato all’insuccesso e le teorie via via escogitate sono per forza di cose tutte insoddisfacenti, anzitutto perché, come appare evidente nell’applicazione concreta, il divieto risultante dall’art. 345, co. 1, c.p.c., è applicabile ad una serie di ipotesi eterogenee, non riducibili ad un denominatore comune.
Tali incertezze della dottrina, affaticatasi per anni a cogliere una chimerica “essenza” della domanda nuova, si riflettono infatti nell’applicazione giurisprudenziale, come si evince osservando la difficoltà delle corti nel raggiungimento di orientamenti consolidati sulle singole fattispecie di domande nuove.
Quanto al divieto di nuove eccezioni ex art. 345, co. 2, c.p.c. (rito ordinario) e 437 c.p.c. (rito del lavoro), la prima delle disposizioni indicate non consente la proposizione di «nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio» mentre, nel processo del lavoro, la norma corrispondente impedisce tout court «nuove eccezioni».
Nel rito ordinario la norma è chiara con riguardo alla improponibilità di eccezioni in senso stretto, ossia quelle, la cui iniziativa è rimessa alle scelte di parte (Oriani, R., Eccezioni rilevabili (e non rilevabili) d’ufficio. Profili generali (I), in Corr. giur., 2005, 1011), ma ambigua con riguardo alle eccezioni in senso lato, proponibili in appello sollecitando l’esercizio dei poteri al riguardo spettanti al giudice ad quem: essa è interpretabile infatti nel senso che l’interessato può anche allegare per la prima volta in appello i fatti storici principali che danno luogo ad una questione rilevabile d’ufficio, ovvero, restrittivamente, nel senso che in appello la rilevabilità d’ufficio è subordinata alla circostanza che i relativi fatti principali risultino dagli atti del procedimento di primo grado o, quanto meno, emergano dalle attività istruttorie eventualmente compiute in appello.
La seconda soluzione – cui più si avvicina l’orientamento adottato dalla giurisprudenza (Cass., 15.3.2016, n. 5051; Cass., 13.10.2015, n. 20493) secondo cui la preclusione opera soltanto qualora la nuova eccezione, «fondata su elementi e circostanze non prospettati nel giudizio di primo grado, abbia introdotto in secondo grado un nuovo tema d’indagine, così alterando i termini sostanziali della controversia» – appare preferibile, più che per le invocate ragioni di coerenza sistematica con la disciplina delle preclusioni in primo grado, per la sintonia con le scelte complessive del legislatore a partire dalla novella del 1990: poiché la massima parte delle eccezioni sono rilevabili di ufficio, la tesi più indulgente altro non fa che scardinare dalle fondamenta la scelta a favore del modello di revisio prioris instantiae e non pare compatibile con le dichiarate finalità di riduzione dei tempi del giudizio d’appello proprie delle riforme del 2011 e del 2012 (quest’ultima, e in particolare la nuova formulazione dell’art. 342 c.p.c., risolve da questo punto di vista anche il dibattito sul termine ultimo per la proposizione in appello delle eccezioni rilevabili d’ufficio, da individuarsi ormai senza dubbio negli atti introduttivi).
La riforma del 2012, confermando una linea di tendenza che non trova consensi unanimi in dottrina (v. ad es. Balena, G., op. cit., 378, che rimpiange gli «evidenti vantaggi sul piano dell’auspicabile perseguimento della c.d. verità materiale» che contraddistinguevano la disciplina anteriore alla novella del 1990) ha ribadito l’accentuazione del carattere di revisio, riducendo ulteriormente lo spazio per le nuove prove in appello, eliminando il riferimento all’indispensabilità (ancora operante soltanto in materia di rito del lavoro e di procedimento sommario di cognizione) e lasciando quale unico binario l’impossibilità di proporre il mezzo di prova in primo grado.
Il giudice verifica la regolare costituzione delle parti ed esercita i poteri di cui all’art. 182 c.p.c., implicitamente richiamati dal rinvio dell’art. 359 c.p.c. alle norme del giudizio di primo grado (Converso, A., Il processo di appello dinanzi alla Corte d’appello, in Giur. it., 1999, I, 883); ordina, se occorre, l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c. (in ipotesi di cause inscindibili o tra di loro dipendenti) ovvero la notificazione ex art. 332 c.p.c. (in ipotesi di cause scindibili); ordina la rinnovazione dell’atto di appello se rileva un vizio della notificazione che ne importi nullità e prende, se del caso, i provvedimenti in materia di contumacia: declaratoria che può riguardare esclusivamente l’appellato, conducendo la mancata costituzione dell’appellante all’improcedibilità dell’appello.
L’elencazione delle attività di prima udienza prosegue con l’indicazione dei provvedimenti di riunione degli appelli proposti contro la stessa sentenza e del tentativo di conciliazione, da effettuarsi ordinando – soltanto se occorre e dunque con valutazione discrezionale del collegio, anche in funzione dell’eventuale interrogatorio libero (Converso, A., op. cit., 885) – la comparizione personale delle parti, con facoltà per il giudice di invitare le parti alla cd. mediazione delegata espressamente prevista per il giudizio d’appello dall’art. 5, co. 2, del d.lgs. 4.3.2010, n. 28.
Esaurita la trattazione e l’eventuale istruttoria, il giudice, ritenuta la causa matura per la decisione, deve invitare le parti a precisare le conclusioni: ciò può avvenire anche in prima udienza, come suggerito dall’opportunità di non disperdere lo studio del fascicolo effettuato ai fini del filtro ex art. 348 bis c.p.c., e come è permesso dal tenore letterale dell’art. 352, co. 1, c.p.c. (Cass., 6.7.2004, n. 12389), quantunque il codice non preveda alcun divieto per il giudice di fissare un’udienza ad hoc per la precisazione delle conclusioni (v. C. cost., 9.7.2002, n. 333). È divisa sul punto la dottrina: vi è chi ritiene necessaria la fissazione di una nuova udienza (Tarzia, G., Lineamenti del processo civile di cognizione, Milano, 1996, 259, nt. 54) mentre secondo altri autori la precisazione delle conclusioni in prima udienza è opportuna (Balena, G., op. cit., 376 s.; Tedoldi, op. cit., 458, secondo cui per altro l’“invito” del legislatore recente a concentrare la trattazione in un’unica udienza, reso palese dalla cd. passerelle tra inibitoria e merito, non costituisce altro che una «moral suasion, quando manchino risorse organizzative») se non addirittura doverosa (Romano, A.A., Appunti sull’art. 27, Legge 12 novembre 2011, n. 183, in materia di appello civile, in Giusto proc. civ., 2013, 731).
Verbalizzata la precisazione delle conclusioni, si profila attualmente un vero e proprio ventaglio di modelli decisori, progressivamente ampliato dal legislatore nel condivisibile disegno di elasticizzare le modalità di trattazione a seconda delle peculiarità della singola impugnazione.
Le parti possono infatti chiedere di essere autorizzate a depositare gli scritti conclusivi con i termini e le forme previste dall’art. 190 c.p.c.: a tale modalità “scritta”, cui già si affiancava la trattazione “mista” prevista dai co. 2 e 5, si sono aggiunte i) la già esaminata modalità decisoria ex artt. 348 bis e ter, qualora l’appello non abbia alcuna ragionevole probabilità di essere accolto, e ii) la possibilità per il giudice d’appello di disporre ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. la sola discussione orale della causa, pronunciando sentenza al termine di questa dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.
La disciplina della trattazione mista distingue a seconda che l’appello sia stato proposto avverso una sentenza di tribunale o del giudice di pace.
Nella prima ipotesi ciascuna delle parti può chiedere, in sede di precisazione delle conclusioni, la fissazione di un’udienza per la discussione orale della causa successiva allo scambio delle “difese scritte”, purché la richiesta sia riproposta al presidente della corte alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. L’art. 352 c.p.c., nel configurare una successione di doppie memorie scritte e di una successiva discussione orale, riproduce dunque alla lettera non tanto l’art. 281 sexies, co. 2, c.p.c. (che prevede la sostituzione delle memorie di replica con la discussione, da svolgersi in apposita udienza fissata non oltre trenta giorni dal termine per il deposito delle comparse conclusionali), quanto lo schema delineato dall’art. 275 c.p.c. per le cause di primo grado devolute al collegio.
Precisa la giurisprudenza che il mancato rispetto della regola, stabilita dall’art. 352, co. 4, c.p.c., per cui la discussione è preceduta dalla relazione del giudice relatore, determina una mera irregolarità, non essendo espressamente prevista alcuna sanzione di nullità, e non comporta alcuna violazione del diritto di difesa, atteso che scopo dell’udienza di discussione è proprio quello di consentire alle parti una migliore illustrazione delle proprie difese dinanzi al collegio (Cass., 14.4.2005, n. 7759).
Più snello è l’iter previsto per l’appello avverso una sentenza emessa dal giudice di pace: in tale ipotesi – che ricalca il meccanismo di cui all’art. 281 quinquies c.p.c., salvo per quanto riguarda il termine, raddoppiato, per la fissazione dell’udienza di discussione – il giudice, su istanza di parte, dispone lo scambio delle sole comparse conclusionali e fissa udienza per la discussione della causa non oltre sessanta giorni dal termine per il deposito di queste ultime, dopodiché deposita la sentenza entro i successivi sessanta giorni.
In entrambi i casi per altro, secondo la giurisprudenza, l’omessa fissazione dell’udienza di discussione orale pur ritualmente richiesta da una delle parti non comporta necessariamente un vizio della sentenza denunciabile in Cassazione: l’art. 360, n. 4, c.p.c. non tutela infatti l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del concreto pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in virtù del denunciato error in procedendo, e pertanto il gravame può essere accolto soltanto se il ricorrente, anziché limitarsi alla generica affermazione che l’omessa discussione ha impedito la completa esposizione della propria linea difensiva, alleghi espressamente gli specifici aspetti che la discussione avrebbe consentito di «evidenziare o di approfondire, colmando lacune e integrando gli argomenti ed i rilievi già contenuti nei precedenti atti difensivi» (Cass., 5.12.2003, n. 18618).
La disciplina della trattazione esclusivamente orale, estesa al giudizio d’appello dalla l. n. 183/2011 attraverso l’introduzione di un ult. co. all’art. 352 c.p.c., deve essere ricavata, per espresso richiamo normativo, dall’art. 281 sexies c.p.c., e dunque il giudice d’appello, fatte precisare le conclusioni, può ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza o, su istanza di parte, in un’udienza successiva e pronunciare sentenza al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.
Il pedissequo rinvio alla norma prevista per il giudizio di primo grado consente di mutuare le conclusioni raggiunte da dottrina e giurisprudenza nell’interpretazione e applicazione dell’art. 281 sexies c.p.c., sia pure con gli adattamenti imposti dall’eventuale, diversa composizione del giudice (collegiale, in caso di impugnazione avanti alla corte d’appello) rispetto al modello ipotizzato dalla norma di primo grado: identica pare invece la condizione in presenza delle quali il giudice, di proprio impulso, può disporre la sola discussione orale in sostituzione della trattazione esclusivamente o parzialmente scritta, ossia quella possibilità di una pronta definizione che già aveva indotto la giurisprudenza (Cass., 27.1.2011, n. 2024) a ritenere applicabile l’art. 281 sexies c.p.c. in appello anteriormente alla riforma.
La sentenza, che deve essere emanata entro il termine (ordinatorio) di sessanta giorni decorrenti nel caso di trattazione scritta dal termine di deposito delle memorie di replica e, per la trattazione mista, dall’udienza di discussione, conferma la decisione di primo grado quando riscontra l’infondatezza dei motivi d’appello, unitamente al mancato rilievo di questioni esaminabili d’ufficio capaci di condurre autonomamente alla riforma.
Essa, stante il carattere sostitutivo del giudizio d’appello, è destinata a prendere il posto della decisione di primo grado (sostituendosi ex lege in caso di esecuzione già intrapresa sulla base di quest’ultima), con alcune eccezioni: non vi è infatti effetto sostitutivo a) riguardo alle parti della decisone di primo grado non investite dall’impugnazione, e infatti, in caso di appello parziale, il contenuto della decisione si ricava dalla combinazione tra la sentenza d’appello e la parte di sentenza di primo grado non impugnata (Liebman, E.T., Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1984, 300); b) qualora il giudice, con decisione assolutoria dall’osservanza del giudizio d’appello, pronunci sentenza di mero rito sull’improcedibilità o improponibilità del gravame (Cass., 12.12.2008, n. 29205) ovvero ancora sull’inammissibilità ex art. 342 c.p.c. (e neppure vi è effetto sostitutivo, ovviamente, in caso di ordinanza ex art. 348 ter c.p.c.).
La riforma consiste invece nella sostituzione della sentenza impugnata con una sentenza di contenuto diverso a seguito della riscontrata fondatezza di uno o più motivi di appello, ovvero del rilievo di questioni esaminabili di ufficio ad opera del giudice di secondo grado.
La definizione è molto generica, rispetto a quella spesso offerta in dottrina, che ricollega riforma e pronuncia sul merito (cfr., ad es., Andrioli, V., Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 837).
Ma è lo stesso diritto positivo ad indirizzare verso questa genericità, là dove parla di «riforma» della sentenza di primo grado declinatoria della giurisdizione (art. 353, co. 1, c.p.c.) e di «riforma» della sentenza di primo grado che ha dichiarato l’estinzione del processo (art. 354, co. 2, c.p.c.), e soprattutto là dove, disciplinando gli effetti della «riforma» (art. 336 c.p.c.), lascia chiaramente capire che tali effetti sono ricollegabili a tutte le pronunce del giudice di secondo grado che in qualche modo incidano sulla sentenza impugnata.
È opinione consolidata fin dall’epoca del codice previgente che il giudice ad quem sia vincolato dal cd. divieto della reformatio in peius, nel senso che non potrebbe mai riformare la sentenza a danno dell’appellante quando l’appellato non abbia a sua volta proposto l’impugnazione (Calamandrei, P., Appunti sulla «reformatio in peius», in Riv. dir. proc. civ., 1929, I, 300 ss.; Carnelutti, F., Capo di sentenza, ivi, 1933, I, 117 ss.; Chiovenda, G., Istituzioni di diritto processuale civile, II, Napoli, 1934, 539).
Al riguardo, come già sottolineato e come ormai riconosciuto dalla dottrina prevalente (v. da ultimo Tedoldi, A., op. cit., 226), occorre anzitutto sottolineare che un simile divieto non è legislativamente stabilito e non è neppure deducibile dalla previsione dell’appello incidentale.
Certo, l’impugnazione incidentale non è diretta solo a garantire l’unità del procedimento di gravame, ma anche a tutelare l’equilibrio delle parti, permettendo al convenuto nel procedimento suddetto di ottenere una riforma della sentenza impugnata a proprio favore e ai danni dell’impugnante principale.
Ma da ciò si può ricavare con sicurezza soltanto che vi sono ipotesi in cui la riforma della sentenza a favore dell’appellato può avvenire esclusivamente se questi propone appello incidentale.
Non si può ricavare, invece, che, ogniqualvolta l’appello incidentale non venga proposto, la reformatio in peius sia di conseguenza preclusa.
L’analisi permette d’altra parte di individuare almeno due classi di ipotesi in cui la riforma ai danni dell’appellante si deve ritenere consentita, fermo restando che, in ogni altro caso, l’appellato il quale voglia ottenere un simile risultato dovrà interporre l’appello incidentale: a) quando la negazione da parte del giudice di secondo grado del bene della vita parzialmente attribuito all’appellante dal giudice inferiore consegua alla soluzione di una questione rilevabile d’ufficio (e non rilevata nel corso dell’anteriore fase del giudizio), attinente al processo o concernente il merito del rapporto controverso; b) quando la domanda sia stata rigettata in primo grado per la non ancora avvenuta scadenza del termine o per il mancato avveramento della condizione, e su appello del solo attore, il quale lamenti la soluzione sfavorevole della questione preliminare, il giudice ad quem ritenga il termine scaduto o la condizione avverata e, a seguito del successivo esame di merito, condotto per la prima volta in appello, emani una sentenza di rigetto per infondatezza assoluta e non solo “per il momento” della domanda.
Artt. 339-359 c.p.c.; art. 702 quater c.p.c.; artt. 128-132 disp. att. c.p.c.
Balena, G., Le novità relative all’appello nel d.l. n. 83/2012, in Giusto proc. civ., 2013, I, 336; Carratta, A., Il giudizio di cassazione nell’esperienza del “filtro” e nelle recenti riforme legislative, in Giur. it., 2013, 241 ss.; Carratta, A., Le Sezioni Unite e i limiti di ricorribilità dell’ordinanza sul “filtro” in appello, in Giur. it., 2016, 1371 ss.; Carratta, A., Ordinanza sul “filtro” in appello e ricorso per cassazione, in Giur. it., 2014, 1109 ss.; Consolo, C., Lusso o necessità nelle impugnazioni delle sentenze?, in Judicium.it; Consolo, C., Nuovi ed indesiderabili esercizi normativi sul processo civile: le impugnazioni a rischio di “svaporamento”, in Corr. giur., 2012, 1133 ss.; Costantino, G., Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del filtro, in treccani.it; D’Onofrio, P., Appello (dir. proc. civ.), in Nss. D.I., I, 1, Torino, 1957, 725 ss.); Ferri, C., Appello nel diritto processuale civile, in Dig. civ., XII, Appendice, Torino, 1995, 571; Panzarola, A., Tra “filtro” in appello e “doppia conforme”: alcune considerazioni a margine della L. n. 134 del 2012, in Giusto proc. civ., 2013, I, 104; Romano, A.A., Appunti sull’art. 27, Legge 12 novembre 2011, n. 183, in materia di appello civile, in Giusto proc. civ., 2013, 731; Russo, M., Le novità in appello dopo la L. 7 agosto 2012, n. 134, in Giur. it., 2013, 233; Sassani, B., Appello (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Aggiornamento, III, Milano, 1999, 182; Scarselli, G., Il nuovo contenuto dell’atto di appello ex art. 342 e 434 c.p.c., ovvero della pretesa che gli avvocati scrivano progetti di sentenza, in Giusto proc. civ., 2013, I, 492; Tedoldi, A., L’appello civile, Torino, 2016; Vellani, M., Appello (dir. proc. civ.), in Enc. dir., II, Milano, 1958, 718 ss; Verde, G., La riforma dell’appello civile: due anni dopo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 977 ss.