Abstract
Vengono esaminati gli aspetti essenziali e caratterizzanti della inammissibilità e della improcedibilità delle impugnazioni, anche nei rapporti con le nullità degli atti processuali, al fine di individuarne il loro specifico regime processuale.
I termini inammissibilità e improcedibilità sono utilizzati dal legislatore processuale (e non solo) in diversi ambiti, anche assai distanti ed eterogenei tra loro.
Si pensi, a titolo esemplificativo, quanto al primo, all’art. 283, co. 2, c.p.c., a proposito dell’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva o della esecuzione della sentenza; agli artt. 342, 348 bis e 348 ter c.p.c. a proposito dell’appello; all’art. 345, co. 1, c.p.c. in tema di proposizione di domande nuove in appello; all’art. 366 c.p.c. sul ricorso per cassazione; all’art. 367, co. 1, c.p.c., a proposito dell’istanza di regolamento di giurisdizione; all’art. 420 bis, co. 3, c.p.c., in tema di accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi; all’art. 492, co. 3, c.p.c. in tema di forma del pignoramento; all’art. 495, co. 2, c.p.c. in tema di conversione del pignoramento; all’art. 499, co. 2, c.p.c. in tema di intervento dei creditori nel processo esecutivo; all’art. 702 ter, co. 2, c.p.c. in relazione alla domanda irritualmente proposta con il rito sommario; all’art. 791 bis, co. 2, c.p.c. a proposito della domanda congiunta di divisione. Di inammissibilità della domanda si parla poi anche in fonti diverse dal codice di procedura civile (v. ad es. l’art. 140 bis, co. 6, c. cons. a proposito dell’azione di classe), mentre il codice civile in numerose disposizioni in tema di tutela dei diritti stabilisce che una determinata attività processuale “non è ammessa” (e ciò stabilisce a volte direttamente: v., ad es., gli artt. 2721, co. 1, 2722, 2729, co. 2, 2738, co. 1, c.c.; altre volte indirettamente: v., ad es., gli artt. 2725, 2726, 2728, co. 2, 2739 c.c.). E gli esempi potrebbero continuare.
Per quanto riguarda l’improcedibilità, si pensi, per es., all’art. 348 c.p.c. sull’improcedibilità dell’appello; all’art. 369 c.p.c. sull’improcedibilità del ricorso per cassazione; all’art. 443 c.p.c. in tema di rilevanza del procedimento amministrativo sulla domanda relativa alle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie; all’art. 445 bis, co. 2, c.p.c. in tema di accertamento tecnico preventivo obbligatorio nelle controversie ivi richiamate. Ancora, oltre il codice di rito, si consideri, ad es., l’art. 2545 quinquiesdecies, co. 3, c.c., a proposito del ricorso per il controllo giudiziario delle società cooperative; e, fuori dell’ambito processualcivilistico, l’art. 35 c.p.a., in relazione al ricorso introduttivo; infine, l’art. 2, co. 1, l. 7.8.1990, n. 241 a proposito della domanda introduttiva del procedimento amministrativo.
In questa situazione non sarebbe opportuno né utile il tentativo di ricostruire le figure generali dell’inammissibilità e dell’improcedibilità che tenesse conto di tutte le fattispecie in cui il legislatore utilizza tali termini. Infatti, gli elementi comuni di tali fattispecie sono talmente pochi e generici che la loro individuazione non sarebbe di alcun aiuto ai fini della determinazione delle relative caratteristiche strutturali e funzionali, nonché delle relative specifiche discipline. Solo con riguardo al microcosmo delle impugnazioni può ipotizzarsi un “sistema” in cui l’inammissibilità e l’improcedibilità rappresentano figure di invalidità degli atti strutturate in guisa sufficientemente organica e coesa dal legislatore, sicché è con riguardo a questo ambito che è opportuno concentrare l’attenzione.
Il termine inammissibilità, anche ove riferito all’impugnazione, è sicuramente tra quelli più indeterminati e, nello stesso tempo, controversi, del lessico processualistico. Tali caratteri – presenti nell’impiego che ne è stato fatto tanto ad opera del legislatore, quanto ad opera della giurisprudenza e della dottrina – si affermano con riguardo sia alle specifiche fattispecie che dovrebbero assumere tale qualificazione ed essere assoggettate alla relativa disciplina, sia alle specifiche caratteristiche della disciplina stessa.
Solo su taluni aspetti generali, infatti, può ravvisarsi, in dottrina, confluenza di vedute: i) l’inammissibilità, quale categoria logico-giuridica processuale generale, è considerata una species del genus invalidità; ii) è “conseguenza” che afferisce agli atti di parte, in particolare alle istanze e alle domande rivolte al giudice; iii) ed è la conseguenza che colpisce l’atto di parte quando questo difetti di un presupposto o comunque di un elemento indispensabile per inserirsi validamente nel procedimento e perseguire una decisione nel merito della domanda.
Si discute, invece, già in merito alla possibilità di affermare l’autonomia concettuale dell’inammissibilità rispetto alla nullità degli atti processuali; aspetto che, evidentemente, condiziona anche il tema dell’individuazione del regime della inammissibilità stessa. Così, tra coloro che affermano tale autonomia, sulla scorta dei rilievi che la pronuncia di absolutio ab instantia nella fase di impugnazione, a causa della nullità, non potrebbe produrre effetti diversi da quelli preveduti dagli artt. 334, 358 e 387 c.p.c., e che la disciplina delle inammissibilità si discosterebbe notevolmente da quella della nullità – essendo caratterizzata la prima dalla rilevabilità ex officio e dalla insanabilità del vizio, la seconda dal rilievo ad istanza di parte e dalla sanabilità del relativo vizio – si è anzitutto prospettata la seguente sistemazione: a) anche l’atto introduttivo di un qualunque giudizio d’impugnazione va valutato, per quanto attiene alla validità e alla sua efficacia, alla stregua dei criteri che in generale reggono la validità e l’efficacia di ogni atto del processo, incluse le regole che concernono il recupero e la sanatoria dell’atto introduttivo nel giudizio di primo grado; b) ogni nullità non sanata e non più sanabile dell’atto introduttivo di un giudizio di impugnazione va sanzionata con una dichiarazione di inammissibilità, non essendo diversi gli esiti delle due ipotesi; c) alcuni e numerati vizi formali del ricorso per cassazione e della domanda di revocazione – quelli espressamente considerati a pena di inammissibilità – producono, per espressa volontà del legislatore, la nullità insanabile e assoluta, ovvero rilevabile d’ufficio, di tali atti. Per quanto riguarda, poi, le specifiche condizioni di ammissibilità-inammissibilità dell’impugnazione, queste si riferirebbero a tre aspetti fondamentali: aa) esistenza astratta del potere di impugnazione; bb) legittimazione e capacità del soggetto; cc) regolarità dell’atto dal punto di vista del contenuto-forma (Fabbrini, G., L’opposizione ordinaria del terzo nel sistema dei mezzi d’impugnazione, Milano, 1968, 277-281).
Vi è poi chi ha osservato che l’esame della “natura” delle imperfezioni formali sanzionate con l’inammissibilità impedisce di attribuire a tale qualificazione testuale un ruolo tecnico determinante per la sua identificazione od un fondamento univoco alla valutazione legislativa delle imperfezioni atte ad integrare la nozione, ciò che sconsiglia la dilatazione della categoria in discorso. Osservato allora il fenomeno dal punto di vista descrittivo ed effettuale, sembrerebbe che il legislatore – ricollegando l’inammissibilità alla carenza di alcuni specifici requisiti formali – «abbia inteso stabilire un’insanabilità limitata appunto a quelle invalidità che avrebbero altrimenti consentito una riproposizione dell’impugnazione», al fine di unificare fattispecie diverse d’invalidità nell’identica sanzione della consumazione dell’impugnazione (Ciaccia Cavallari, B., La rinnovazione nel processo di cognizione, Milano, 1981, 198-199).
Chi invece nega autonomia concettuale all’inammissibilità, premesso che i parametri per discriminare le varie specie di invalidità sono il regime di sanabilità ed il regime di rilevabilità delle stesse, fonda la propria conclusione sulla osservazione che i diversi trattamenti contemplati dalla legge per i vizi di nullità – nullità sanabili, insanabili, sanabili solo col giudicato; rilevabili d’ufficio o ad istanza di parte ed entro limiti e termini più o meno ristretti (cfr. artt. 157, 158 e 161 c.p.c.); opponibili tramite eccezione, o secondo il sistema delle impugnazioni ovvero anche al di fuori di quest’ultimo – conduce alla conclusione che la nullità, come categoria generale positivamente contemplata, coprirebbe tutto quanto è logicamente compatibile con l’ordinamento di rito entro l’ambito compreso tra l’irregolarità e l’inesistenza (Giovanardi, C.A., Osservazioni sulla asserita autonomia concettuale della inammissibilità, in Giur. it., 1986, I, 2, 665 ss., spec. 672). Né potrebbe dirsi una nota distintiva della inammissibilità l’insuscettibilità di rinnovazione contemplata dagli artt. 358 e 387 c.p.c., sia perché lo schema preveduto dall’art. 162 c.p.c. lascia spazio all’ipotesi di nullità non suscettibile di rinnovazione, sia perché tale nota «sembra da ritenersi più correttamente un carattere proprio, più che della inammissibilità, delle impugnazioni stesse con riferimento alle quali si conosce la cosiddetta consumazione dell’impugnazione» (Giovanardi, C.A., Osservazioni, cit., 672-674). La negazione della autonomia logico-giuridica della nozione di inammissibilità comporta come principale conseguenza l’applicabilità della disciplina generale in tema di nullità ed in particolare dell’art. 156 c.p.c. – ivi compreso, naturalmente, anche il suo co. 3 – anche alle imperfezioni sanzionate con l’inammissibilità (Giovanardi, C.A., Osservazioni, cit., 672-675).
Al fine di identificare lo specifico regime di ciascuna ipotesi di inammissibilità si rende necessario respingere ogni tentazione generalizzante, e focalizzare l’attenzione, utilizzando come parametro base il dato positivo, sulla struttura, il regime e le conseguenze della verificazione di ciascun vizio di inammissibilità. Questa prospettiva appare necessaria ove si tenga presente la profonda eterogeneità dei casi tradizionalmente assunti nella categoria in esame: basti pensare alla diversità di vizio che caratterizza, ad esempio, il ricorso per cassazione proposto fuori termine rispetto al medesimo atto proposto tempestivamente ma carente della indicazione delle parti.
Com’è noto, fra le disposizioni che nominano l’inammissibilità – qui, come detto, il discorso è relativo esclusivamente alle impugnazioni – le fattispecie di inammissibilità sono previste dagli artt. 331, 342, 360 bis, 365, 366, 366 bis (abrogato dalla l. 18.6.2009, n. 69), 398 c.p.c., contemplando altre norme (artt. 334, 350 prima della l. 26.11.1990, n. 353, 358, 375, 387, 402, 408 c.p.c.) le conseguenze dell’avvenuta dichiarazione di inammissibilità.
Queste fattispecie, o più semplicemente ipotesi di inammissibilità, hanno la loro causa in difetti di requisiti cd. di contenuto-forma dell’atto (artt. 342, 365, 360 bis, 366, 366 bis, 398 c.p.c.), tranne una (art. 331 c.p.c.) che consegue alla mancata integrazione del contraddittorio nel termine perentorio fissato dal giudice, e possono dirsi “testuali” o “nominate”, per differenziarle dalle altre ipotesi solitamente qualificate di inammissibilità anche senza comminatoria di legge.
Le ipotesi “innominate” o “extratestuali” che tradizionalmente si riconducono nell’inammissibilità sono: a) impugnazione proposta dopo la scadenza dei termini per impugnare; b) impugnazione proposta dalla parte che abbia fatto acquiescenza alla sentenza; c) impugnazione proposta avverso la sentenza non impugnabile con quel determinato mezzo d’impugnazione; d) impugnazione proposta da chi non era parte nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata; e) impugnazione proposta in mancanza di interesse ad impugnare.
Così delineato il quadro delle diversificate fattispecie da esaminare, si può puntualizzare che le questioni prospettabili sono le seguenti: i) con riguardo alle ipotesi che abbiamo definito “testuali” o “nominate”, che poi sono anche le ipotesi definite convenzionalmente “formali” di inammissibilità, si tratterà anzitutto di verificare l’autonomia e la portata del relativo concetto; in secondo luogo, si dovrà chiarire, ove appaia lacunosa, la disciplina di quei vizi espressamente qualificati in termini di inammissibilità; in terzo e ultimo luogo, la qualificazione e la disciplina dei vizi degli atti introduttivi dei giudizi di impugnazione non esplicitamente contemplati dalla legge; ii) con riguardo alle ipotesi “extratestuali” o, convenzionalmente, “sostanziali” di inammissibilità, si tratterà di verificare la “natura” del vizio che le contrassegna, e la relativa disciplina.
Il problema dei rapporti tra nullità e inammissibilità, come visto poc’anzi, è già stato affrontato nei suoi esatti termini in dottrina, ove si è rilevato come, quale che sia lo specifico trattamento che si ritiene caratterizzare i vizi (formali e testuali) di inammissibilità, questo è comunque ricompreso tra quelli che il legislatore ha predisposto per i vizi di nullità, quale categoria ove confluiscono le difformità dell’atto rilevanti, incastonata tra l’irregolarità, che qualifica l’imperfezione irrilevante, e l’inesistenza, che ha per oggetto ciò che non ha rilevanza giuridica (Giovanardi, C.A., Osservazioni, cit., 672-674).
In effetti, se riguardiamo i vizi di inammissibilità in rapporto alle note tipiche dei vizi di nullità, sotto le diverse angolazioni possibili, i profili strutturale e funzionale (sul punto rinvio a Poli, R., Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012, 138 ss.), non è dato individuare alcun tratto differenziale tra i due fenomeni: a) sotto il profilo della “fonte”, qui stiamo discorrendo di ipotesi di inammissibilità predeterminate dalla legge, proprio come accade, principalmente, per le ipotesi di nullità; b) sotto il profilo del “vizio”, del dato morfologico della difformità dal modello, l’identità con le nullità appare con ogni evidenza: difetto di requisito di contenuto-forma dell’atto nell’uno (ad es. artt. 342 e 366 c.p.c.) come nell’altro caso (ad es. art. 164 c.p.c.); c) con riguardo alla “causa”, qui siamo in presenza di difetti relativi all’esistenza e alla individuazione del potere esercitato (ad es., artt. 342, 366, n. 4, 398, co. 2, c.p.c.), o al legittimo esercizio del potere stesso (ad es., artt. 331, 360 bis, n. 1, 366 bis c.p.c.), proprio come in tema di nullità (ad es., art. 164 c.p.c.); d); con riguardo alla funzione generale delle disposizioni che prescrivono i requisiti formali in esame, tanto per l’inammissibilità, quanto per le nullità, si tratta della previsione delle “condotte” necessarie affinché la domanda (qui d’impugnazione) produca il suo effetto tipico, vale a dire il dovere del giudice di pronunciare nel merito di tale domanda; e) tanto è vero, che con riguardo alle conseguenze della verificazione del vizio, sia in caso di nullità che di inammissibilità non sanate, manca una condizione per decidere la domanda nel merito; f) con riguardo al regime specifico, appare condivisibile il rilievo secondo cui la disciplina delle nullità copre in buona sostanza l’intero arco delle soluzioni prospettabili: invero, per limitarci agli aspetti principali, si riscontrano vizi di nullità insanabili e sanabili (con le più svariate possibilità di sanatoria, ivi comprese la rinnovabilità dell’atto e la formazione della cosa giudicata); rilevabili d’ufficio o ad istanza di parte (nei termini più diversificati) o “trasformabili”; opponibili in via di eccezione, secondo il sistema delle impugnazioni o anche in via autonoma; sicché necessariamente il regime dei vizi di inammissibilità deve essere ricompreso in una di queste modalità.
Ciò che quindi preme rilevare è che, se si riconosce mancanza di autonomia al concetto di inammissibilità, la disciplina dei vizi cui tale qualifica è riferibile dovrà essere integrata, ove lacunosa, con le regole proprie delle nullità, di cui agli artt. 156 ss. c.p.c.
È opinione quasi unanime in dottrina che i vizi di inammissibilità siano rilevabili d’ufficio e assolutamente insanabili. E tuttavia, il più delle volte tale trattamento viene semplicemente postulato, senza alcuna soddisfacente giustificazione, sicché né dell’uno né dell’altro degli aspetti richiamati appare chiaro il fondamento.
Sulla rilevabilità d’ufficio, a quanto consta, vi è anzi apparentemente piena concordia anche in giurisprudenza, ma questa generalità di consensi non può far dimenticare che l’intervento d’ufficio nel processo civile per le questioni di rito rappresenta comunque l’eccezione, sì che non si può ritenere sussistente una volontà del legislatore in tal senso se questa non è chiaramente manifestata.
Con specifico riguardo all’inammissibilità, si può osservare che un cenno espresso al rilievo d’ufficio dei vizi in parola è contenuto nell’art. 376, co. 1, c.p.c., laddove si precisa che l’apposita sezione – la cd. sezione filtro – «verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375, primo comma, numeri 1) e 5)».
Tuttavia, tale formula, che sicuramente postula l’esistenza di un potere di rilievo d’ufficio in ordine ai vizi d’inammissibilità, non è idonea a dimostrare che, in ogni caso di inammissibilità, sussista tale potere, e non vi sia spazio per ipotesi rimesse alla disponibilità delle parti che, con il loro comportamento processuale, potrebbero rendere irrilevante la verificazione del vizio. Il tema è infatti strettamente connesso a quello della sanabilità dei vizi di inammissibilità, di cui ci occuperemo subito appresso. In breve, anche per i vizi di inammissibilità, occorre, come per tutti i casi di deviazione dal modello legale, verificare l’interesse protetto dalla norma violata ed accertare se tale interesse è sottratto o meno alla esclusiva disponibilità delle parti. Anche per i vizi di inammissibilità, pertanto, potremo dire che, se il vizio incide sull’esistenza o sull’individuazione del potere esercitato, esso sarà in ogni caso rilevabile d’ufficio, non consentendo comunque la produzione del suo effetto tipico, vale a dire la risposta alla domanda di tutela giurisdizionale. Nel caso degli atti d’impugnazione, poi, a tale profilo si aggiunge il fatto che l’esistenza e l’individuazione del potere esercitato (d’impugnazione, appunto) incidono sui meccanismi di formazione della cosa giudicata, meccanismi che del pari sfuggono alla disponibilità delle parti.
Se, invece, il vizio incide solo sul legittimo esercizio del potere d’impugnazione, non si può escludere a priori che la forma non rispettata sia funzionale (anche o esclusivamente) all’esercizio di poteri degli altri soggetti del processo e dunque non si può escludere rilievo – oltre, come vedremo qui di seguito, al principio di strumentalità in generale ed ai suoi corollari – in particolare, al comportamento processuale di tali soggetti che potrebbe rendere del tutto irrilevante il vizio verificatosi (v., ad es., Cass., 11.6.2007, n. 13620).
Se quanto si è appena detto è vero, ancor meno convincente appare però l’asserita assoluta insanabilità del vizio di inammissibilità, ed in particolare l’asserita insanabilità per raggiungimento dello scopo dell’atto viziato. Deve anzi fermamente affermarsi la sanabilità per raggiungimento dello scopo dei vizi di inammissibilità ora in esame.
Ed è appena il caso di osservare che questa ricostruzione non appare indebolita dalla circostanza che per le figure di difformità dal modello ora in discorso – inammissibilità e improcedibilità – non è espressamente prevista una regola equivalente a quella contenuta nell’art. 156, co. 3, c.p.c. a proposito delle nullità.
Infatti, la formulazione espressa di tale regola può ben spiegarsi in relazione alla preoccupazione del legislatore di evitare soluzioni aberranti nell’applicazione dell’art. 156, co. 2, c.p.c. (norma non prevista per le ipotesi di difformità dal modello legale diverse dalla nullità); quest’ultima norma, invero, disponendo che può essere pronunciata la nullità quando l’atto manca dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo, ed in assenza della norma contenuta nel co. 3 dello stesso art. 156 c.p.c., avrebbe comportato il rischio di un’interpretazione secondo cui il giudice, accertato che l’atto manca di un requisito indispensabile per il raggiungimento dello scopo, deve senz’altro pronunciare la nullità, mentre in realtà ciò può fare solo a seguito del secondo accertamento cui è tenuto, volto ad acclarare se l’atto, nonostante il vizio, abbia raggiunto lo scopo cui è destinato. L’applicabilità del principio di strumentalità delle forme, a ben vedere, non potrebbe essere qui negata – come invece sovente fa la giurisprudenza – anche riconoscendo autonomia concettuale alla inammissibilità, perché in ogni caso essa rappresenta una ipotesi di inosservanza di forme, la quale deve ritenersi soggetta, in quanto tale, al principio in parola ed ai suoi corollari, tra i quali, principalmente, quello per cui il vizio è sanato per raggiungimento dello scopo della norma non rispettata. Né maggior peso presenterebbe l’obiezione secondo cui l’art. 121 c.p.c. sembra limitare l’operatività del principio di strumentalità ai soli atti «per i quali la legge non richiede forme determinate», perché la norma, sistematicamente interpretata, vuol dire che in alcuni casi (i principali) è la legge a fissare i requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo, mentre negli altri casi si deve ricorrere al criterio della congruità al medesimo raggiungimento (principio di equipollenza in senso stretto): ciò che appare pienamente compatibile, in caso di loro mancanza, con il principio di strumentalità delle forme pienamente inteso.
Sulla base delle osservazioni che precedono si inizia a schiudere il senso ed il fondamento della inammissibilità: con riguardo ai vizi “nominati” o “testuali” o “formali” di inammissibilità, infatti, siffatta qualifica sembra debba essere riferita a quelle difformità dal modello degli atti introduttivi dei giudizi d’impugnazione, comportanti – per le loro caratteristiche strutturali e funzionali – nullità dell’atto (e non semplice irregolarità), che, se pur in astratto sanabili, non sono state sanate in concreto, per il mancato operare delle cause di sanatoria in astratto applicabili a quei vizi (v. ancora, ad es., Cass., 11.6.2007, n. 13620 e Cass., 25.2.1993, n. 2333).
Se quanto si è fin qui detto è corretto dal punto di vista sistematico, si può allora sostenere – a proposito del problema dell’estensione della inammissibilità ad ipotesi non espressamente previste come tali dal legislatore – che l’inammissibilità per un vizio di nullità dell’atto introduttivo d’impugnazione potrà essere affermata, esclusivamente ma necessariamente, qualora tale nullità non sia stata sanata, secondo le regole applicabili al giudizio d’impugnazione di cui si tratta, al momento in cui il giudice verifica la sussistenza delle condizioni per la sua pronuncia nel merito della domanda d’impugnazione.
Ciò che ancora si può dire – in punto di estensione della disciplina della inammissibilità – è che non sembra possibile, una volta individuati i casi di inammissibilità, applicare a questi una disciplina più grave e severa, rispetto a quella prevista per le nullità, se tale disciplina non è espressamente prevista dalla legge; e dunque, altri specifici profili di regime diversi dalla ridetta non riproponibilità dell’impugnazione, anche se non è ancora decorso il relativo termine.
Resta da chiarire la ratio di questa specifica disciplina, ed in particolare della non utilizzabilità, da parte del giudice dell’impugnazione, del potere generale di rinnovazione dell’atto nullo, sancito dall’art. 162 c.p.c.; da parte di chi propone l’impugnazione, del potere di rinnovare spontaneamente l’atto una volta intervenuta la dichiarazione d’inammissibilità. Ma di questo problema ci occuperemo subito dopo aver trattato delle ipotesi di inammissibilità extratestuali o “sostanziali”.
Per completezza, si deve anche accennare a quelle ipotesi di vizio extratestuali, o sostanziali, che vengano tradizionalmente ricondotte nel fenomeno dell’inammissibilità – sia dalla dottrina, sia dalla giurisprudenza – pur senza essere espressamente considerate tali dal legislatore: impugnazione proposta fuori termine; da chi ha prestato acquiescenza; da chi non è soccombente o comunque non ha interesse ad impugnare; da chi non è stato parte; impugnazione proposta avverso provvedimento non impugnabile tout court o non impugnabile col mezzo in concreto proposto.
È evidente che si tratta di ipotesi di atti d’impugnazione compiuti in violazione di norme che definiscono i requisiti di esistenza del potere di impugnazione stesso. Secondo l’accezione del concetto di “forma dell’atto” che sembra accolta nel nostro codice (cfr. Poli, R., Invalidità ed equipollenza, cit., 42 ss.), si tratta anche in questo caso di vizi di forma dell’atto processuale, cioè di vizi che, per struttura e funzione, sarebbero indubbiamente qualificabili in termini di nullità, ove non vi fosse la qualificazione espressa in termini di inammissibilità. In particolare, si tratta di ipotesi in cui il mancato rispetto della previsione legale, del modello legale, condiziona l’esistenza stessa del potere d’impugnazione.
Questa caratteristica, secondo le regole generali delle difformità dal modello, si traduce, sul terreno della disciplina del vizio e delle conseguenze sul procedimento, nella loro insanabilità e rilevabilità d’ufficio. Qui, diversamente dalle ipotesi che abbiamo definito formali o testuali di inammissibilità, il potere di impugnazione non è mai sorto o si è già estinto, indipendentemente dalla pronuncia giudiziale. Ed è proprio sul rilievo di questa parziale coincidenza di regime e di conseguenze ricollegabili ai diversi vizi – consumazione del potere d’impugnazione, a seguito della pronuncia giudiziale in un caso, indipendentemente da questa nell’altro –, che può trovare una giustificazione esclusivamente logica, l’assumere «nella globale fisionomia del fenomeno, accanto alle espresse ipotesi di inammissibilità, ipotesi la cui imperfezione già conduce a quella conseguenza» (Ciaccia Cavallari, B., La rinnovazione, cit., 201).
In questa prospettiva, l’uso del termine inammissibilità troverebbe il suo fondamento con riguardo a quelle ipotesi di atto d’impugnazione che, riguardate a posteriori – e non già sulla considerazione di una valutazione aprioristica ed in chiave ipotetica (così, invece, Giovanardi, C.A., Osservazioni, cit., 675 s.) – si rivelerebbero non più sanabili (Fabbrini, G., L’opposizione ordinaria del terzo, cit., 279) e, come tali, comportanti la consumazione (o estinzione) del potere d’impugnazione.
Quando all’esame delle ipotesi testuali aggiungiamo la considerazione di quelle extratestuali, il discorso si estende e ricomprende in un’unica categoria, con la qualificazione in termini di inammissibilità, i vizi degli atti introduttivi dei giudizi d’impugnazione insanabili o, se pur in astratto sanabili, in concreto non sanati.
Come poc’anzi accennato, resta da chiarire la ratio della specifica disciplina dell’inammissibilità, la quale si concreta, come pure abbiamo visto, nella produzione degli «effetti di cui agli artt. 334, 358 e 387 c.p.c. … insieme al principale e costante effetto di impedire l’esame del merito delle ragioni dell’impugnante» (Fabbrini, G., L’opposizione ordinaria del terzo, cit., 275).
Ricapitoliamo i dati a nostra disposizione, con riferimento alle ipotesi di inammissibilità espressamente previste dalla legge. Si tratta di vizi che: a) per struttura e funzione, sarebbero qualificabili in termini di nullità, se non fossero stati espressamente previsti dal legislatore a pena di inammissibilità; b) non incidono sulla esistenza del potere esercitato quanto sulla sua esatta individuazione; c) pertanto, secondo i principi generali in tema di atti difformi dal modello (cfr. Poli, R., Invalidità ed equipollenza, cit., 61 ss., 138 ss.), per struttura e funzione sono assoggettabili al principio di strumentalità delle forme ed ai suoi corollari e, per l’effetto, in astratto sanabili, prima della dichiarazione giudiziale di inammissibilità, anche per difetto di rilevanza concreta del requisito dell’atto di fatto mancante (cd. fattispecie conforme agli scopi), salvo forse il caso della mancanza di procura speciale nel giudizio di cassazione, che – almeno secondo il diritto vivente, ma quest’ultimo andrebbe rivisto alla luce del nuovo art. 182 c.p.c. – appare insanabile; d) sono sanabili altresì per mezzo della rinnovazione spontanea dell’atto che intervenga prima della dichiarazione giudiziale d’inammissibilità (ex multis, v. Cass., 18.1.2008, n. 996); e) se sanati, anche per irrilevanza concreta del requisito mancante, consentono la normale prosecuzione del giudizio d’impugnazione verso la risposta nel merito alla domanda d’impugnazione (cfr., ad es., Cass., 11.6.2007, n. 13620 e Cass., 25.2.1993, n. 2333); f) almeno in parte, sono relativi anche al legittimo esercizio del potere d’impugnazione, e dunque sono sanabili, relativamente a questo profilo, anche per acquiescenza della parte interessata al rilievo del vizio, sempre che intervenga prima della dichiarazione giudiziale di inammissibilità (v. ancora Cass., 11.6.2007, n. 13620 e Cass., 25.2.1993, n. 2333); g) se non sanati, escludono la possibilità di rinnovazione dell’atto per ordine del giudice, ovvero comportano, al momento della dichiarazione d’inammissibilità, la non riproponibilità dello stesso mezzo d’impugnazione, anche se non sono scaduti i relativi termini (oltre alla caducazione dell’impugnazione incidentale tardiva).
Ora, il dato comune a tutte le eterogenee ipotesi di inammissibilità nominate è dato dagli effetti della dichiarazione d’inammissibilità, la quale ha anche una portata costitutiva, laddove preclude la riproponibilità del mezzo anche se non sono decorsi i relativi termini. Sicché, il fondamento di questa figura d’invalidità non può essere ravvisato nel fatto che i vizi di cui si tratta, per loro natura, sono tali da escludere definitivamente il potere d’impugnazione, né nell’assoggettare all’insanabilità dei vizi altrimenti sanabili, come pure è stato sostenuto (Ciaccia Cavallari, B., La rinnovazione, cit., 199 s.).
Qui, invece, per mezzo dell’inammissibilità sembra si intenda ridurre gli schemi di autorettificazione del processo, restringere le possibilità di recupero e/o conservazione degli effetti del potere mal esercitato, assottigliando la gamma delle cause di sanatoria utilizzabili. In effetti, nel giudizio di primo grado, in mancanza di una risposta alla domanda giudiziale, sarebbe irrazionale ed antieconomico restringere l’area della sanabilità, perché la conseguenza sarebbe – pena la mancanza di tutela giurisdizionale – la necessità di introdurre un nuovo giudizio, con evidenti diseconomie processuali. Ma una volta pronunciata la risposta alla domanda con la sentenza di primo grado, e dunque somministrata la tutela giurisdizionale, sia pure in una forma che l’ordinamento stesso stima perfettibile, le fasi d’impugnazione assumono progressivamente le vesti di un rigido e formale controllo dell’operato del giudice precedente, nelle quali il potere di azione, nella sua forma di potere d’impugnazione, perde centralità nella scala di valori dell’ordinamento. In una valutazione bilanciata degli interessi in gioco – che oggi tiene in maggior conto il principio della ragionevole durata del processo, nonché l’insieme delle risorse disponibili – al recupero/salvataggio degli effetti del potere d’impugnazione mal esercitato, l’ordinamento, attraverso la disciplina dell’inammissibilità, assegna priorità alla stabilizzazione della tutela già perseguita, in astratto perfezionabile ma comunque senz’altro idonea a soddisfare lo scopo costituzionale del processo (Poli, R., Invalidità ed equipollenza, cit., 338 ss.).
Premesso che gli aspetti del regime dell’improcedibilità espressamente previsti dalla legge sono nella maggior parte omogenei a quelli previsti per l’inammissibilità, ed anzi contemplati nelle medesime disposizioni, sulla figura in esame si è osservato che le ipotesi di improcedibilità si imperniano sul difetto di attività preliminari necessarie dell’impugnante (artt. 348, 369 e 399 c.p.c.), per cui l’improcedibilità si pone come una species del genus inattività, oggettivamente limitata alla fase introduttiva e qualificata dalla specialità della sanzione: la non riproponibilità dell’impugnazione dichiarata improcedibile, che comporta l’estinzione del potere di impugnazione, a norma degli artt. 358 e 387 c.p.c. (Fabbrini, G., L’opposizione ordinaria del terzo, cit., 274 ss.).
In sede di ulteriore approfondimento, e con particolare riguardo alla disciplina dell’atto improcedibile, si è affermato, in contrasto con la prevalente dottrina e giurisprudenza, che il vizio in parola non solo è rilevabile d’ufficio, il che peraltro è sostanzialmente pacifico, ma è tale da escludere la riproponibilità dell’impugnazione anche se non sono ancora scaduti i relativi termini e se non è ancora stata dichiarata l’improcedibilità, sicché l’unica forma di sanatoria, in ipotesi ammissibile, per il vizio in esame, è l’acquisizione al giudizio del medesimo risultato pratico che l’attività omessa mirava a perseguire, ai sensi dell’art. 156, co., c.p.c. (Vaccarella, R., Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975, 199 s., 213 ss.).
Vi è poi chi ha invece esplicitamente negato anche questa forma di sanatoria dell’atto affetto da un vizio d’improcedibilità, sul rilievo – espresso con particolare riguardo all’art. 369 c.p.c., che contempla tali vizi nel giudizio di cassazione – che, così operando, si finirebbe per «negare la perentorietà del termine» previsto in detta disposizione (Tombari Fabbrini, G., Inammissibilità e improcedibilità del ricorso per cassazione e possibili sanatorie per raggiungimento dello scopo, in Foro it., 1993, I, 3019 ss., spec. 3025).
Ciò premesso, anche a questo riguardo il problema principale che si pone è quello di affermare o negare autonomia concettuale all’improcedibilità rispetto alla nullità, e ciò al fine di stabilire se ed in che misura è possibile far ricorso ai principi enucleati per la seconda al fine di colmare le lacune di disciplina che emergono dall’esame della prima figura di inosservanza di forme. Ove tale autonomia concettuale non apparisse sufficientemente fondata, ne sortirebbe a fortiori giustificata l’applicabilità del principio di strumentalità delle forme e dei suoi corollari alle inosservanze di forme prescritte a pena d’improcedibilità, che già per altra via può essere affermata. Infatti, se si considera che anche l’improcedibilità è la conseguenza della inosservanza di norme sulla forma degli atti, si deve riconoscere – come per l’inammissibilità, lo abbiamo appena visto, ma anche qui in contrasto con la giurisprudenza prevalente – che anche alla improcedibilità, e pure ove le si volesse riconoscere autonomia concettuale, si applica il principio di strumentalità delle forme con i suoi corollari, ivi incluso il principio della sanabilità delle inosservanze di forme per raggiungimento dello scopo della norma non osservata.
Ora, dal punto di vista strutturale, si è osservato che «il proprium dell’improcedibilità della domanda va cercato nell’attinenza della figura all’esclusiva sfera processuale, senza influsso dal o sul merito. Essa può definirsi dunque come la conseguenza, di natura sanzionatoria e perciò doverosamente testuale, di un comportamento procedurale omissivo, derivante dal mancato compimento di un atto, espressamente configurato come necessario a tal fine, della sequenza di avvio di un dato processo» (La China, S., Procedibilità - dir. proc. civ., in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, 794 ss., spec. 802).
Come si può agevolmente rilevare, dal punto di vista strutturale, le ipotesi di inosservanza di forme prescritte a pena d’improcedibilità non differiscono affatto da quelle prescritte a pena di nullità, che pure sono costituite dalla omissione di una condotta processuale indicata dal legislatore come indispensabile per il raggiungimento dello scopo della singola norma, e dunque come necessaria per la produzione dell’effetto tipico del potere esercitato (vale a dire, ove si tratti della domanda giudiziale, per lo sviluppo del procedimento verso la decisione del merito, che rappresenta l’effetto tipico del potere di azione) (Poli, R:, Invalidità ed equipollenza, cit., 150 ss.).
Se di primo acchito le ipotesi di improcedibilità fanno pensare agli omologhi casi di nullità derivanti dall’omissione materiale di un atto necessario della serie procedimentale (si pensi, ad esempio, al ricorso introduttivo del rito del lavoro depositato e poi non notificato o all’omessa notificazione e comunicazione di atti al contumace e così via), piuttosto che alla mancanza di un requisito cd. di contenuto-forma dell’atto, come tipicamente avviene per le ipotesi nominate formali di inammissibilità (v. La China, S., Procedibilità, cit., 800), in realtà integrano ipotesi di improcedibilità anche fattispecie di difettoso o tardivo compimento di un atto del tutto analoghe a fattispecie sanzionate con la nullità (si vedano, ad esempio, i casi di omesso o tardivo deposito: dell’originale notificato dell’atto introduttivo del giudizio di impugnazione, dell’originale della procura speciale, dell’originale notificato dell’atto di integrazione del contraddittorio, degli atti e dei documenti sui quali l’impugnazione si fonda e così via).
Per quanto riguarda, in particolare, la causa della improcedibilità, ovvero la ragione giustificatrice della invalidità, si può osservare che anche le ipotesi di improcedibilità si ricollegano a fattispecie nelle quali l’inosservanza di forme: a) o impedisce l’individuazione del potere esercitato; b) o impedisce l’esercizio dei poteri degli altri soggetti del processo, per il quale pieno esercizio la forma violata era stata prevista; c) o impedisce entrambe le cose. Sicché anche a tale proposito non sembra ravvisabile alcuna rilevante differenza sostanziale con le inosservanze di forme previste a pena di nullità.
Per quanto riguarda, invece, il profilo funzionale, il discorso è appena più delicato. Qui, infatti, da un lato rileviamo – del resto come per le ipotesi di inosservanza di forme previste a pena d’inammissibilità, poc’anzi esaminate – che anche la conseguenza della verificazione di una fattispecie di improcedibilità è la mancata produzione dell’effetto tipico dell’atto; dall’altro – e qui emerge il proprium di regime dell’improcedibilità rispetto alla nullità – rileviamo che, alla dichiarazione dell’improcedibilità dell’atto consegue la non riparabilità del vizio, sicché l’improcedibilità si caratterizza per la insanabilità, ma solo dopo che è stata dichiarata.
Come già abbiamo visto a proposito delle ipotesi di inammissibilità, tale specifico regime non è estraneo alla nullità processuale, ben potendosi individuare, anche per espressa disposizione di legge – art. 162 c.p.c. – ipotesi di nullità non sanate cui, una volta dichiarate, non segue la rinnovazione dell’atto nullo né altre forme di riparabilità/sanabilità (sia pur con la precisazione, che abbiamo ritenuto dovuta anche per le ipotesi di inammissibilità, che per l’improcedibilità la non rinnovabilità dell’atto, una volta dichiarato il vizio, rappresenta la regola, mentre per le nullità l’eccezione).
Ed a quest’ultimo specifico riguardo, la ratio ultima dell’improcedibilità può cogliersi – non diversamente rispetto alle ipotesi di inosservanza di forme prescritte a pena di inammissibilità – nella esistenza della sentenza di primo grado e dunque in una valutazione bilanciata sui tempi e suoi modi della offerta di tutela giurisdizionale: «la maggior gravità delle conseguenze in fase d’impugnazione si può giustificare con la considerazione che quanto meno un grado, ma facilmente anche due, di merito si sono già svolti, mentre l’improcedibilità che si ergesse alle soglie del primo grado del processo di merito sarebbe troppo punitiva, ed in ultima analisi praticamente lesiva del diritto di agire in giudizio, se fosse con ugual rigore sanzionata» (La China, S., Procedibilità, cit., 803; v. anche Boccagna, S., L’impugnazione per nullità del lodo, I, Napoli, 2005, 115 ss.; contra, Caporusso, S., La “consumazione” del potere d’impugnazione, Napoli, 2011, 131).
Ad ogni modo, quale che sia l’autonomia concettuale che si voglia riconoscere alla improcedibilità, quel che davvero conta è individuare la esatta disciplina dei relativi vizi. Ebbene, a tale proposito si deve prendere atto che anche le ipotesi previste dal codice di rito a pena di improcedibilità sono indubbiamente eterogenee fra loro – basti pensare alle differenze sussistenti tra quelle contemplate, rispettivamente, dall’art. 348 e dall’art. 369 c.p.c. –, sicché è comunque necessario, per determinare la relativa disciplina, procedere ad una loro disamina separata.
In questa prospettiva si colloca, come abbiamo già visto, chi osserva che per studiare e capire correttamente un fenomeno processuale quale l’improcedibilità, è necessaria «l’analisi attenta del dato positivo, dettaglio per dettaglio, articolo per articolo», al fine di evitare confusione con altri fenomeni solo apparentemente affini, quali l’irricevibilità, l’inammissibilità, l’improponibilità e l’improseguibilità, attesi gli «esiti pratici anche gravi quando si venga al dunque di apprezzare in un caso singolo il regime del vizio e le sue conseguenze» (La China, S., Procedibilità, cit., 795; v. anche 798).
A ciò occorre aggiungere che è altresì necessario, proprio in considerazione di quei gravi esiti pratici cui altrimenti si può dar luogo, compiere un’operazione più articolata, ed esattamente: a) esaminare singolarmente ciascuna causa di improcedibilità (per ogni atto processuale e per ogni fase processuale dove la stessa può assumere rilevanza); b) definire la funzione dell’adempimento formale prescritto a pena d’improcedibilità; c) individuare gli interessi che quell’adempimento tutela; d) sulla base di quei dati ricostruirne il regime – riparabilità; rilevabilità, ecc. –, compatibilmente con tutti gli altri aspetti processuali che possono concorrere a definire quel regime (poteri delle parti e del giudice; stato del processo, ecc.).
Un’ultima notazione, per concludere. In tempi recenti, muovendo dalla valorizzazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo ed altresì in considerazione delle scarse risorse attualmente disponibili per il settore giustizia, il legislatore da un lato e la giurisprudenza prevalente dall’altro ricorrono sempre più spesso alle figure in esame, ed in specie all’inammissibilità, per “filtrare” le impugnazioni considerate meritevoli di un esame del merito. A tale riguardo occorre tuttavia sempre ricordare: a) che il principio del giusto processo, di cui agli artt. 6 CEDU e 111 Cost., non si esplicita nella sola ragionevole durata dello stesso e che quest’ultimo valore non può essere salvaguardato a scapito degli altri valori in cui pure si sostanzia il processo equo, quali il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio e, in definitiva, il diritto ad un giudizio nel merito (Cass., S.U., 12.3.2014, n. 5700); b) che anzi tale principio del giusto processo impone all’interprete di preferire le scelte ermeneutiche in grado di assicurare che il processo pervenga ad una decisione di merito (Cass., ord. 30.3.2015, n. 6427); c) che, pertanto, le limitazioni all’accesso alla tutela giurisdizionale, anche con riguardo alle fasi d’impugnazione, sono compatibili con i principi del giusto processo solo qualora vi sia una ragionevole relazione di proporzionalità tra il mezzo impiegato e lo scopo perseguito (Cass., 5.2.2015, n. 2143), fermo restando che tali limitazioni devono essere stabilite in modo chiaro e prevedibile, vale a dire alla stregua di una giurisprudenza non ondivaga o non specifica (Cass., S.U., 12.3.2014, n. 5700); d) che, infine, (almeno) nel nostro ordinamento, le forme degli atti processuali sono sempre previste in funzione del raggiungimento di uno scopo, sicché, quando tale scopo è raggiunto, l’eventuale vizio di forma deve sempre considerasi irrilevante e per l’effetto sanato (Cass., 21.1.2016, n. 1081).
Artt. 331, 334, 342, 348, 348 bis, 348 ter, 350, 358, 360 bis, 363, 365, 366, 369, 370, 371, 371 bis, 372, 375, 376, 380 bis, 387, 398, 399, 408, 434, 436 bis, c.p.c.
Boccagna, S., L’impugnazione per nullità del lodo, I, Napoli, 2005; Caporusso, S., La “consumazione” del potere d’impugnazione, Napoli, 2011; Cerino-Canova, A.-Consolo C., Inammissibilità e improcedibilità: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Aggiornamento, Roma, 1993; Ciaccia Cavallari, B., La rinnovazione nel processo di cognizione, Milano, 1981; Fabbrini, G., L’opposizione ordinaria del terzo nel sistema dei mezzi d’impugnazione, Milano, 1968; Giovanardi, C.A., Osservazioni sulla asserita autonomia concettuale della inammissibilità, in Giur. it., 1986, I, 2, 665 ss.; La China, S., Procedibilità (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, 794 ss.; Poli, R., Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012; Tombari Fabbrini, G., Inammissibilità e improcedibilità del ricorso per cassazione e possibili sanatorie per raggiungimento dello scopo, in Foro it., 1993, I, 3019 ss.; Vaccarella, R., Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975.