Appio Claudio e il decemvirato romano
Per la turbinosa e complessa vicenda di Appio Claudio e dei decemviri legibus scribundis, situabile secondo la tradizione intorno al 450 a.C., le fonti principali (e tra loro discordanti in non pochi luoghi) sono le Antichità romane di Dionigi d’Alicarnasso (X liv-lx e XI i-xlix) e la Storia di Roma di Livio (III xxxi-lviii).
La prima, disponibile a stampa fin dal 1480 nella versione latina di Lampugnino Birago, non sembra aver lasciato tracce sicure in M.: egli segue da vicino la seconda, che nelle sue linee essenziali si lascia riassumere come segue.
L’endemico conflitto che a Roma divide patrizi e plebei rende necessaria una riforma normativa. Si mandano tre ambasciatori ad Atene, per copiare le leggi di Solone e studiare la legislazione greca. Al loro ritorno si istituisce un decemvirato con potere assoluto, il quale esercita un governo mite e stende intanto un corpo di leggi su dieci tavole, che viene esposto, emendato e infine approvato. Si diffonde quindi la voce che esso sia incompleto e che il mandato del decemvirato vada perciò prolungato. Appio Claudio, la figura più in vista tra i decemviri, riesce a far nominare un nuovo decemvirato composto da persone prone al suo volere e poi getta la maschera: abusando gravemente del proprio potere, si rivela nemico acerrimo della plebe, suscitando però anche l’odio di parte dei patrizi. Quando altre due tavole di leggi sono pronte e in attesa di approvazione, Roma viene attaccata dagli Equi e dai Sabini. Sia i patrizi sia i plebei intralciano i tentativi dei decemviri di organizzare la difesa; gli eserciti, che essi conducono infine fuori città, vanno incontro a rovinose sconfitte. Nel frattempo Appio Claudio, che è rimasto a Roma, s’invaghisce di Virginia, bellissima ragazza plebea. Approfittando dell’assenza di suo padre Virginio, che è nel campo con l’esercito, incarica un suo cliente di reclamarla come propria schiava, onde poter poi farla sua. I difensori di Virginia, fra cui lo zio Publio Numitorio e il fidanzato Icilio, un ex tribuno, minacciano una rivolta della plebe, e costringono così Appio Claudio a lasciarla in libertà provvisoria, in attesa del ritorno di Virginio. Tornato questi in città, Appio Claudio persiste però nel suo intento di schiavizzare Virginia per poter abusare di lei. Viste inutili le sue proteste, Virginio uccide infine la propria figlia per salvarne l’onore e la libertà. In seguito a ciò nasce una rissa furibonda, in cui Appio Claudio si trova di fronte anche due patrizi benvisti alla plebe, Valerio e Orazio.
Virginio intanto si reca al campo sul monte Vecilio per giustificare il proprio atto davanti all’esercito, che si schiera dalla sua parte, torna a Roma e occupa l’Aventino. Icilio e Numitorio istigano alla ribellione anche l’esercito in Sabina, che si reca anch’esso all’Aventino. Per premere sui patrizi, tutta la plebe si sposta infine sul Monte Sacro, lasciando Roma semideserta. Dopo alterne vicende, il senato manda infine Valerio e Orazio a parlare alla plebe, per ristabilire l’ordine e anche per proteggere i decemviri.
La plebe chiede il ripristino della potestà tribunizia e del diritto di appello al popolo, e l’impunità per la rivolta; chiede inoltre la consegna dei decemviri, che intende bruciare vivi. Valerio e Orazio accolgono le richieste, eccetto l’ultima, raccomandando alla plebe di riconquistare prima la libertà e di agire poi come ritiene meglio. A Roma le richieste vengono accolte, anche dai decemviri, che accettano di dimettersi. La plebe torna sull’Aventino e lì elegge nuovi tribuni, fra cui Icilio e Numitorio. Un interré nomina poi consoli Valerio e Orazio, che riprendono la guerra contro gli Equi e i Sabini. Prima che essi lascino la città con i loro eserciti, si espongono in pubblico tutte le leggi decemvirali. Nel frattempo Virginio ha citato in giudizio Appio, imputandogli di aver rifiutato, contro la legge, la libertà provvisoria a sua figlia. Appio, che aveva negato ad altri l’appello, presenta appello al popolo per sé stesso, com’è suo diritto. Ciononostante egli viene incarcerato; inutilmente difeso da un parente, prima del processo si dà la morte.
Il carattere leggendario di parecchi elementi di questa storia è assodato da molto tempo. Aggiunte apocrife molto posteriori sono spesso considerate, fra le altre, il viaggio di studio ad Atene e l’istituzione del secondo decemvirato.
Mera invenzione sarà poi stata tutta la storia di Virginia, peraltro strettamente affine a quella di Lucrezia (Livio I lvi e segg.), con cui condivide, oltre al tema principale (la caduta di un tiranno per effetto dell’abuso di una donna che perde la vita), una lunga serie di particolari (e si noti che le due storie vengono accostate sia in Livio III xxxix 3 e xliv 1, sia in III xxvi 9 dei machiavelliani Discorsi). Inoltre, la secessio plebis del 449 è ritenuta talvolta un possibile doppione di quella del 494. E anche lo stesso personaggio di Appio, la cui storicità iniziale non è di solito contestata, è in buona parte avvolto nella leggenda (per maggiori particolari, cfr. per es. De Sanctis 1907 e Ogilvie 1965). La versione della vicenda tramandataci da Livio risale comunque a tempi a lui abbastanza vicini (Ogilvie 1965, pp. 450, 453-54, 461).
È poi largamente condiviso il parere che il piano legislativo che anima tutta la vicenda riguardasse in origine non la sostituzione di vecchie norme indigene con leggi nuove di impronta greca (come vuole Livio), ma la codificazione e la pubblicazione di leggi già esistenti (Ogilvie 1965, pp. 449-50). Notoriamente poco pratico di cose giuridiche, Livio non si dilunga poi sul contenuto di questo corpus, non pervenutoci nella sua forma originale e di ardua ricostruzione.
A conferma della fondamentale fragilità di tutta la storia da lui narrata, probabile stilizzazione di una vicenda ben più complessa, basterà constatare che essa attribuisce agli stessi decemviri – di cui pur denuncia i misfatti, seguiti da esemplare castigo – l’inestimabile merito, ancora oggi spesso sottoscritto, di aver steso un corpo di leggi destinato a essere per secoli fons omnis publici privatique iuris («fonte di tutto il diritto pubblico e privato», III xxxiv 6), cioè il fondamento della società civile e della libertà.
Il tema del decemvirato è affrontato nei Discorsi per la prima volta in I xxxv, nell’ambito di una discussione sulla dittatura romana, che porta M. a formulare la regola secondo cui «le autorità che i cittadini si tolgono, non quelle che sono loro dai suffragi liberi date, sono alla vita civile perniziose» (I xxxiv 1). A tale regola l’infausto episodio dei decemviri per M. costituisce un’eccezione solo apparente, perché il potere da essi assunto, sebbene liberamente concesso, era, diversamente da quello dittatoriale, incondizionato, e per di più non rigorosamente delimitato nel tempo. In tal modo ogni forma di sorveglianza sul decemvirato era venuta a cadere, con conseguenze nefaste.
La vicenda viene poi seguita accuratamente nel lungo cap. I xl, i cui §§ 4-25 riassumono i capp. III xxxi-xli di Livio. La successiva storia di Virginia e le sue conseguenze, che in Livio si estende per molti capitoli (xlii-lviii), è in un primo momento riassunta da M. in poche righe (§ 26). Segue un ampio commento dedicato in sostanza a un solo ma fondamentale errore di Appio – l’illusione di poter fare a meno del favore popolare prima di aver neutralizzato la nobiltà (§§ 27-42) – che viene discusso in rapporto a quelli commessi dalla plebe e dal senato; dopo di che si ripete (§§ 43-44) quanto già detto nel cap. xxxv circa l’errore commesso da senato e plebe nell’istituzione del decemvirato.
Segue una coda di ben cinque capitoli dedicati ad aspetti particolari della vicenda. Il primo (xli) critica un altro gravissimo errore di Appio, affine a quello già segnalato: egli gettò troppo bruscamente la maschera, palesando la sua natura inguaribilmente ostile al popolo. Il secondo (xlii) sottolinea la corruttibilità della natura umana, attraverso il riferimento a Quinto Fabio, membro del secondo decemvirato. I tre capitoli successivi riguardano avvenimenti posteriori a quelli già riassunti nel cap. xl, che in essi vengono perciò brevemente sintetizzati: il xliii si sofferma sulle cause delle sconfitte romane sotto i decemviri; il xliv, che ha andamento in massima parte narrativo, illustra il tema della debolezza delle masse senza capo, per poi sfociare alquanto inaspettatamente in un consiglio di comportamento a esso solo indirettamente collegato: non bisogna mai abbinare minacce a richieste; infine, il xlv enuncia e condanna due errori commessi dagli antagonisti di Appio dopo la sua caduta: essi non rispettarono le leggi vigenti e diedero vita a un clima di terrore che mise a repentaglio la loro vittoria politica.
Alla vicenda di Appio e dei decemviri M. torna infine brevemente nel libro III dei Discorsi, dove ricorda un espediente praticato da Appio per difendersi dalla «ambizione» dei tribuni della plebe (xi 4-5) e, più avanti, accenna ad alcuni parenti dello stesso Appio, anche per sottolineare, sempre sulla scia di Livio, la disposizione visceralmente antipopolare della gens Appia (III xix 2-3, 13; III xxxiii 11; III xlvi 3, 6).
Sul piano fattuale, la versione machiavelliana e la sua fonte principale (fra cui recentemente si è voluto ipotizzare, sia pure con cautela, la mediazione delle Enneades del Sabellico: cfr. Ruggiero 2005) divergono in non pochi punti (cfr. soprattutto Martelli 1998). Per menzionarne alcuni: a) una diceria anonima (vulgatur deinde rumor «si diffonde poi una diceria»: Livio III xxxiv 7) diventa in M. diffusa ad arte da Appio («fece […] Appio nascere un romore per Roma», I xl 11); b) un periodo causale (quando minimus natu sit «essendo egli il più giovane», Livio III xxxv 7) diventa concessivo («benché e’ fusse minore di tutti», I xl 13); c) anziché gli Equi si menzionano i Volsci (I xl 23); d) non si distingue a sufficienza tra il ritiro della plebe sull’Aventino e il passaggio successivo al Monte Sacro (I xliv 2); e) la nomina di venti tribuni militari, effettuata per metà da Virginio e per l’altra metà da Icilio, è attribuita al solo Virginio (I xliv 7); f) un parere della folla è invece attribuito a Virginio (I xlv 4).
Si tratta, come si vede, di variazioni complessivamente di poco conto, spiegabili con la tendenza a conferire concretezza ed esemplarità al discorso personalizzandolo (a, f), o a omettere elementi inessenziali che avrebbero condotto a digressioni inutili (d, e), o in altro modo (b, c: a proposito di c, si noti che Equi e Volsci in Livio vengono spesso menzionati insieme e sono in un certo senso interscambiabili: cfr. Livio VII xxx 7). Nel loro insieme, esse vanno considerate anche alla luce della fondamentale differenza fra l’esposizione annalistica, che privilegia i fatti, e il trattato politico, che razionalizzandoli ne cerca principalmente la spiegazione. Nell’insieme, M. offre della vicenda dei decemviri (o perlomeno della parte che precede l’infatuazione di Appio per Virginia) un riassunto che, nei limiti della sua essenzialità, è piuttosto fedele e contiene una serie di riprese ad verbum. Le sette citazioni latine accoltevi sono, al solito, a volte più o meno esatte, più spesso alquanto libere, ma rispettano sempre il senso del discorso liviano. Molto diversi nei due autori sono ovviamente l’andamento del discorso (che in Livio è costellato di arringhe) e le sue finalità: in merito è stato notato fra l’altro (Matucci 1991, p. 184) che in Livio la narrazione converge verso una finale catarsi collettiva che in M. non c’è.
Per i capitoli machiavelliani conviene poi tener presenti anche alcuni passi liviani che precedono e seguono i capp. xxxi-lviii del libro III. Per la tesi discussa nella prima parte del cap. I xlv, si veda Livio III xxi 5: Levius enim vaniusque profecto est sua decreta et consulta tollere quam aliorum («è più leggero e vano, infatti, cassare i propri decreti e le proprie decisioni che quelli altrui») e X xiii 10: quid ergo attineret leges ferri, quibus per eosdem qui tulissent fraus
fieret? («a che serviva infatti presentare delle leggi, se esse venivano violate da quelli stessi che le avevano presentate?»); per il tema del cap. I xliii, si veda Livio III lxi 1 e lxii 2.
Per M. la vicenda del decemvirato è un capitolo essenziale della secolare e, nella sua ottica, per molti rispetti salutifera lotta tra nobiltà e popolo romano. Alternando narrazione e discorso, egli ne studia la dinamica da una duplice o triplice angolatura (I xl 2-3). E con il cambiamento di prospettiva cambia ripetutamente anche il giudizio: così sono giudicati «bene usati» vari inganni perpetrati da Appio (I xli 2), ma «pessimi» i costumi di Quinto Fabio quando questi imitò il suo esempio (I xlii 2). Come avviene spesso, dunque, lo scopo di M. non è quello di propugnare un’ideologia o un’etica politica, ma di sondare la correttezza tecnica della strategia adoperata dalle parti in causa. Con il risultato che ad Appio non si rimprovera di aver ingannato, ma al contrario di aver disingannato troppo presto chi credeva in lui (I xli); e a Girolamo Savonarola non di essere stato parziale, ma di non aver saputo dissimulare la sua parzialità (I xlv).
Il decemvirato era nato con un difetto d’origine, radicato nelle caratteristiche o meglio nei vizi congeniti dei due ceti sociali (troppa voglia di libertà da una parte, troppa voglia di dominare dall’altra: Discorsi I v 8; Principe ix 2, 6), che spianò a chi lo incarnava la via verso il potere assoluto. Ed era nato anche – non lo dicono esplicitamente né Livio né M., ma è importante rilevarlo – sotto una stella contraddittoria: alla volontà di pervenire a una legislazione condivisa che favorisse la pace sociale, si appaiava e contrapponeva fin dall’inizio lo sforzo di eliminare la parte avversaria. Appio si era prontamente incamminato per quella via, ma al momento decisivo commise un fatale errore di tempismo, rinunciando al favore popolare prima di aver neutralizzato la nobiltà, alla quale da solo mai avrebbe potuto imporsi (cfr. Sasso 1988, p. 480). Fu questo errore (e non l’infatuazione per Virginia: cfr. Fedi 1998, pp. 496-99) a determinare la sua caduta e a permettere a breve termine il ritorno all’ordine tradizionale: ritorno reso possibile dal fatto che in quel tempo la Repubblica era ancora fondamentalmente sana (I xvi 31). Così la vicenda decemvirale finì con il ridursi a un mero «errore di percorso» (R. Rinaldi, in N. Machiavelli, Opere, 1° vol., a cura di R. Rinaldi, 1999, p. 632, nota 118) nella secolare libertà romana, che non riuscì a infrangere in profondità (I xxviii 4). È questo, nelle sue grandi linee, il ragionamento che M. sviluppa, cogliendone al solito alcuni capisaldi in stringate regole generali.
Ma a considerarlo attentamente nelle sue pieghe, e a interpretarlo alla luce di altre pagine machiavelliane, tale ragionamento suscita una serie di interrogativi.
È stato notato per esempio che la situazione da cui in I xl 28 sorge la tirannia è «apparentemente identica» (G. Inglese, in Discorsi, premessa e note di G. Inglese, 1984, p. 260, nota 28; e cfr. Sasso 1988, p. 477) a quella da cui nel Principe ix scaturisce un’istituzione molto diversa, il principato civile. Ed è stato notato anche (Cadoni 1974) che l’immagine del tiranno che asservisce la popolazione intera (I xl 31-34) si dissolve quasi subito nell’immagine di un tiranno che non può fare a meno del favore popolare (Discorsi I xl 37 segg.; I xli; e cfr. Principe ix 27, dove il bisogno che il popolo deve avere del principe per garantirne il potere presuppone il bisogno che sempre il principe ha del popolo). E dei tre rimedi che in I xl 40 si consigliano al principe rimasto senza amici, il primo e il terzo (assumere guardie del corpo forestiere e chiedere l’aiuto di «vicini potenti»), identificandosi rispettivamente con le ‘armi mercennarie e auxiliarie’, cadono sotto le critiche espresse in De principatibus xii-xiii e altrove; il secondo [armare il contado], riproponendo in sostanza un’alleanza alternativa per il tiranno che possa sostituire quella con il popolo, non fa che confermare la necessità del consenso e dunque l’impossibilità di un potere assoluto (R. Rinaldi, in N. Machiavelli, Opere, cit., p. 635, nota 166, con rimando a Cadoni 1974, pp. 133-35).
In questa luce, l’errore fondamentale di Appio pare non tanto di aver rinunciato troppo presto al favore popolare, quanto di essersi illuso di poterne fare a meno. Come sempre in M., dunque, anche qui l’immagine del tiranno è elusiva e si trasforma quasi subito in qualcosa d’altro.
Va osservato poi che anche l’origine del difetto istituzionale che contraddistingueva il decemvirato suscita qualche interrogativo. Responsabili, infatti, ne sono ritenuti nel cap. I xl prima (§§ 3, 29) congiuntamente popolo e nobiltà, poi (§§ 31-32) il solo popolo, e infine (§ 44) di nuovo popolo e nobiltà (cfr. Rinaldo Rinaldi che, in N. Machiavelli, Opere, cit., p. 637, nota 191, ipotizza «un montaggio di frammenti composti in fasi cronologicamente diverse»). Più in generale, poi, è legittimo chiedersi se la perdita della libertà presupponga in M. sempre un clima sociopolitico corrotto (come in I xvi-xviii), o se (come in questo caso) alla sua origine potrebbero essere talvolta anche imprudenze di cittadini che in un ambiente fondamentalmente sano innescano un processo di degenerazione (R. Rinaldi, in N. Machiavelli, Opere, cit., p. 604, nota 42, con rimando a Sasso 1988, p. 476). L’episodio del decemvirato ha ispirato dunque a M. una meditazione sulla libertà che presenta una serie di nodi di non facile soluzione, per non dire alcune evidenti e importanti contraddizioni, che riflettono almeno in parte il carattere provvisorio di non poche pagine dei Discorsi.
Tale provvisorietà sembra riflettersi anche all’inizio del cap. I xliii, dove per le sconfitte degli eserciti romani sotto i decemviri si rimanda al «soprascritto trattato», cioè a quanto precede: in realtà se ne parla qui per la prima volta. Queste sconfitte – che, come si apprende da Livio (III ii) ma non da M., erano frutto di un autentico sabotaggio – sono, come M. stesso forse già intuiva («Da questo esemplo si può conoscere, in parte»), troppo facilmente addotte come prova «della inutilità de’ soldati mercenari» e della necessità di «armarsi de’ sudditi suoi» (I xliii 4, 7): gli eserciti romani, infatti, anche se comandati da persone nemiche in quanto invise al popolo, erano pur sempre composti di cittadini. Nel cap. I xliv, poi, non è limpido il rapporto fra l’avvertimento di non unire minacce a richieste e l’exemplum su cui esso si fonda, dato che nell’avvertimento richiesta e minaccia hanno lo stesso referente, mentre nell’exemplum la richiesta è rivolta a Valerio e Orazio (o al senato che essi rappresentano), laddove la minaccia riguarda invece i decemviri (per una riflessione in merito, cfr. van Heck 1998, pp. 65-66).
La storia contemporanea gioca, almeno in superficie, un ruolo modesto nel nostro episodio. Essa è chiamata in causa solo in I xlv, dove attraverso un raffronto con l’operato di Virginio, si addossa a Savonarola la colpa di una violazione legale che, come spiegano i commenti, fu attribuibile piuttosto a uno dei più potenti e faziosi ‘piagnoni’, Francesco Valori.
Ma la situazione fiorentina resta il presupposto naturale di ogni discorso machiavelliano che, come questo, verte intorno ai concetti di libertà e oppressione; e il riferimento a essa diventa ineludibile là dove si ventila la possibilità, per il principe rimasto indifeso, di «armare il contado» (I xl 40): parole che toccano una questione molto attuale e controversa, che per anni coinvolse lo stesso Machiavelli. Ma è stato osservato (Najemy 2007, pp. 105-06) che il passo, pur confermando che agli occhi di M. l’armamento del contado potrebbe essere un modo di consolidare una tirannia, non sembra rapportabile al caso del gonfaloniere perpetuo, dato che questi si trovava in una situazione politica molto diversa: Piero Soderini, infatti, aveva amico il popolo e nemici gli ottimati, mentre per Appio avveniva piuttosto il contrario. Semmai, il passo potrebbe alludere (sempre secondo Najemy 2007, p. 106) al regime mediceo avanti il 1494, che aveva dalla sua parte gli ottimati, pur senza poterli sempre compiacere tutti, e che in momenti di crisi si serviva di forze tratte dal contado semifeudale.
Bibliografia: Fonti ed edizioni critiche: N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, introduzione di G. Sasso, premessa e note di G. Inglese, Milano 1984; N. Machiavelli, Opere, 1° vol., a cura di R. Rinaldi, Torino 1999.
Per gli studi critici si vedano: G. De Sanctis, Storia dei Romani, 2° vol., Milano-Torino-Roma 1907, pp. 41-89; R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy: books 1-5, Oxford 1965, pp. 445-509; G. Cadoni, Machiavelli: Regno di Francia e «principato civile», Roma 1974, pp. 130-37, 206-07; G. Sasso, Principato civile e tirannide, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 353-490, in partic. 472-81; A. Matucci, Machiavelli nella storiografia fiorentina, Firenze 1991, pp. 181-90; F. Fedi, Personaggi e ‘paradossi’ nei Discorsi machiavelliani: il caso di Virginia e Appio Claudio, «Lettere italiane», 1998, 50, pp. 485-505; M. Martelli, Machiavelli e gli storici antichi, Roma 1998, pp. 38-42; P. van Heck, La presenza di Livio nei Discorsi di Machiavelli, «Res publica litterarum», 1998, 21, pp. 45-78, in partic. 65-66; R. Ruggiero, Sabellico fra Livio e Machiavelli. Appunti sulla storia del decemvirato e altri incresciosi episodi, «Filologia e critica», 2005, 30, pp. 287-312; J.M. Najemy, «Occupare la tirannide»: Machiavelli, the militia, and Guicciardini’s accusation of tyranny, in Della tirannia: Machiavelli con Bartolo, Atti della Giornata di studi, Firenze 2002, a cura di J. Barthas, Firenze 2007, pp. 75-108, in partic. 102-06.