Storico latino (n. Padova 59 a. C. - m. 17 d. C.), autore di una storia di Roma dalla fondazione della città (ab Urbe condita libri) alla morte di Druso (9 a. C.). Di questa vasta trattazione in forma annalistica sono giunti a noi i libri I-X (dal 754-53 al 293 a. C.) e XXI-XLV (dal 218 al 167 a. C.) oltre a numerosi frammenti (come quello del libro XCI, su Sertorio, conservato in un palinsesto, e quelli del libro CXX, sulla morte e la figura di Cicerone, conservati da Seneca il Vecchio), cioè circa un quarto dell'opera che, come ci informano i sommarî (periochae) compilati nei secc. 3°-4° d. C., era costituita di 142 libri. Per la stesura di quest'opera, che cominciò tra il 27 e il 25 a. C. e cui attese per tutto il resto della vita, L. si giovò di fonti storiografiche di svariato valore (rarissimo è l'uso diretto di fonti documentarie): per l'età più antica, degli annalisti romani, particolarmente dei più recenti come Valerio Anziate, Licinio Macro, Elio Tuberone, dei quali tuttavia non gli sfuggiva la sostanziale mancanza di attendibilità; per l'età delle guerre puniche e in particolare di quelle macedoniche (libri XXI-XLV), soprattutto di Polibio. Ma il problema della scelta delle fonti non è per L. d'importanza preminente, come mostra assai spesso di fronte a versioni diverse di un medesimo avvenimento. Poco rilievo hanno in L. i problemi sociali, economici, costituzionali; scarsa è la sua precisione nel narrare avvenimenti militari, quando non abbia la guida dell'esperto Polibio, ineguale interesse prova per i popoli italici che furono soggiogati dai Romani (Sabini, Volsci, Sanniti, Etruschi, ecc.), che pure avevano espresso civiltà e forme di vita notevolissime. Centro ideale della sua storia è il popolo romano, il cui formarsi e progredire L. segue appassionatamente, senza quel relativo distacco che è proprio, per esempio, dei maggiori storici greci (Tucidide e Polibio), sino alle vicende dei suoi giorni, in cui Roma comincia a soffrire della sua stessa grandezza. Appunto perché L. intese scrivere l'epopea del popolo romano, con intenti sostanzialmente non diversi da quelli che spinsero, in pari tempo, Virgilio alla stesura dell'Eneide, si comprendono le deficienze di cui s'è detto e di cui, dato l'assunto, L. non si curava; per questo le poetiche leggende delle origini, delle quali L. stesso non ignorava la falsità, sono accolte nella sua storia in quanto rispondenti allo spirito della romanità e tali da avvolgere i primordî del popolo romano in un'aura di veneranda grandezza. Lo spirito tradizionalista di L. soffriva del rivolgimento subìto dallo stato romano e il narrare la storia di Roma rievocandone le singolari doti religiose, morali e patriottiche, era per lui un isolarsi dai mali del presente. Questo si avverte anche nelle sue predilezioni stilistiche. L. si prefisse nella sua prosa il modello ciceroniano e se non sappiamo bene in che consistesse la patavinitas (una specie di provincialismo linguistico di cui lo accusò Asinio Pollione), riscontriamo nel suo periodare una ricchezza e scioltezza di espressione (detta da Quintiliano lactea ubertas) che si vale dei coloriti poetici specialmente nei primi libri, e acquista poi maggior fascino dal senso drammatico che spira dalla sua narrazione. L'imparzialità e la nobiltà d'animo di L., riconosciuta da Tacito e Seneca il Vecchio, ci fa maggiormente rimpiangere la perdita di quella sezione dell'opera ove L. trattava dell'età delle guerre civili, a proposito delle quali, come risulta dagli scarsi frammenti pervenutici, lo storico non esitava a dare giudizî, quali quelli famosi su Cicerone e Cesare, che potevano anche dispiacere ad Augusto, il quale tuttavia protesse e altamente stimò Livio. ▭ L'abitudine di ripubblicare la storia di L. a parti staccate ("deche"), e in riassunti, facilitò la perdita quasi totale dell'opera. Al sec. 4° d. C. risale il più antico manoscritto liviano (libri III-VI); ma al principio del Medioevo si conosceva di L. meno di quanto noi possediamo, dato che il libro XXIII fu scoperto nel 1651 e i libri XLI-XLV nel 1527. La parte perduta dell'opera può, in minima parte, essere ricostruita dalle cosiddette periochae (sommarî) dei 142 libri, cui si aggiungono, ma di assai maggior valore, le periochae di alcuni libri (XXXVII-XL; XLVIII-LV; LXXXVII-LXXXVIII) scoperte a Ossirinco nel 1903. Molti epitomatori (v. epitome) di storia romana attinsero largamente, e talora esclusivamente, a L.: Floro, Eutropio, Granio Liciniano, Rufio Festo, Giustino, Giulio Paride, Gennaro Nepoziano: la prima di queste epitomi risale alla fine del 1° sec. d. C. Altri attinsero larghissimamente a L. per opere particolari: Orosio, per i libri 4°-6° delle Historiae adversus paganos; Giulio Ossequente, per il suo Liber prodigiorum; Valerio Massimo, per buona parte dei suoi Factorum ac dictorum memorabilium libri IX. Grande il culto di L. nel Medioevo: Dante (Inf. XXVIII, 12), alludendo alle spoglie dei Romani prese dai Cartaginesi nella battaglia di Canne, dice "come Livïo scrive che non erra". Non minore fu la sua fama nell'Umanesimo e nel Rinascimento, a cui le storie di L. offrivano illustri esempî di virtù umane, quali artefici di alti destini. Petrarca si ispirò a Livio in larghe parti dell'Africa e del De viris e intervenne nella tradizione manoscritta, riunendo i libri della 1ª, 3ª e 4ª decade in un solo codice, che servì di base alle prime traduzioni in volgare, e sul quale Valla condusse le sue Emendationes in Livium. Sono noti di N. Machiavelli i Discorsi sopra la prima deca di T. Livio. La drammaticità del racconto liviano ispirò tragici d'ogni epoca, da Trissino a Corneille, ad Alfieri. La critica del sec. 19° ha demolito il mito dell'esattezza di L., ma nulla ha tolto alla nobiltà dei suoi ideali e alla sua potenza artistica.