Apprendimento
Il termine 'apprendimento' ha, nella ricerca psicologica attuale, almeno due accezioni: una ristretta e una estesa. Nell'accezione ristretta, che è circoscritta a un ambito teorico preciso, ci si riferisce alla tradizionale 'teoria dell'apprendimento' che si è sviluppata, in particolare fino agli anni sessanta, all'interno del comportamentismo. Nell'accezione estesa si intende per apprendimento qualsiasi modifica del comportamento di un qualsiasi organismo animale, non riportabile del tutto a risposte innate o a meccanismi di maturazione. In questo contributo si è scelto un punto di vista diverso da ambedue le accezioni: per quel che riguarda la prima si rinvia ad altro articolo (v. Comportamentismo), mentre rispetto alla seconda, si limita l'esposizione all'apprendimento che è specifico della specie umana, considerando nello stesso tempo come complementare la dimensione dello sviluppo verso modalità cognitive sempre più complesse.
Gli orientamenti teorici dominanti tra gli anni sessanta e gli anni ottanta hanno studiato meccanismi e processi di apprendimento alla luce di una teoria cognitivista generale, che considera l'uomo come un soggetto che trasforma, elabora, riduce, immagazzina, recupera l'informazione.
Un elemento fondamentale nei notevoli progressi che la psicologia ha compiuto a partire dagli anni sessanta, inventando paradigmi e investigando argomenti del tutto nuovi rispetto all'imperante tradizione comportamentista, è costituito dal riferimento al computer, che ha offerto - anche secondo i meno entusiasti quale Ulrich Neisser (v., 1976) - una potente analogia con i processi cognitivi umani, un vocabolario e un sistema di concetti, e ha reso così possibile una rappresentazione del funzionamento della mente attraverso la simulazione di alcuni processi: i computer infatti accettano informazioni, riconoscono patterns, immagazzinano e recuperano dati nella memoria, classificano elementi.La rivoluzione 'cognitivista' ha prodotto i suoi effetti più o meno diretti in tutti i settori in cui ha luogo l'apprendimento: tanto nei modi di intendere il rapporto con lo sviluppo del soggetto conoscente, quanto nelle connessioni con i contenuti propri della trasmissione sistematica della conoscenza mediata dal sistema formativo.
Per il primo aspetto, si supera progressivamente la contrapposizione classica tra sviluppo e apprendimento come processi radicalmente diversi. In una visione cumulativa della conoscenza, riducendosi lo sviluppo a un'accumulazione di registrazioni passive controllate dall'ambiente, non c'era posto per questioni evolutive, e la ricerca sull'apprendimento dei bambini era una semplice derivazione di quella sugli animali e sugli adulti. Una tale prospettiva poteva solo contrapporsi nettamente a un'impostazione genetica quale quella di Jean Piaget, per la quale il bambino svolge sempre un ruolo attivo nella costruzione della sua conoscenza, e ha sue particolari forme di pensiero e di ragionamento.
La psicologia cognitivista invece, recuperando la considerazione del carattere attivo del soggetto conoscente, dimostrato da J. S. Bruner per la percezione già negli anni cinquanta, e la scoperta della presenza nei bambini di strategie, regole, rappresentazioni, concetti, connessioni, conduce a vedere l'apprendimento in termini interattivi come compatibilità tra conoscenze preesistenti del soggetto e informazione ricevuta. Il risultato è che lo studio della dimensione evolutiva ha molti punti di convergenza con lo studio dell'apprendimento in generale: sia nelle modalità in cui avviene l'acquisizione, l'accesso mentale e l'uso della conoscenza, sia nei processi di 'transizione' - anche mediati da procedure di intervento - che spiegano il cambiamento cognitivo.
Per la relazione tra apprendimento e trasmissione della conoscenza, l'attenzione della ricerca non è più rivolta ai meccanismi di apprendimento indipendenti dal contesto, dal contenuto, dalla specie, dall'età (v. Brown e altri, 1983⁴), ma si assume, piuttosto, il difficile compito di studiare gli apprendimenti complessi in campi semanticamente ricchi e in specifici contesti. Proprio gli studiosi dell'intelligenza artificiale sono stati i più pronti a occuparsi di argomenti 'molari' rispetto alle prospettive molecolari proprie della psicologia sperimentale della memoria e dell'apprendimento, utilizzando modalità che vanno dall'alto verso il basso (top-down), cioè ipotizzando e attivando schemi, quadri di riferimento, strutture, contesti, ecc.
Nel seguito si illustreranno i contributi più significativi della ricerca sull'apprendimento nelle due direzioni indicate: cioè in rapporto ai processi di sviluppo e in rapporto all'acquisizione di complesse strutture e procedure di conoscenza, proprie delle discipline di ricerca. Queste due direzioni non sono sempre nettamente distinguibili perché spesso condividono gli argomenti di studio e si diversificano più per l'accentuazione del 'conoscere' o dell"intervenire', che per il contenuto. Comunque, lo studio di tipi di apprendimento reali e significativi conduce ad attribuire una centralità sperimentale ai settori classici dell'apprendimento e dell'insegnamento scolastico: la risoluzione di problemi di matematica e geometria, le strategie di calcolo, la concettualizzazione scientifica, le procedure per comprendere e 'apprendere dal testo', il controllo del processo di produzione scritta, diventano tutti argomenti della ricerca di base. Inoltre, sia per evitare l"obsolescenza sperimentale' tipica di compiti elementari e artificiali da laboratorio, sia per tener conto della 'validità ecologica' (v. Neisser, 1976), si è sviluppata una direzione di studi più 'naturalistica', legata alla cultura e alla complessità, e relativa alla everyday cognition: a quell'insieme di conoscenze, non esplicitamente trasmesse ma profondamente radicate, su cui si basa il vivere quotidiano.
Anche se si condivide l'osservazione di David Hawkins (v., 1972) che una concezione dello sviluppo psicologico nasconde dietro la metafora biologica proprio quello che dovrebbe spiegare, e anche se ci interessa qui l'apprendimento umano come componente essenziale della trasmissione culturale, non si può evitare di far riferimento alla massima teorizzazione sistematica dello sviluppo cognitivo, che è quella operata da Jean Piaget e dalla sua scuola lungo sessant'anni di attività e con la produzione di centinaia di libri e saggi. Sebbene scopo della ricerca di Piaget fosse essenzialmente quello di esplorare in termini logici e filosofici i modi in cui le strutture cognitive si sviluppano verso forme sempre più sofisticate - da cui deriva la definizione della sua teoria come una 'epistemologia genetica' (v. Piaget, 1963) - il punto d'arrivo è una teoria dello sviluppo cognitivo in cui è illustrata e spiegata l'evoluzione del comportamento intelligente dell'individuo.Il sistema cognitivo dell'uomo - che è visto come soggetto epistemico universale e di cui non si considerano le variazioni individuali e culturali - si sviluppa fin dalla nascita in forme sempre più complesse ma senza discontinuità rispetto al processo puramente biologico dell'adattamento all'ambiente. Le dimensioni fondamentali dello sviluppo sono distinte in funzioni invarianti e strutture variabili.
La prima funzione invariante, che rivela la formazione biologica di Piaget, è l'adattamento che si articola in assimilazione e accomodamento: successivamente vi si aggiunge l'equilibrazione (v. Piaget, 1975) con il meccanismo del~l"astrazione riflettente'. Qualsiasi funzionamento cognitivo implica i due processi complementari di assimilazione e di accomodamento: con il primo avviene l'incorporazione di elementi esterni compatibili con gli schemi sensomotori e concettuali di cui dispone il soggetto, mentre con il secondo gli schemi vengono progressivamente 'accomodati', cioè trasformati in funzione dell'interazione del soggetto con la realtà fisica e culturale. Gli schemi tendono quindi a 'nutrirsi' dei nuovi elementi, e sono fonte di motivazione intrinseca, come risulta dall'uso persistente che ne fa il bambino e che porta al loro accomodamento.
Più complesso è il modo in cui interviene l'equilibrazione, che è di tipo diverso in relazione all'ampiezza delle alterazioni richieste dall'accomodamento: quando questo fallisce, il meccanismo di equilibrazione porta a una struttura cognitiva completamente nuova, a uno stato qualitativamente superiore di equilibrio cognitivo. Nonostante la relativa oscurità dei meccanismi di equilibrazione e di astrazione riflettente che dovrebbero spiegare il passaggio da uno schema all'altro, l'idea piagetiana che la conoscenza si modifica per effetto di problemi e informazioni che non possono essere integrati negli schemi cognitivi esistenti è ripresa da molte teorie, come sottolineano Rochel Gelman e René Baillargeon (v., 1983⁴).
L'altro elemento costitutivo della teoria piagetiana è dato dalle strutture cognitive come strutture variabili, inferite dai contenuti specifici come proprietà comuni degli atti intelligenti di un dato stadio di crescita mentale: strutture astratte, generali e formalizzabili, che si ritrovano nei comportamenti di ragionamento e di soluzione di problemi di bambini, ragazzi, adulti. Lo sviluppo è visto come sviluppo di strutture, con una concezione che - come dice Lydia Tornatore (v., 1974) nella sua fondamentale analisi critico-storica dell'educazione cognitiva - supera i limiti dello 'sviluppo senza strutture' (e quindi per accumulazione quantitativa) proprio del comportamentismo, e delle 'strutture senza sviluppo' proposte dalla teoria gestaltista. Le strutture sono sistemi organizzati di operazioni, sono 'strutture di insieme' di un tutto che ha una sua organizzazione e ha la forma di un 'gruppo' matematico quando ha raggiunto il massimo livello di sviluppo proprio del pensiero operatorio formale: un insieme cioè i cui elementi sono operazioni e che consente il ritorno al punto di partenza (la reversibilità completa).I sistemi organizzati e integrati di azioni e di operazioni corrispondono agli stadi dello sviluppo cognitivo, che riflettono cambiamenti qualitativi nel contenuto e nella struttura cognitiva non riportabili ad aumenti quantitativi di conoscenze, e ordinati in una sequenza universalmente invariante, perché la progressione interna è garantita sul piano logico e le strutture più primitive sono incluse gerarchicamente in quelle successive: gli stadi o periodi di sviluppo indicano l'apparizione delle strutture variabili costruite dal soggetto in successione. (Oltre alle opere di Piaget, v. il classico commento di J. Flavell, 1963).
La concezione degli stadi piagetiani, pur costituendo la parte più conosciuta della sua teoria, è forse anche la più caduca. È stata messa in questione da vari apporti di ricerca, tra i quali ricordiamo: a) le prove continue delle inaspettate competenze del bambino definito 'pre-operatorio', rivelate, fra gli altri, dagli studi di Margaret Donaldson e collaboratori (v. Donaldson, 1978) sulla nozione di conservazione, sul numero, sul disegno, sulle abilità spaziali; b) le particolarità evolutive proprie di specifici domini di conoscenza, di cui diventa più informativo ricostruire l'evoluzione interna, piuttosto che ricercare una modalità generale di funzionamento del soggetto che non trova riscontro nella realtà; c) la messa in questione del quarto stadio, per la mancata padronanza del pensiero formale da parte della maggioranza della popolazione adulta, per la forte influenza di variabili culturali (è il modo di ragionare tipico di un pensiero scientifico formalizzato) e per l'effetto del 'contenuto' sul 'modo' di pensare, in quanto anche adolescenti e adulti sono capaci di ragionamento ipotetico-deduttivo solo all'interno dei campi di cui hanno esperienza professionale o conoscenza specialistica.
L'opposizione maggiore alla teoria piagetiana comunque si registra da parte della ricerca attuale sullo sviluppo della memoria, del ragionamento, della comprensione - con riferimento all'acquisizione di strategie, procedure e conoscenze - che non accetta il carattere essenzialmente logico, formale e universale che Piaget attribuisce alle strutture cognitive, e non le considera più utili a spiegare le acquisizioni di conoscenza nei più diversi domini cognitivi.
Una revisione profonda della teoria piagetiana è offerta da una linea di ricerca che si denomina neopiagetiana - iniziata da Juan Pascual-Leone ed elaborata soprattutto da Robbie Case (v., 1980) - e che si basa su una più ampia specificazione della nozione piagetiana di schema e aspira a dar conto dei cambiamenti delle strutture utilizzando il costrutto della psicologia cognitivista dei limiti nella capienza della memoria di lavoro, modificabili da fattori di esperienza, di familiarità e di contesto. Vengono quindi specificati e analizzati gli schemi che corrispondono a unità funzionali organizzate, a chunks d'informazione che riducono gli elementi da elaborare, e a schemi operativi ed esecutivi (regole, procedure e piani attivabili nella soluzione di problemi). È essenziale sia il repertorio di schemi, sia il massimo numero di schemi che il soggetto è capace di attivare nello stesso tempo.
Ciò dipende dallo 'spazio' della memoria di lavoro, dalla capacità M che, secondo Pascual-Leone, aumenta linearmente con l'età, mentre, secondo Case, non cambia strutturalmente ma solo funzionalmente: la crescente familiarità con le operazioni intellettuali, il loro automatizzarsi, l'aggregarsi dell'informazione in unità significative - prodotti anche dall'istruzione - riducono le richieste che una strategia risolutiva pone alla memoria di lavoro.In conclusione, dal punto di vista dell'acquisizione di conoscenza il contributo più interessante della prospettiva piagetiana non è reperibile tanto nelle ricerche che hanno concepito l'apprendimento nei termini di una 'accelerazione' dei processi di sviluppo, quanto in quelle che hanno mantenuto una prospettiva psicogenetica nello studiare la storia della costruzione e della ricostruzione che il bambino fa di oggetti culturali presenti nel suo ambiente. Emblematiche in questo senso le ricerche sulla costruzione della lingua scritta nel bambino in diversi contesti culturali e linguistici (v. Ferreiro e Teberosky, 1979; v. Formisano e altri, 1986), da cui è emerso che il bambino costruisce ipotesi autonome e coerenti sul sistema di scrittura e che su questa base è in grado di interagire positivamente con l'insegnamento successivo.
È stato dimostrato da più ricercatori che esiste con il crescere dell'età uno sviluppo delle strategie di soluzione di problemi e di uso della memoria, strategie che divengono più coerenti, più stabili, più flessibili nel passaggio da una situazione all'altra. In generale, si può intendere per strategia una sequenza di operazioni per risolvere problemi, per acquisire e connettere informazioni, per recuperarle quando necessario. È un campo di studio molto articolato, che è stato avviato da ricerche che hanno rivalutato le competenze del bambino definito pre-operatorio, prevalentemente considerato, nell'ottica piagetiana, pre-logico, pre-causale, incapace di pianificazione in compiti di apprendimento e di memoria. Si è scoperto, invece, che - molto prima di quel mutamento cognitivo rilevato da molti autori tra i 5 e i 7 anni, e da alcuni (v. Donaldson, 1978) decisamente attribuito all'effetto cognitivo della scolarizzazione - già a 3 anni i bambini hanno comportamenti strategici in compiti che richiedono pianificazione, abilità di comunicazione, modalità efficaci per ricordare e per ricercare in modo conseguente. A quell'età risultano però molto sensibili alla familiarità del setting (ad esempio, i bambini mostrano chiari segni di pianificazione solo nei contesti non familiari), alle modalità di presentazione del compito, alla significatività della richiesta, alle conoscenze di cui dispongono.
Comunque, la presenza di strategie anche nel bambino piccolo e il progredire continuo verso forme più efficaci di organizzazione delle conoscenze e di aggregazione delle informazioni, che rende più economico l'accumularsi delle esperienze riducendo lo spazio necessario a contenerle nella memoria di lavoro, portano gli studiosi a concordare che "non esistono prove che dopo la prima infanzia abbiano luogo dei cambiamenti maturativi nelle caratteristiche delle componenti strutturali del 'sistema per l'elaborazione delle informazioni' ", come dice Anna Emilia Berti (v. Berti e Bombi, 1985, p. 126).È oggetto di dibattito e di ricerca stabilire a che cosa esattamente possano essere riportate le notevoli differenze tra adulti e bambini e tra bambini di diversa età, differenze che comunque si riscontrano in prove che richiedono codifica e acquisizione delle informazioni, memoria, ragionamento: le correnti cognitiviste tendono a sostenere che il fattore essenziale è la variazione nella qualità, quantità e organizzazione delle conoscenze. Per chiarire questo aspetto è indispensabile riferirsi alle modalità della concettualizzazione infantile e ai modi in cui oggi si concepisce, nel rapporto tra linguaggio e pensiero, la concettualizzazione adulta.
Il linguaggio, come strumento progressivamente padroneggiato dal bambino, è anche un potente mezzo di comunicazione, precipitato di una cultura e portatore di modi peculiari di categorizzare la realtà.Un'impostazione attuale delle questioni relative alla prima concettualizzazione e al formarsi del pensiero categoriale nel bambino è quella di Katherine Nelson (v., 1986) che, in un notevole numero di studi, ha mostrato come avviene l'interazione tra il linguaggio usato dagli adulti con cui il bambino vive e la prima concettualizzazione pre-linguistica del mondo. Quest'ultima è caratterizzata da rappresentazioni di eventi ricorrenti (ad esempio, vestirsi per uscire) che specificano relazioni tra azioni, oggetti e attori, come pure scopi, sequenze temporali, relazioni causali: il variare dei singoli elementi che occupano tutti la stessa posizione funzionale (ad esempio, ci si può mettere il cappotto, la giacca, il cappello o i guanti) porta alla costruzione di una casella 'aperta' nella struttura di un evento, e insieme a un raggruppamento di elementi che, essendo diversi per altri aspetti, condividono un ruolo funzionale nell'ambito di un contesto (in questo caso sono i vestiti).
Sono pertanto generalizzazioni all'interno di una conoscenza di scripts (v. Schank e Abelson, 1977), cioè di una conoscenza costituita da sequenze spazio-temporali di azioni concatenate e contestualizzate. È possibile cogliere somiglianze e differenze tra generalizzazioni infantili e categorie superordinate presenti nel linguaggio e utilizzate dagli adulti: solo le ultime sono indipendenti dal contesto generale, ma sia le une che le altre si riferiscono a ruoli funzionali, sono astrazioni dal mondo reale, sono denominate diversamente dagli elementi che le costituiscono (e ciò consente di stabilire una relazione semantica di tipo gerarchico). L'acquisizione della categorizzazione gerarchica è possibile perché l'uso del linguaggio da parte degli adulti in contesti significativi fa scoprire al bambino la categoria più generale e la relazione di inclusione: ciò lo conduce a una ri-organizzazione concettuale mediata dalla rappresentazione semantica.Questa attenzione per i modi in cui, attraverso la mediazione del linguaggio, avviene il passaggio a un'organizzazione concettuale di tipo tassonomico non vuol dire che si riconosca in quest'ultima l'unica modalità adulta di organizzazione della conoscenza. Anzi è stato dimostrato da vari ricercatori quanto hanno di 'schematico' più che di 'tassonomico' le nostre conoscenze quando si riferiscono a routines quotidiane, eventi sociali, resoconti, disposizioni spaziali e itinerari: è assai più facile ricordare un'informazione raggruppabile in schemi (situazioni, contesti, eventi) piuttosto che in categorie tassonomiche.
Le teorie che si riferiscono a schemi sono essenzialmente centrate su come è rappresentabile una conoscenza e su come ciò può facilitare la sua utilizzazione: ma sono anche teorie dell'organizzazione concettuale che consentono di rappresentare configurazioni di elementi e tipi diversi di relazioni che li legano (incluse quelle di superordinazione). Gli schemi sono insiemi organizzati che possono determinare strutture di aspettative, modi privilegiati di codificare l'informazione. Le diverse possibilità di trasformazione degli schemi (v. Rumelhart e Norman, 1978) corrispondono a tre tipi diversi di apprendimento: l'apprendimento per accrescimento, quando si accumulano nello schema nuovi elementi; la 'modulazione' dello schema che procede verso un maggior grado di accuratezza, specificità, generalizzazione; la ristrutturazione dello schema, quando le nuove informazioni non sono compatibili con lo schema stesso.
Un secondo tipo di rappresentazione della conoscenza è costituito dal prototipo. Il prototipo è il caso più rappresentativo di un concetto: corrisponde alla tendenza centrale di una serie di esempi di un concetto, che vengono presentati ad hoc in situazioni di laboratorio o che si incontrano nella vita quotidiana.
Gli studi di M. J. Posner della fine degli anni sessanta (presentati in Boscolo, 1983) hanno permesso di verificare - con delle semplici configurazioni di punti - come si forma lo schema del prototipo, anche se quest'ultimo non viene mai effettivamente presentato ai soggetti. Successivamente, in una serie articolata di lavori, Eleanor Rosch con i suoi collaboratori (v. Rosch e Mervis, 1975) ha mostrato come anche molte categorie 'naturali' - in quanto non artificiali ma riferibili a oggetti del mondo quotidiano - sono internamente strutturate intorno a un prototipo che è il caso più rappresentativo della categoria, quello che è giudicato dai soggetti come avente il massimo grado di appartenenza.Il grado di appartenenza di un esemplare a una categoria influenza i processi di ricerca e di recupero dalla memoria.
Prove diverse di elaborazione semantica hanno confermato l'ipotesi che il prototipo è il termine più 'sostituibile' rispetto alla categoria a cui appartiene, come pure quello che funziona come punto di riferimento. Inoltre principî organizzativi comuni presiedono alla formazione di categorie che si collocano a diversi livelli di inclusività in una categorizzazione tassonomica: questi livelli si distinguono per la presenza relativa e differenziata del principio dell'economia cognitiva (massimamente presente nelle categorie più generali e più inclusive, quale 'veicolo' o 'animale') e dell'aderenza alla struttura del mondo reale (massimamente presente nei concetti più concreti, quali quello di 'fuoristrada' o di 'canelupo').
Il livello che consente al soggetto di ottenere il massimo di informazione con il minimo sforzo cognitivo è quello 'di base', relativo ai basic objects: è il livello più utilizzato dai soggetti, quello per il quale si è in grado di produrre un maggior numero di attributi e di sequenze coordinate di movimenti, e per il quale esiste una maggiore somiglianza e identificabilità di forme.
Come osserva Boscolo (v., 1983, p. 156), il contributo innovativo della Rosch allo studio psicologico dei concetti è evidente: "Il deciso rivolgersi ai concetti 'naturali', il cogliere e sviluppare i nessi con la filosofia del linguaggio e la psicolinguistica da un lato, e con la ricerca interculturale dall'altro, costituiscono indubbiamente una svolta nell'indagine sui processi di concettualizzazione". Ci si può chiedere se le modalità organizzative prima descritte si possano ritrovare in concetti ad alto livello di astrazione (quali ad esempio: opera d'arte, legge, guadagno, energia, massa). Neisser ha utilizzato la teoria del prototipo per analizzare il concetto di 'persona intelligente', che è un tipico concetto sfumato, i cui confini sono indeterminati. Seguendo le linee teoriche prima indicate, Hampton (v., 1981) ha investigato concetti astratti e ha mostrato che è possibile anche per questi ritrovare - all'interno di una cultura e in un certo momento storico - dei prototipi condivisi intorno a cui si strutturano le conoscenze.
Più complessa e assai meno esplorata è l'area dei concetti che si definiscono all'interno di un quadro disciplinare. La psicologia cognitivista vi ha contribuito studiando l'effetto che quantità, qualità e organizzazione interna delle conoscenze hanno sulle capacità di categorizzazione, di ragionamento, di acquisizione di nuove informazioni.In alcuni studi fondamentali Michelene Chi ha confrontato situazioni in cui i soggetti si differenziavano nettamente per la quantità e la qualità delle conoscenze disponibili: bambini esperti in scacchi versus adulti inesperti danno prestazioni significativamente migliori nelle prove di memoria delle configurazioni del gioco, così come si differenziano nettamente le procedure di ragionamento e di categorizzazione di bambini (prescolari) in funzione della loro competenza nel campo dei dinosauri. Pertanto, pur non negando l'importanza dello sviluppo delle strategie per spiegare differenze di tipo evolutivo, si dimostra l'esistenza di differenze dovute alla conoscenza del contenuto, nel senso che ciò che conta è "il modo in cui questa conoscenza è strutturata" (v. Chi e Ceci, 1987, p. 115).
Si studiano perciò le strutture delle rappresentazioni, le differenze tra strutture di soggetti diversi per età o per competenza, e i modi con cui la struttura influenza l'elaborazione dell'informazione.
Un'applicazione di questa impostazione è reperibile in una ricerca della Chi (v., 1986) che reinterpreta la nozione di 'mancanza di accesso' alle conoscenze di cui dispone un soggetto, riferendosi ai modi in cui la conoscenza è rappresentata nel sistema conoscitivo dello stesso. In altri termini, la conoscenza non è 'accessibile' - cioè non è recuperabile in memoria anche se è presente - perché non è adeguatamente organizzata. L'autrice dimostra - utilizzando studi sull'animismo infantile che hanno ottenuto risultati del tutto divergenti - che le grandi differenze nei risultati sono dovute alle diverse conoscenze sondate dalle situazioni di prova; si tratta di conoscenze separate, incapsulate in 'microstrutture' che presentano più o meno nessi tra di loro. Le risposte dipendono dal nodo concettuale attivato in memoria e la loro coerenza dal grado di connessione fra loro delle microstrutture.In conclusione, da questa come da altre ricerche risultano essenziali i modi in cui il singolo soggetto si struttura, nella memoria a lungo termine, la rappresentazione di una data area di conoscenza. Ed è ormai acquisito che le rappresentazioni si arricchiscono per l'acquisizione di nuovi elementi informativi che vengono collegati tra loro in reti sempre più complesse, in cui non solo aumentano le connessioni tra elementi o settori prima separati, ma anche cambiano i livelli di generalità o i tipi di connessione precedentemente attivati.
Abbiamo parlato di alcuni dei modi in cui si interpreta oggi il rapporto tra linguaggio e pensiero nell'acquisizione dei concetti. Qual è il ruolo del linguaggio nella costruzione e trasmissione della conoscenza che avviene nel contesto scolastico? Al riguardo le posizioni sono molto diverse a seconda di quanto e come venga riconosciuto questo ruolo. Riconoscere il ruolo del linguaggio significa riconoscere anche quello dell'interazione sociale: non solo perché questa è alla base del primo formarsi del linguaggio, come mostrano recenti indirizzi di ricerca, ma perché lo scambio sociale - in modo particolare quello che avviene in situazioni di insegnamento/apprendimento - è sempre mediato da forme diverse di linguaggio o se si preferisce di interazione verbale.
In Piaget il fattore determinante nello sviluppo del pensiero è dato dalla coordinazione reversibile delle azioni che è la radice comune delle operazioni della ragione e delle cooperazioni interindividuali: né il discorso né lo scambio sociale sono considerati fattori importanti nello sviluppo. La fase dello sviluppo caratterizzata dall'acquisizione del linguaggio è non a caso definita al negativo come 'pre-operatoria': si assume che lo sviluppo della rappresentazione non aggiunga elementi determinanti allo sviluppo cognitivo e viene trascurato il rapporto che si stabilisce con i sistemi simbolici elaborati dalla cultura (lingua scritta, disegno, musica) che altri autori - ad esempio David Olson con l'attenzione ai media e Howard Gardner con la sua tesi delle 'intelligenze multiple' - considerano fondamentale.
La posizione di Vygotskij va ricordata non solo per l'attualità della sua teoria (pur se formulata negli anni trenta), ma anche per gli sviluppi che ha di recente ricevuto nella corrente neovygotskiana, soprattutto statunitense (v. Wertsch, 1985), da cui scaturiscono ricerche di grande rilevanza per l'apprendimento scolastico.Il meccanismo essenziale dello sviluppo è dato, secondo Vygotskij (v., 1960), dal passaggio graduale dal sociale all'individuale, dal funzionamento interpersonale a quello intrapsicologico: in questo passaggio avviene l'interiorizzazione delle funzioni psichiche superiori, che si manifestano prima nello scambio sociale e poi nel singolo soggetto. Lo sviluppo, che è sempre anche apprendimento, è un processo di appropriazione di esperienze sociali preesistenti, cristallizzate in forme molteplici, quali possono essere sistemi di strumenti, di oggetti prodotti, di segni.
Trasmissione della cultura e insegnamento sistematico 'precedono' lo sviluppo, focalizzano l'attenzione e le risorse mentali del bambino, operano sulla sua 'zona di sviluppo prossimale', definita come la distanza tra ciò che riesce a fare da solo e ciò che è in grado di capire e/o di risolvere con l'aiuto di un adulto o di un compagno più competente: il che consente anche di pervenire a una misura non più statica ma dinamica dell'intelligenza. Così la 'mediazione semiotica', offerta dal linguaggio che l'adulto usa con il bambino piccolo sulla base di un referente comune (e non ancora di un significato) in una situazione contestualizzata, può essere il modello dell'interazione linguistica e sociale che si stabilisce tra insegnante e allievi, e tra allievi con diversa competenza. In questo quadro teorico si possono identificare due direzioni, ambedue rilevanti dal punto di vista educativo: una 'sociale', che evidenzia il ruolo dell'altro nella costruzione della conoscenza individuale, e una 'linguistica', relativa al passaggio dal linguaggio per gli altri al linguaggio per sé, e alla successiva disponibilità di un metalinguaggio.
Lo studio del ruolo delle relazioni sociali nell'apprendimento ha contribuito a chiarire i modi in cui l'intervento dell'adulto (genitore o insegnante) può servire a 'sostenere' l'attività cognitiva del bambino: tipiche in questo senso le ricerche sulla funzione del tutoring (cioè sui modi in cui è possibile che madri più o meno competenti sollecitino e sostengano nei bambini la capacità di risolvere problemi) e quelle che hanno focalizzato lo scaffolding, cioè la costruzione da parte dell'adulto di una impalcatura di sostegno che serve a guidare il meno competente verso la soluzione del problema (v. Wood e altri, 1976). Nella stessa linea teorica - anche se con l'uso di paradigmi diversi - si muovono gli studi sperimentali di Forman e Cazden (v., 1985) che hanno mostrato l'effetto positivo dell'aiuto reciproco - oltre che dell'opposizione di punti di vista - in coppie di ragazzi che in più sedute dovevano riuscire in un compito di origine piagetiana di separazione di variabili.
Queste ricerche sono assai diverse per i contesti di studio e per le situazioni presentate, ma hanno in comune, in termini molto generali, il riconoscimento della facilitazione sociale all'apprendimento, costituita dalla presenza e dall'attività non casuale di altri (adulto o compagni) in genere più competenti. Il problema a cui si cerca di rispondere è che cosa spiega il cambiamento: l'apprendimento di abilità o conoscenze risulta attivato dal 'sostegno sociale', che può assumere la forma dell'opposizione e del conflitto cognitivo, ma anche quella del tutoring o della costruzione delle conoscenze. Il categorizzare questi diversi tipi di interazione sociale come facilitazione consente di superare una contrapposizione di paradigmi (v. Pontecorvo, 1986). In questa prospettiva rientrano anche le originali ricerche di Perret-Clermont (v., 1980) e di Doise e Mugny (v., 1981) che hanno mostrato come le prestazioni di bambini pre-operatori (in particolare 'non conservatori', cioè che non hanno ancora la nozione di conservazione della quantità o di altro) migliorano dopo che hanno lavorato al compito con altri bambini che, anche se non di livello superiore, hanno però 'centrazioni' opposte alle loro (cioè sbagliano ma nell'altro senso o comunque in modi molto diversi). Il cambiamento viene spiegato in termini di conflitto socio-cognitivo, in quanto il soggetto si trova nel gruppo di fronte a risposte conflittuali che hanno bisogno di essere coordinate e ristrutturate in uno schema diverso: la presenza del punto di vista dell'altro destabilizza lo schema di risposta e di interpretazione del soggetto perché lo 'costringe' a tener conto di qualcosa che non rientra in quello schema. In altri termini, il confronto 'sociale' dei punti di vista attiva un meccanismo di conflitto cognitivo che è interno al soggetto e che produce il cambiamento.
Ricerche più recenti, fra cui quelle riportate da Paul Light (v., 1986), mostrano che gli effetti cognitivi si producono se il conflitto dà origine a giustificazioni articolate, il che avviene maggiormente a un livello medio di opposizione. Questo risultato concorda con quelli degli studi sperimentali sul cooperative learning (v. Slavin, 1983), che sono centrati sulla dimensione motivazionale (il gruppo è valutato sulla base dei risultati dei singoli individui che lo compongono) e che pure hanno riscontrato che gli allievi che imparano di più sono quelli che producono o ricevono spiegazioni più elaborate.
Si ritorna quindi, in ambedue i casi, a una mediazione di tipo linguistico e socio-cognitivo in cui è in gioco un linguaggio per presentare la propria posizione, per convincere gli altri, per controbattere le loro affermazioni. Di qui il ruolo determinante dello scettico, di colui che non si lascia facilmente convincere e che ribatte, spingendo così il discorso verso un livello più alto di elaborazione argomentativa (v. Pontecorvo, 1985): è infatti possibile considerare l'interazione come un ragionamento collettivo che si muove a vari livelli di complessità e di articolazione in relazione a sequenze discorsive che si ritrovano in modo costante (v. Orsolini e Pontecorvo, 1988). Ma è anche necessario considerare le variazioni argomentative dovute sia a diversi stili individuali (e/o a dimensioni evolutive), sia a differenze dovute al variare del contenuto di conoscenza, del compito specifico, dell'oggetto di apprendimento: emerge dalla ricerca la diversità dell'interazione produttiva se è in gioco l'acquisizione di una strategia (di una sequenza di azioni o di operazioni) oppure l'articolazione di una rappresentazione concettuale (o l'interpretazione di un fenomeno).
Lo studio dei processi cognitivi - intrapreso vigorosamente dalla psicologia cognitivista seguendo il paradigma dello human information processing - ha condotto a prendere in considerazione le modalità di elaborazione dell'informazione in ambiti di conoscenza diversi. Lo studio della conoscenza come cognition (vista così nei suoi aspetti processuali) ha cominciato a prendere sempre più in considerazione anche la conoscenza come knowledge, cioè come sapere, come campo di studio disciplinarmente definito. La caratteristica generale di questo tipo di ricerca è di essere centrata sui processi di acquisizione e costruzione della conoscenza in ambiti disciplinari specifici e di mirare ad analisi accurate dei processi mentali e delle strutture conoscitive coinvolte: cioè rende possibile concettualizzare l'istruzione in termini di facilitazione dell'apprendimento.
A metodi di insegnamento non fondati teoricamente, e derivati da una pratica poco criticamente analizzata, si sostituiscono procedure, strategie e curricoli - cioè selezioni accurate di argomenti e di metodi - che riflettono gli esiti della ricerca sulle modalità di organizzazione e rappresentazione delle conoscenze, sui meccanismi del cambiamento concettuale, sulle richieste cognitive che la natura del contenuto e del compito pone a colui che impara. È il campo di una psicologia dell'istruzione, di matrice cognitivista, caratterizzata dall'individuazione dei rapporti tra conoscenza e istruzione.
Nell'ambito di questa psicologia dell'istruzione è centrale la distinzione tra tre essenziali tipi di conoscenza che possono essere ritrovati nelle diverse aree: la conoscenza dichiarativa, la conoscenza procedurale, la metaconoscenza o metacognizione. Presupposto teorico è un modello di funzionamento mentale in cui si distingue tra contenuti rappresentativi, schemi procedurali, schemi che regolano e controllano le procedure. Si distingue pertanto tra struttura e funzione: la struttura si riferisce ai sistemi di memoria a breve e a lungo termine, ma anche a schemi, scripts, categorie; la funzione riguarda invece le modalità di codifica, di elaborazione, di recupero dell'informazione e include la metamemoria.La conoscenza dichiarativa si articola, come abbiamo visto, in concettualizzazioni, rappresentazioni, relazioni: nelle discipline specifiche si configura in riferimento a fenomeni, concetti, teorie che le caratterizzano, e alla particolare organizzazione che i contenuti da conoscere possono assumere nella mente dell'allievo anche in funzione di mutamenti epistemologici e storico-culturali. La conoscenza di tipo procedurale, che è sempre riferita a un campo specifico, è costituita da processi che sono messi in gioco quando si ricevono nuove informazioni, si utilizzano in contesti diversi le informazioni preesistenti, si risolvono problemi. Il controllo delle procedure, che costituisce la componente 'metacognitiva' del conoscere, è esercitato da quelle attività con cui il soggetto valuta e riflette sull'adeguatezza tra i processi che sta mettendo in atto e le richieste e gli scopi del compito o dell'attività che sta eseguendo.
I tre tipi di conoscenza non sono facilmente separabili quando l'individuo apprende: il che avviene non solo quando si fa un esercizio di matematica a scuola, ma anche quando ci si orienta in una nuova città, si legge un romanzo, si cerca di prendere il vento in barca a vela. L'apprendimento può essere considerato come un 'sottoprodotto' della più generale attività cognitiva che ha luogo continuamente: poiché coinvolge in ogni caso l'utilizzazione di conoscenze e abilità precedentemente acquisite, si tratta sempre di un transfer, cioè dell'uso in un contesto nuovo di strutture e processi già presenti. Alcuni ricercatori propongono il modello generale del problem solving per spiegare l'attività cognitiva degli individui in situazioni e contesti diversi. In particolare, di fronte a problemi 'mal strutturati' (v. Voss, 1987), per i quali non c'è una soluzione condivisa dagli esperti del campo, come sono quelli delle scienze sociali (ma anche della letteratura, dell'arte, della vita quotidiana), anche l'esperto non ha mai in memoria un'informazione adeguata a cui riferirsi e tenta di costruirsi una rappresentazione del problema utilizzando analogie, schemi, prototipi disponibili. È una situazione di problem solving quella di chi legge e vuole capire un testo, e ancor più quella di chi vuole apprendere dal testo: la rappresentazione dell'informazione che è nel testo è basata sulla precedente conoscenza dell'argomento ed è un passo necessario per l'apprendimento, cioè per l'integrazione di ciò che è nel testo con ciò che è già conosciuto. Per questo chi sa di più è in grado di elaborare maggiormente l'informazione che riceve.
Le situazioni di problem solving - intese in senso lato - sono considerate come le più adeguate per capire quali sono i processi, messi in atto felicemente dagli esperti di un campo disciplinare, che costituiscono invece ostacoli cognitivi per i 'novizi'. Il confronto tra le procedure usate dagli uni e dagli altri ha portato a identificare i diversi aspetti per cui i due gruppi differiscono: gli esperti infatti hanno più conoscenze; queste sono organizzate e integrate in modo più coerente ed economico, e sono pertanto anche più facilmente 'accessibili' in memoria; essi dispongono anche di strategie metacognitive, cioè capacità di ragionare sul proprio ragionamento, di verificare e rivedere la propria comprensione, e di riflettere sulla pianificazione della propria procedura. Ciò può essere indipendente dall'età: bambini piccoli, esperti di dinosauri, sanno categorizzare esemplari non conosciuti usando pochi tratti salienti, perché dispongono di una struttura coerente in cui i concetti chiave collegano attributi diversi.
Dal punto di vista dell'insegnamento il confronto esperti-novizi, utilizzato soprattutto nell'ambito delle scienze fisico-naturali e solo più di recente anche nelle scienze sociali, ha messo in evidenza due aspetti: la necessità di rendere l'allievo capace di metaconoscenza (dato il rilievo che ciò ha nel ragionamento dell'esperto) e insieme quella di rendere 'visibili' le strategie che usa l'esperto.La ricerca sugli apprendimenti scientifici ha inoltre messo in rilievo in quali modi particolari gli studenti si costruiscono le loro concezioni dei fenomeni scientifici. Tali concezioni - dette intuitive, alternative, di senso comune, o anche misconceptions - già esplorate dalle indagini piagetiane (prevalentemente su concetti fisici e matematici) e attribuite solo ai bambini che non hanno ancora raggiunto lo stadio del pensiero formale, risultano invece essere condivise dalla grande maggioranza degli adulti non specialisti. Esse sono logicamente coerenti e persistenti, anche dopo l'insegnamento, e sono spesso costruite sulla base dell'esperienza personale utilizzando un ragionamento di tipo analogico: l'idea, largamente condivisa, che un oggetto più pesante di un altro dello stesso volume sposta più acqua è derivata dal fatto che il peso influenza il movimento di oggetti sul piano inclinato.
Questi 'schemi alternativi' sono stati ritrovati per diversi aspetti della meccanica, per l'elettricità (che è concepita come un liquido), per la rappresentazione della Terra e della gravità, per la luce (v. Vicentini Missoni, 1983). L'universalità di queste concezioni - ritrovate in diversi contesti culturali e lungo tutto l'arco della vita umana - e il loro limitato numero rispetto a quelle teoricamente possibili possono essere spiegati in rapporto al processo di acquisizione: se le informazioni scientifiche sono eccessive e sovraccaricano la memoria di lavoro, il soggetto elabora solo quello che può, usa un pensiero analogico e utilizza gli esempi che gli sono offerti (più che le proposizioni teoriche generali) tendendo a generalizzarli eccessivamente. L'informazione scientifica, impartita dalla scuola e dall'università, è assimilata alle strutture conoscitive, agli schemi mentali di cui dispone lo studente e che vengono poco modificati dall'insegnamento. Sarebbe per converso utile insegnare a usare correttamente la generalizzazione e l'analogia e a valutare criticamente l'isomorfismo tra problemi.
La persistenza delle concezioni intuitive è stata mostrata da molte ricerche, anche italiane: adulti e bambini non modificano le loro concezioni attraverso l'esperienza diretta, ma cercano giustificazioni per il dato discrepante che non può essere inserito nel loro schema (v. Pontecorvo e Pontecorvo, 1986). Piuttosto cambiano - come dice I. Lakatos per la storia della scienza - la "cintura protettiva delle idee", gli aspetti marginali, per difendere e non modificare il 'nocciolo duro' delle loro concezioni.Spesso gli ostacoli epistemologici (come dice Gaston Bachelard) presenti nella storia della scienza corrispondono alle difficoltà cognitive proprie del pensiero dell'uomo comune (e dello studente) di oggi: l'evoluzione storica della scienza può aiutare a interpretare i modelli sottostanti gli schemi alternativi degli studenti e a trovare modalità adeguate per il loro superamento.
Resta più problematica la questione dei modi in cui può avvenire il cambiamento concettuale come ristrutturazione della conoscenza. Un'indicazione viene dalla ricerca sul confronto tra novizi ed esperti. Partendo dalla 'mappa concettuale' dell'allievo (che viene a lui esplicitata e resa oggetto di riflessione consapevole) si cominciano a modificare alcune relazioni tra concetti: ad esempio, l'idea che 'non c'è moto senza forza' - tipica di una concezione alternativa - viene sostituita da quella che 'non c'è accelerazione senza forza' (v. Linn, 1986). Si introducono poi nuove relazioni che richiedono concetti più generali e consentono di cogliere nessi prima inattivati (ad esempio quello tra forza di gravità e peso di un oggetto). Questa proposta - più 'debole' - è avanzata da Chi (v., 1986), che ritiene possibile modificare la centrazione cognitiva del novizio offrendogli una focalizzazione su aspetti rilevanti e uno 'sbiadimento' di quelli irrilevanti.S. Carey sostiene invece la necessità di un cambiamento concettuale radicale, e lo esemplifica nella sua ricerca sulla teoria biologica intuitiva dei bambini, secondo cui gli esseri viventi sono quelli che hanno attributi propri degli esseri umani (v. Carey, 1985). La visione di una ristrutturazione radicale delle conoscenze è simile a quella proposta dagli storici della scienza (come T. Kuhn) per le 'rivoluzioni scientifiche': ne è un esempio quella avvenuta con Galileo e con l'abbandono della meccanica aristotelica.
Sistemi teorici successivi si distinguono radicalmente (e a volte non sono tra loro confrontabili) perché per ciascun sistema cambiano il campo fenomenico, la natura delle spiegazioni e i concetti centrali.Pertanto rispetto ai quadri concettuali 'alternativi' ci sono posizioni piuttosto divergenti non solo per quel che riguarda le modalità in cui può avvenire il cambiamento ('evoluzione' o 'rivoluzione'), ma anche rispetto alla loro valenza teorica. Ad esempio, a coloro che hanno dimostrato la presenza di una coerente teoria dell'impetus nell'interpretare il moto curvilineo, altri oppongono un modello interpretativo della fisica di senso comune basato su un numero ristretto di primitives (di nozioni che non richiedono giustificazione), non necessariamente coerenti tra loro.Nell'ambito delle scienze sociali, e in particolare nella scienza politica, date la relativa non strutturazione del campo e la presenza di una larga area di controversia tra gli esperti, l'apprendimento consiste in gran parte nella capacità di sviluppare argomentazioni consistenti e coerenti (spesso basate su concetti economici e conoscenze storiche). Ciò costituisce una differenza sostanziale rispetto alle scienze naturali, ma questa differenza sfuma se si considera il lavoro del ricercatore nelle scienze 'dure', quando opera alle 'frontiere' del conoscere, dove non ci sono parametri condivisi e si è di fronte a problemi non strutturati, che richiedono un'analisi argomentativa. E addirittura questa differenza non sussiste affatto per chi è agli inizi dell'apprendimento e ha conoscenze parziali, per il quale i problemi sono sempre mal definiti perché non dispone di un modello di riferimento immediatamente attivabile. Pertanto il modello dell'argomentazione corrisponde anche alle procedure di ragionamento degli studenti nello spiegare problemi di fisica, oltre che problemi di tipo storico-sociale (v. Pontecorvo, 1985).
L'interesse per la specificità dell'apprendimento matematico non è solo dovuto all'importanza che la padronanza dei concetti matematici ha in altri apprendimenti e nella vita lavorativa, ma anche alle possibilità teoriche offerte da un campo ben strutturato dove è possibile studiare con rigore come si evolva la rappresentazione di conoscenze e come si costruiscano algoritmi, procedure e strategie.Resnick (v., The development..., 1987) rileva due caratteristiche specifiche della matematica, determinanti rispetto all'acquisizione di conoscenze nel campo: il carattere del tutto astratto dei suoi concetti anche elementari, per cui si deve subito ragionare con 'oggetti' che esistono solo in quanto astrazioni; la precoce necessità di utilizzare un linguaggio formale, che riguarda denominazioni e soprattutto procedure da seguire, fin dalle più semplici operazioni di conta. Una delle difficoltà del formalismo matematico sta nella duplicità di funzione, sia referenziale rispetto a oggetti esterni, sia propria di un sistema che obbedisce a regole interne.
A queste caratteristiche dell'apprendimento matematico si associa il dato scaturito dalla ricerca (v. Gelman e Gallistel, 1978) sulle precoci competenze matematiche di bambini prescolari e scolari prima e indipendentemente dall'insegnamento scolastico. I bambini infatti utilizzano e capiscono le operazioni di conta perché ne padroneggiano progressivamente i principî numerici essenziali (ordine stabile, astrazione, corrispondenza biunivoca, irrilevanza dell'ordine) con modalità capaci di sviluppi autonomi, soprattutto nella direzione delle operazioni elementari dell'addizione e della sottrazione, dove sono state individuate (in diversi contesti culturali) strategie alternative non trasmesse dalla scuola ma costruite autonomamente dai soggetti (v. Carpenter e altri, 1982). Ad esempio, si risolvono problemi di somma 'ricontando' tutto, oppure 'contando oltre', cioè partendo dal numero di un addendo (preferibilmente il più grande) per poi procedere nella conta. Tra l'altro i bambini piccoli usano le strategie risolutive più adatte alla struttura dei problemi, mentre i più grandi eseguono a volte le operazioni sui numeri senza badare al loro significato.Una notevole quantità di conoscenze matematiche è sviluppata dai bambini in forma intuitiva sulla base del principio della composizione additiva (tutti i numeri sono composti da altri numeri più piccoli). Questo stesso principio è risultato operare in tutta quella matematica 'inventata' o 'informale' di cui si è raccolta documentazione sia in bambini sia in adulti non scolarizzati in diverse culture, confermando così l'universalità e la naturalità delle strutture additive. Ma in quali modi è possibile sviluppare le ulteriori conoscenze matematiche a partire da questa base intuitiva, che può così continuare a sostenere l'apprendimento? Fondamentale è il costituirsi di schemi operativi qualitativi (ad esempio, lo schema del trasferire qualcosa da un set all'altro per eguagliare due sets), come pure sono importanti le conoscenze sulle relazioni tra numeri specifici (doppio, metà), per cui i bambini che hanno più familiarità con forme varie di conteggio, giochi numerici, ecc. hanno più possibilità di imparare altre nozioni.
La proposta di Resnick (v., The development..., 1987), sulla base di una serie di studi specifici, è di creare un più solido collegamento tra conoscenze matematiche intuitive - che sono autoevidenti e accessibili perché legate nella memoria a una varietà di situazioni - e gli aspetti del formalismo matematico, a cominciare dal valore di posizione, dagli algoritmi per le operazioni, dalle regole di trasformazione algebrica: aspetti indispensabili per capire le proporzioni, le quantità intensive, le funzioni, in generale le strutture moltiplicative. La ricerca ha messo in rilievo la difficoltà dei concetti non additivi, ma ha appena cominciato a indagare i processi con cui i nuovi concetti possono diventare intuitivi. Un'indicazione importante è che chi impara facilmente la matematica padroneggia in modo flessibile il duplice ruolo del formalismo, in quanto significante e significato: è capace cioè di ragionare su e con i simboli formali, di operare all'interno del sistema applicando le corrette regole di trasformazione (ad esempio per l'algebra), ma tiene continuamente presente il significato dei simboli, associandoli alle quantità a cui si riferiscono.Se è tanto importante 'dar senso' alle regole che si apprendono e mantenere vivo il significato referenziale del formalismo, si capisce perché è utile creare delle situazioni di problem solving di gruppo, come è stato proposto da alcuni autori: è un contesto dove si possono applicare e confrontare strategie euristiche, dove si è sollecitati a esplicitare ciò che si vuole fare, a dare ragione di scelte che si pongono come alternative, a differenziare ed esplicitare ruoli e attività richiesti da problemi complessi.
Le competenze nel leggere e nello scrivere sono fondamentali rispetto agli apprendimenti successivi in qualsiasi campo del conoscere. A differenza di altre aree in cui è prevalente l'articolazione dei concetti e delle teorie, in questa è in primo piano l'acquisizione di competenze che si manifestano nell'utilizzazione di un insieme di abilità cognitive e metacognitive. È particolarmente adeguato puntare a modalità di istruzione che nello stesso tempo rendano gli studenti più consapevoli dei processi da loro attivati (ad esempio nella comprensione e nella produzione di testi scritti) e offrano loro anche la possibilità di osservare come effettivamente procedono gli esperti. Nella prima direzione si muovono le proposte di usare il 'pensiero ad alta voce' (v. Ericsson e Simon, 1984) - con l'aiuto di interventi di rispecchiamento e di riformulazione da parte dell'adulto (v. Lumbelli, 1982) - per capire le difficoltà di comprensione e di produzione degli allievi e per aiutarli a risolverle anche attraverso l'autoconsapevolezza che ne deriva.
Ci sono anche proposte più generali che - sulla base del contrasto tra i modi individualistici, prevalentemente astratti e decontestualizzati dell'apprendere a scuola, e quelli socialmente condivisi, concreti e contestualizzati, delle prestazioni cognitive efficienti che avvengono fuori della scuola - suggeriscono la necessità della condivisione sociale del lavoro intellettuale, dell'organizzazione del compito in funzione di un significato e di uno scopo, dell'esplicitazione e dell'analisi di quello che è implicito (v. Resnick, Knowing..., 1987). La ricerca cognitivista sui processi mentali messi in atto in diversi contesti di conoscenza ha cercato di aprire la 'scatola nera' presupposta dal comportamentismo e di capire che cosa avviene nella mente di chi apprende e pensa: il passo successivo che ci si attende dall'istruzione è tradurre queste conoscenze in modalità di aiuto o di facilitazione per chi non sa.In una direzione simile si muovono ricerche rilevanti nel campo della comprensione e della produzione di testi: il metodo di insegnamento della comprensione del testo, di Palincsar e Brown (v., 1984), ne costituisce un esempio particolarmente adeguato. È costituito da procedure di modellamento e di monitoraggio (coaching) di quattro abilità strategiche: formulare domande basate sul testo, riassumere il testo, fare previsioni su quello che viene dopo, chiarire difficoltà. Le abilità sono state identificate tenendo conto di ciò che fa un lettore esperto quando è impegnato nell'attività di comprensione del testo (in altri termini, quando legge per capire) e sono pertanto basate sui modelli di comprensione del testo elaborati dai linguisti e psicologi cognitivisti (v., per esempio, Kintsch e van Dijk, 1978).
Ma anche riassumere il testo è un'abilità scomponibile in una serie di operazioni (macroregole) che possono essere insegnate: eliminare le parti irrilevanti o ridondanti, scegliere le parti significative, inventare elementi che integrano le unità del discorso.Palincsar e Brown, inoltre, propongono l"insegnamento reciproco': l'adulto e gli allievi (in un piccolo gruppo) si alternano nel ruolo dell'insegnante. Questo metodo è risultato particolarmente efficace - anche a lungo termine - perché consente agli allievi di formarsi un nuovo modello del compito di lettura, come insieme di attività costruttive, di sviluppare aspettative più realistiche rispetto a testi progressivamente più difficili e di seguire le strategie usate dall'esperto (l'insegnante) in un contesto problematico condiviso.Indicazioni analoghe si possono trarre dagli studi sul processo di scrittura, sulle strategie che usano scrittori esperti e sulle modalità di insegnamento che consentono al 'novizio' di imparare. Hayes e Flower (v., 1980) hanno proposto di considerare l'attività di scrittura come una situazione di problem solving non chiaramente strutturata, in cui gli scopi più o meno chiaramente fissati dal compito compositivo (carattere del testo, uditorio a cui è rivolto, tesi che si vuole sostenere, conoscenze da utilizzare) si trasformano e si precisano via via che il processo compositivo procede. Questo è costituito dalle attività principali del pianificare, produrre e rivedere (a loro volta suddivisibili in più specifiche attività) che però, nell'attività dello scrittore esperto, si intrecciano nei vari momenti di produzione del testo: soprattutto l'esperto dedica molto tempo alla pianificazione (a ogni livello e a più riprese) del testo e alla revisione (che è un'attività complessa, totalmente assente dalla pratica dei novizi).
Bereiter e Scardamalia (v., 1987) hanno identificato nel bambino e nel non esperto la strategia del knowledge telling, per cui si comincia a scrivere una prima idea, poi se ne aggiunge una seconda e così via, fino a che non si ha altro da dire, senza tener conto delle esigenze di coerenza interna e di articolazione del discorso. Hanno inoltre rilevato che tra le difficoltà cognitive dello scrivere c'è quella (molto iniziale) di dover passare dalla situazione di dialogo propria della conversazione (in cui ci si sostiene a vicenda) al monologo scritto della composizione, dove si è soli a dover produrre. Hanno così messo a punto varie forme di interazione tra studenti e insegnante per facilitare questo processo: l'insegnante agisce come 'scriba' per bambini che hanno problemi di trascrizione; commenta per scritto, ma come lettore, i testi degli studenti; sollecita situazioni di sensibilizzazione all'uditorio. Inoltre, per modificare il knowledge telling in knowledge transforming, introducono delle facilitazioni procedurali che aiutino l'allievo a suddividere il carico mentale richiesto dallo scrivere, scandendo l'attività in sotto-scopi e dando una serie di suggerimenti precisi (nella forma di cartellini scritti) sulle modalità di pianificazione, produzione e revisione che gli studenti possono seguire.
Queste proposte rispondono all'esigenza di adattare all'insegnamento/apprendimento il metodo dell'apprendistato conoscitivo. L'idea generale è analoga a quella dell'apprendistato tradizionale: osservare i processi messi in atto dall'esperto e praticarli sotto la sua guida come metodo che rende possibile agli studenti di imparare da soli. Esso è caratterizzato da: a) attenzione alla conoscenza e ai processi utilizzati dagli esperti 'situati' in contesti specifici; b) esplicitazione di ciò che resta normalmente 'coperto', in modo che gli studenti possano osservare, mettere in atto ed esercitare quei processi con l'aiuto degli altri; c) sviluppo di abilità di autocorrezione e autoregolazione, attraverso il confronto tra prestazioni di esperti e di novizi (registrate e riesaminate) e l'alternanza di attività di produzione e di valutazione (un dialogo tra 'produttore' e 'critico' progressivamente interiorizzato).
La metafora dell'apprendistato è particolarmente coerente col quadro teorico vygotskiano. I bambini vengono socializzati alla loro cultura mediante una partecipazione congiunta ad attività significative: si vuole così sottolineare il ruolo della mediazione sociale in processi che poi diventano individuali. Per l'apprendimento scolastico ciò significa anche un cambiamento di atteggiamento rispetto al ruolo tradizionale dell'alunno: infatti un apprendista si differenzia da un alunno perché è uno che vuole imparare, che cerca ciò che gli interessa, che aspira a sapere, a fare, a praticare, che richiede di essere 'corretto'. In breve è motivato ad apprendere e riconosce l'esperto come qualcuno da cui si desidera imparare. Insieme alla differenza di atteggiamento, l'apprendistato produce effetti sulle motivazioni, cioè sull'energia psichica che sostiene l'apprendimento.
Nel quadro teorico qui prescelto la dimensione motivazionale è interna ai contesti di apprendimento, concepiti come autogratificanti e autoalimentanti. Questa motivazione intrinseca è sostenuta sul piano emotivo se il compito proposto si presenta con un giusto grado di difficoltà o discrepanza rispetto alle capacità e conoscenze già acquisite dagli allievi; per questo le situazioni di problem solving risultano motivanti se non sono troppo difficili o troppo lontane dagli schemi risolutivi a disposizione.
Analogamente l'interazione di gruppo sostiene l'attività cognitiva e consente anche di affrontare problemi che risulta impossibile affrontare da soli, perché suddivide la pena psichica di non sapere, diminuisce la tensione individuale e, aumentando la fiducia di tutti nel poter riuscire, facilita il pensiero produttivo e lo scambio delle idee e delle soluzioni.La fiducia nel poter riuscire è una componente essenziale della motivazione all'apprendimento. Studi recenti - basati su una prospettiva socio-cognitiva - hanno evidenziato (v. Dweck e Bempechat, 1983) come i comportamenti di mantenimento e perseguimento degli scopi dell'apprendimento come acquisizione di competenza siano sostenuti da una 'teoria' dell'allievo che vede l'intelligenza come qualcosa di malleabile e sviluppabile: coloro invece che sono orientati al giudizio esterno (mossi quindi da motivazioni estrinseche) considerano l'intelligenza come un'entità fissa. Questa differenza di scopi produce atteggiamenti diversi soprattutto nei confronti dell'insuccesso: solo i primi sono capaci di reagire con impegno e perseveranza, mentre i secondi lasciano la partita.
L'interazione con gli altri su oggetti cognitivi, in qualche modo tipica di tutta l'interazione verbale che ha luogo a scuola (anche quando è l'insegnante che domina sul piano verbale o quando verifica conoscenze e abilità degli alunni), produce - in modi variamente efficaci - capacità di riflessione e di controllo delle proprie azioni e operazioni. L'interazione sospinge verso l'esplicitazione delle proprie ragioni e verso un confronto della loro relativa validità, porta a diventare consapevoli, a produrre un linguaggio per sé e un metalinguaggio, con cui si può parlare di ciò che si dice, di ciò che si sa, di ciò che si pensa.Vari autori hanno rilevato come queste capacità, in generale definite come metacognitive, siano il prodotto della scolarizzazione e nello stesso tempo determinino le ulteriori acquisizioni di conoscenza, perché si traducono in capacità di guida e di controllo esecutivo delle proprie operazioni intellettuali: di comprensione, di memorizzazione, di recupero dell'informazione, di pianificazione, di verifica. Sono pertanto uno strumento essenziale per la regolazione dei processi di conoscenza, che sono attivati e sviluppati attraverso le varie metodologie di esplicitazione di azioni e strategie cognitive, di comunicazione e giustificazione di scelte alternative, di assunzione consapevole di ruoli nella discussione e nella soluzione dei problemi. Questa funzione di sviluppo della dimensione metacognitiva è in generale prodotta dall'interazione scolastica, perché la scuola è il luogo dove si parla (anche) di come si apprende e si studia (v. Pontecorvo e Pontecorvo, 1986).
In particolare, è sollecitata nelle interazioni, più o meno strutturate, di piccoli gruppi, dove si esplicitano e si praticano procedure di comprensione del testo, ad esempio, o dove si giustificano le direzioni da assumere nella soluzione dei problemi.
Emerge, da quanto si è fin qui detto, che anche la metacognizione si caratterizza in relazione alla specificità degli aspetti del conoscere: ci siamo riferiti prima alla riflessione al secondo ordine nel matematizzare o nello scrivere, ma è altrettanto importante quella che si esercita sul linguaggio come consapevolezza metalinguistica.I nessi tra metacognizione e cognizione restano molto stretti e hanno un interesse diretto per l'apprendimento scolastico. Una conoscenza metacognitiva non solo si basa su esperienze cognitive riflettute (riconoscere che 'non distinguo bene tra due teorie senza far riferimento a esempi'), ma soprattutto si traduce in azioni o nell'uso consapevole di strategie cognitive ('ho bisogno di rileggere e prendere nota degli esempi').
Queste strategie hanno nessi molto stretti con le abilità di studio: leggere più di una volta un testo, sottolineare, prendere appunti, aggregare le informazioni raccolte in categorie, ecc.; sono tecniche specifiche messe in atto in modo più o meno sistematico se la riflessione metacognitiva ne ha constatato la necessità e l'efficacia. Le tecniche o 'abilità di studio' hanno il grosso merito di poter essere, in gran parte, insegnabili. Raramente, però, questa possibilità si traduce in realtà: fa parte di ciò che resta 'coperto' (o che si dà per scontato) e che alcune delle ricerche riportate sopra hanno cercato di rendere esplicito.
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