Arabi
. La questione di speciali rapporti intellettuali fra D. e il mondo arabo-islamico si è posta in concreto negli studi danteschi a partire dall'opera di M. Asìn. Rimandando alla voce ‛ Islam ' la discussione del suo punto essenziale, cioè l'eventuale influsso dell'escatologia islamica sulla Commedia, tratteremo qui delle sue premesse, della presunta familiarità di D. con la lingua e letteratura araba, la sua conoscenza e disposizione d'animo verso la scienza araba, componente indubbia per più o meno diretti tramiti della cultura del suo tempo.
Che D. debba aver conosciuto l'arabo, e sia stato in grado di affrontare nell'originale la lettura di ardui testi arabi, quali la Epistola del perdono di Abū l-‛ Alā' al-Ma ‛ arrī, o le opere mistiche di Ibn ‛ Arabī, è conditio sine qua non per chi postuli un qualsiasi contatto fra questi autori e il pensiero e la fantasia dantesca. Tali opere infatti, di difficile accesso ancor oggi negli originali alla filologia orientalistica, non risultano in alcun modo tradotte o comunque note al Medioevo latino; e la facilità ad ammettere per ipotesi un diretto contatto di D. con esse è in proporzione inversa della loro effettiva conoscenza in chi affaccia oggi tale possibilità. Per intendere al-Ma‛arrī e Ibn ‛Arabī non occorre sapere " un po' d'arabo ", come prudentemente ipotizzava Asīn, ma dominarlo con una padronanza che solo i profani possono attribuire a un fiorentino di quell'età. Una tal padronanza è stata ancor di recente attribuita a D. dal Lemay (" D. avait les moyens de lire [in arabo] ce qu'il voulait, ou qui l'intéressait... "), fondandosi sulla conoscenza di quella lingua che proverebbero i versi di Pluto (If VII 1) e di Nembrotte (XXXI 67). Ora è appena necessario ripetere che le interpretazioni ‛ arabe ' di quei due celebri versi, proposte dal p. Gabriele d'Aleppo, dallo Scialhub, dal Barbera, e da ultimo riprese per Nembrotte dal Lemay, non reggono alla generale osservazione che D. mirò qui a dare solo un coacervo di barbari suoni ‛ arabizzanti ' o più genericamente ‛ semitizzanti ', e che le proposte ricostruzioni, specie per Nembrotte, approdano a un arabo che non sta né in cielo né in terra, oscuro e sgangherato a un tempo. Se dunque per intendere la letteratura ‛ dotta ' araba fuor del campo scientifico e filosofico era allora indispensabile una profonda conoscenza della lingua (altro sarà il caso, come vedremo, di prodotti della letteratura popolare come il Libro della Scala), e se tale profonda conoscenza dovesse risultare dai versi di Pluto e Nembrotte, da parte arabistica si può con tranquilla coscienza concludere che di al-Ma‛arrī e Ibn ‛Arabī, e di tutta l'alta letteratura arabo-islamica non mediata in versioni alla cultura medievale cristiana, D. non seppe nulla. Dell'esistenza di una poesia presso gli A., mostrerà qualche conoscenza solo il Petrarca; l'orizzonte letterario di D., oltre la cultura biblica e classica, non oltrepassò il campo romanzo.
Resta, del mondo arabo, la produzione scientifica e filosofica: essa è entrata, a partire dall'XI-XII secolo, per versioni e rifacimenti che qui è superfluo richiamare, a far parte della cultura e della scienza occidentale. E qui il ‛ chierico ' D. non poté non aver familiari i nomi, e più o meno parzialmente e direttamente le opere, dei grandi filosofi e scienziati dell'Islam: Avicenna e Averroè, Algazel e Alpetragio, Albumasar e Alfragano (questi e questi soli appaiono da lui menzionati), e altri ancora che non gli occorse nominare nei suoi scritti, ma che certo furono presenti nella sua formazione intellettuale e nella sua vasta cultura scolastica. Avicenna e Averrois compaiono fra gli antichi savi nel Limbo (If IV 143-144). Le citazioni di opinioni e scritti di dotti arabi, cioè scriventi in arabo, anche se di stirpe, per alcuni, turca o persiana, sono state esaminate per ultimo dal Cerulli, e sono relative ad Albumasar, Alfragano, Algazel, Alpetragio, Averroè e Avicenna. Si tratta per lo più di opinioni dei filosofi e scienziati arabi desunte, anziché direttamente dalle pur esistenti versioni di loro scritti, dalle riesposizioni e confutazioni dei filosofi scolastici, s. Alberto Magno e s. Tommaso; il che conferma che l'approccio dantesco a questi pensatori musulmani non ha avuto quel particolare interesse e impegno che alcuni han creduto vedervi, in senso positivo o negativo, ma è rimasto nel quadro della generale informazione filosofica e scientifica comune a un'alta, non però specializzata cultura. Come la generale cultura del suo tempo, D. mostra di apprezzare il contributo tecnico, scientifico di questi A. al patrimonio del sapere, integrando così l'eredità classica, ma entro i limiti di una vigile ortodossia cristiana. Questa gli fa rifiutare la dottrina averroistica dell'intelletto possibile e universale (non pare sia qui da intendere ‛ passivo '), come, se avesse davvero potuto conoscerle, gli avrebbe fatto rifiutare le idee monistiche del mistico Ibn Arabī, rimanendo nelle grandi linee (con tutta la libertà nei particolari che è stata additata) fedele alla grande visione tomistica e scolastica dell'universo.
Il Lemay ha voluto recentemente compiere un ulteriore passo nella fissazione dell'atteggiamento dantesco verso la scienza araba, passando dalla riaffermazione della sua fedeltà all'ortodossia ad additare una più o meno esplicita condanna, da parte del poeta, di tutto questo estraneo sapere non corroborato e fondato nella cristiana rivelazione. Perno e spia di tale atteggiamento sarebbe la figura di Nembrotte in If XXXI, ove con la biblica figura dell'istigatore della torre di Babele, e causa così della confusione delle lingue, confluirebbe l'altra, parimenti di origine orientale e familiare all'Islam, dell'astronomo, astrologo e mago ribelle a Dio, onde nella sua condanna il poeta avrebbe voluto condannare anche " l'admiration accordée en Occident médiéval à la tradition de la science arabe ", naturalistica ed empia. Mentre convincente appare qui l'analisi della duplice tradizione da cui nascerebbe la figura del Nembrotte dantesco, lo specifico assunto di una condanna in lui della scienza degl'infedeli nasce dalla proposta interpretazione ‛ araba ' delle sue incondite parole, e cade a nostro avviso con essa. La riserva dell'ortodossia cristiana verso la filosofia e la connessa scienza arabo-islamica (essa stessa nata in seno all'Islam dal conflitto fra rivelazione dogmatica e speculazione ellenizzante) è indubbia, e si esprime forse, come vuole il Lemay, con rinnovato vigore sul cadere del XIII secolo; essa si continuerà in pieno Trecento e avrà il suo riflesso nell'atteggiamento fieramente anti-averroistico del Petrarca; il rilievo tuttavia che si vorrebbe qui dare al sentimento personale di D. non trova a nostro avviso il necessario appoggio nei testi, quando non li si sottoponga a stiracchiamenti e interpretazioni inammissibili.
Gli A., che D. nomina col loro nome una sola volta (Pd VI 49), ma intendendo con esso gli antichi Cartaginesi di Annibale, sono quindi presenti nella sua cultura con la loro altissima opera di pensiero e di scientifica ricerca, da lui però avvicinata e appena delibata entro il complesso della sua formazione intellettuale, cristiana e latina. Per quel che egli seppe e sentì della storia politica, sociale e religiosa degli A. entro il quadro dell'Islam, vedi questa voce. Così per la fortuna dell'opera dantesca nel mondo arabo vedi sotto EGITTO; PALESTINA; SIRIA.
Bibl. - Per D. e la filosofia e scienza araba, cfr. E. Cerulli, Il " libro della Scala " e la questione delle fonti arabo-spagnole della D.C., Città del Vaticano 1949, 507-514; G. Cattaui, Les sources oriantales de la ‛ Divine Comédie ', in " Bull. Société d'Études dant. du C.U.M. " VI (1957) 19-25; VII (1958) 7-15; R. Lemay, Le Nemrod de l'Enfer de D. et le " Liber Nemroth ", in " Studi d. " XL (1963) 57-128. Ivi citata all'inizio, in una nota redazionale, la precedente bibliografia sui pretesi ‛ versi arabi ' della Commedia.