ARABI
. La grandiosa espansione del popolo arabo fuori dei suoi confini originarî ha fatto sì che la storia degli Arabi abbia un'estensione immensamente più vasta che non la storia dell'Arabia precisamente come la storia dei Greci non è limitata alla penisola ellenica né quella dei Romani alla città di Roma o all'Italia. Inoltre, analogamente ai Romani gli Arabi hanno fondato un grande impero: analogamente ai Greci e ai Romani hanno dato impulso a una considerevole civiltà che ha oltrepassato, nello spazio come nel tempo, i limiti del loro dominio politico. Se non che, con differenza tipica dai popoli classici, all'espansione politica e culturale degli Arabi si è accompagnato un terzo fattore di non minore importanza, anzi tale da legare il proprio nome e da dare la propria impronta all'intero ciclo storico proveniente dagli Arabi, lasciando in seconda linea gli altri due: il religioso, per cui gli Arabi sono stati i creatori e i propagatori di una delle maggiori religioni universalistiche, l'Islām. Questa religione è stata abbracciata anche da popoli che hanno tuttavia conservato la propria individualità linguistica e nazionale, e ha dato origine ad una civiltà fondamentalmente unica per tutti. Perciò di taluni aspetti di essa (arte, filosofia, scienze, ecc.) si tratterà sotto Islamismo.
I. Storia.
Una distinzione rigorosa tra le singole storie dei varî popoli musulmani non è possibile, e il termine "storia degli Arabi" ha soltanto carattere empirico. Si aggiunge, ad aumentare la difficoltà di definire la storia degli Arabi, la circostanza che in questa manca, o almeno è poco evidente, quel netto distacco che rende legittimo lo scindere (pur con le note riserve intorno al valore di tale scissione) la storia dell'antichità classica da quella del Medioevo: tanto la storia politica quanto quella cultwale degli Arabi presentano, dalle origini fino all'età contemporanea, un carattere di continuità (benché non manchino i periodi di sfacelo politico e di decadenza culturale) che non consente di interromperne senza arbitrio il racconto. Si dovrebbe quindi, a rigore, trattare in modo unitario e organico la storia di tutti i popoli musulmani, conducendola fino ai nostri giorni: ragioni di opportunità consigliano tuttavia di esporre separatamente la storia dei popoli di lingua araba e, nell'ambito di essa, di rimandare a trattazioni monografiche l'esposizione particolareggiata delle vicende dei singoli stati arabi dopo la dissoluzione dell'unità politica del califfato; sicché dal presente riassunto non solo rimane esclusa la storia dei musulmani non arabi (Persiani, Turchi, ecc.), ma altresì in esso è data una parte preponderante alla storia del primo periodo del califfato, che è quello nel quale si è formata la civiltà araba e nel quale l'azione degli Arabi sulla storia generale è stata più vasta e più intensa.
La storia degli Arabi può dividersi in quattro grandi periodi: l'età preislamica; l'Islām e l'impero arabo; gli stati autonomi e la decadenza dell'arabismo; il predominio europeo sul mondo arabo e la formazione degli stati contemporanei.
L'età preislamica. - Le origini. - Per quanto ritrovamenti fortuiti di materiale preistorico non siano mancati sul suolo dell'Arabia. tuttavia l'esplorazione di esso è così incompleta da non consentire alcuna conclusione sicura intorno all'epoca in cui l'uomo vi comparve. Sembra peraltro probabile che già fin dall'età prediluviale essa fosse abitata (v. J. de Morgan, La préhistoire orientale, I, Parigi 1925, pp. 162-163, 207-209). Nell'età successiva è fuori di dubbio che le condizioni climatiche erano molto più favorevoli allo sviluppo della vegetazione che non siano state nell'età storica e non siano tuttora: i letti attualmente disseccati di grandi corsi d'acqua, che dovettero in passato essere causa di una fertilità oggi sconosciuta nella terra d'Arabia, ne sono prova evidente (v. arabia: Geografia). Non è tuttavia da accogliersi senz'altro l'ipotesi, emessa e sostenuta con copia di argomenti dal Caetani (v. Bibl.), che dal progressivo inaridimento dell'Arabia dipenda, nelle sue grandi linee, l'intero sviluppo storico dei popoli provenienti da essa: manca infatti il mezzo, nello stato attuale delle nostre conoscenze, di fissare con sufficiente approssimazione cronologica l'inizio, le fasi e il termine di tale processo d'inaridimento (che da almeno due millennî sembra stazionario), e vien meno pertanto la possibilità di metterlo in diretto rapporto con quanto ci è noto, per via storica, intorno alle prime migrazioni partite dall'Arabia verso regioni più fertili (v. per ultimo, contro l'ipotesi del Caetani, A. Musil, Northern Neǧd, New York 1928, pp. 304-319, in American Geogr. Soc., Oriental Explorations and Studies, n. 5). Queste stesse migrazioni non appaiono tanto evidenti, nella loro fase più antica, quanto sarebbe necessario per corroborare la tesi del Caetani, che pone nell'Arabia la sede primitiva, o almeno il centro d'irradiazione, dei popoli semitici. Che i Semiti (v.) nel loro primo apparire nella storia, all'inizio del 3° millennio a. C., siano giunti nella valle del Tigri e dell'Eufrate, dove si constata la loro presenza in quell'epoca, provenendo dall'Arabia, è possibile e forse anche probabile, ma non ancora dimostrato in modo perentorio; né è punto accertato il carattere linguistico arabo che i nomi proprî di persona presenterebbero nell'epoca dell'antico impero babilonese, come vogliono il Hommel (v. Bibl.) e altri; più che dubbia, infine, è l'identificazione con l'Arabia del paese di Magan, ricordato in iscrizioni sumeriche del 3° millennio a. C. Sicura, invece, è la provenienza dal mezzogiorno della cosiddetta "seconda migrazione semitica", che condusse in Siria, verso la metà del 2° millennio, popolazioni già stanziate nel deserto arabico, e segnatamente gli Aramei (v.) e quel gruppo etnico del quale fanno parte, tra gli altri, anche gli Ebrei (v. ebrei: Storia). Benché a tali popolazioni non possa attribuirsi l'epiteto di "arabe" in senso stretto, certo è che esse rappresentano la più antica fase storicamente constatabile di una serie di ondate migratorie che, partite dalle sconfinate zone steppose dell'Arabia settentrionale, hanno successivamente condotto varie stirpi nomadi a occupare nuovi territorî, ad assumere carattere sedentario, a subire l'influsso culturale di popoli più progrediti, a costituire formazioni politiche e sociali che hanno la loro ultima e più alta espressione nell'impero e nella civiltà arabo-musulmani.
Quando e da chi quelle stirpi abbiano ricevuto il norme col quale la storia le unifica e quale sia l'etimologia di questo nome è tuttora ignoto. Mentre il termine Arabia come designazione territoriale è di formazione greca, coniato sull'analogia di altri nomi di regioni desunti da etnici, come 'Ιταλία, Μακεδωνία, Λυδία, il nome degli Arabi si riscontra già in epoca antica (non anteriore tuttavia al sec. IX a. C.); ma non risulta chiaro se esso abbia designato fin dall'origine l'intero complesso delle popolazioni dell'Arabia o se si sia riferito a una sola di esse, assumendo poi significato più ampio. Nell'uso linguistico arabo, che tuttavia non è dato constatare se non in età molto tarda, il nome ‛Arab è sinonimo di "nomadi" arabi e soltanto a potiori si estende a tutta la popolazione della penisola, come termine etnico; le etimologie che lo riavvicinano alle voci ebraiche ‛ărābāh "steppa" oppure ‛ĕrĕb "mescolanza (di popoli)" sono quanto mai incerte (v. M. Hartmann, Die arabische Frage, Lipsia 1909, pp. 113-115).
Le più antiche notizie su popolazioni arabe sono fornite dalla Bibbia. Nella cosiddetta "Tavola dei popoli" in Genesi, X, 26-29, sono enumerati i figli di Yoqṭān, figlio di ‛Ēber discendente di Sem e tra essi figurano alcuni nomi che si possono sicuramente identificare con regioni dell'Arabia meridionale: Ḥĕṣarmāwĕt = Ḥaḍramaut, Šĕbā' - Saba'. Ma in Genesi, XXV sono date due altre genealogie di stirpi arabe: quella dei figli di Ismaele, figlio di Abramo (discendente di ‛Ēber) e della sua concubina Hāgār (Agar) (vv. 13-14), tra i quali Nĕbāyōt, Qēdār, Dūmāh, Massāh, Tē(y)mā' sono facilmente identificabili con stirpi e località conosciute da altre fonti; e quella dei figli di Abramo stesso e di un'altra sua concubina Qĕṭūrāh (vv.1-4), tra i quali si trovano i nomi dì Midyān, ‛Ē(y)fāh, anch'essi noti da documenti di altra provenienza, e inoltre quello di Šĕbā, al quale viene pertanto assegnata una discendenza diversa da quella della Tavola dei popoli (si tratta forse di un'interpolazione). Da queste tre linee genealogiche (sull'età delle quali è difficile dare un giudizio sicuro, ma che quasi certamente non sono posteriori ai primi tempi della monarchia d'Israele, intorno al 1000 a. C.) risulta che gli Ebrei distinguevano, tra le varie popolazioni arabe, alcune cui essi si sentivano strettamente congiunti per sangue (i discendenti di Abramo), mentre la parentela con altre appariva loro più remota (i discendenti di Yoqṭān). Siffatta distinzione è confermata da quanto si conosce d'altronde intorno all'etnologia e alla storia antichissime dell'Arabia: di contro alle popolazioni dell'Arabia centrale e settentrionale stanno quelle dell'Arabia meridionale, costituenti un ceppo ben distinto, che si differenzia dalle prime anche per la lingua, conservata nelle iscrizioni sudarabiche e alquanto diversa dall'arabo settentrionale (o arabo propriamente detto), mentre presenta stretta affinità con l'etiopico. Le popolazioni meridionali, passate a vita sedentaria in età molto remota, produssero una cospicua civiltà, della quale i grandiosi monumenti del Yemen e delle regioni circostanti dànno testimonianza, e la cui storia, benché presenti naturalmente frequenti relazioni con quella dell'Arabia centrale e settentrionale, si svolge in modo indipendente, e va trattata a parte (v. himyariti, minei, sabei).
Degli Arabi settentrionali menzionati nella Bibbia quelli che sono attestati in passi più antichi sono i Midianiti o Madianiti (v.), di cui si trova menzione nella storia di Giuseppe (alternantisi con gl'Ismaeliti), in quella di Mosè e dell'esodo degli Ebrei dall'Egitto, finalmente in quella di Gedeone, che inflisse loro una memorabile sconfitta (Giudici, VI-VII). Abitavano la costa orientale del golfo di el-‛Aqabah (il golfo Elanitico della geografia classica) e il retroterra (regioni esplorate recentemente dal Musil: The Northern Ḥeğâz, New York 1926, in Amer. Geogr. Soc., Oriental Explor. and Studies, n. 1), e di là si estesero verso N., venendo così a contatto con gli Ebrei. Nei racconti biblici intorno a questa, che è la più antica popolazione araba di cui si abbiano notizie concrete, appaiono già evidenti i due caratteri per i quali si segnalarono gli Arabi durante l'antichità: la razzia e il commercio carovaniero. Commercianti e razziatori appaiono anche i Nĕbāyōt e i Qēdār, che in passi biblici più tardi sono i più frequentemente citati tra i figli di Ismaele, le carovane di Dĕdān e di Tēmā' sono anch'esse più volte ricordate (sulle antiche relazioni tra gli Arabi, compresi quelli meridionali, e gli Ebrei, v. D.S. Margoliouth, The relations bptween Arabs and Israelites prior to the rise of Islam, Londra 1924, in The Schweich Lectures 1921, libro suggestivo, ma non privo di esagerazione).
Ma più antiche di queste ultime testimonianze bibliche sono le notizie che possono attingersi intorno agli Arabi dagli annali dei re di Assiria. Salmanassar II (858-823 a. C.), Tiglat Piloser IV (745-728), Sargon (722-706), Sanherib (705-681), Asarhaddon (681-668), Assurbanipal (668-626) rammentano tra le loro imprese varie spedizioni contro gli Aribi (variante Arabu) o si vantano di averne ricevuto l'omaggio e i tributi. Già nel più antico di questi documenti si ravvisa nel nome del re degli Aribi Gindibu (partecipe con mille cammelli alla coalizione contro Salmanassar II) una forma che sopravvive nell'arabo classico (Giundab o Giundub), e varî altri nomi, sia di persone sia di luoghi, trovano riscontri o analogie più recenti; tuttavia per molti di essi tali riscontri e analogie mancano, ed è da ammettersi che l'onomastica abbia variato nel corso dei secoli. Dagl'itinerarî degli eserciti assiri risulta che le regioni da essi percorse sono tutte comprese nel deserto siro-arabico e che l'Arabia centrale e orientale rimase chiusa a ogni invasione (la tesi opposta, sostenuta dal Winckler, dal Glaser, dal Hommel, non sembra accettabile): si tratta di guerre fatte non già per scopi di conquista permanente, ma per punire ribelli o per assicurare i confini contro le incursioni dei nomadi. Fra tutte le spedizioni assire la più importante fu quella di Assurbanipal, il quale, dopo una prima campagna, probahilmente del 648-7, contro Waite' (o Yauta'), figlio di Khazailu, re di Aribi (altrove è detto re di Qidir o Qidri, ossia dei Qēdār biblici), che si era unito alla ribellione del fratello di Assurbanipal, Šamaššumukin, e il cui padre si era già ribellato a Sanherib, ne compì una seconda più lunga (tra il 641 e il 638) per domare nuove ribellioni, e condusse le sue milizie attraverso una zona deserta, vuota di animali e di piante, tranne alcuni arbusti spinosi; i ribelli, battuti e privati dei loro armenti, furono costretti dalla fame ad arrendersi e a consegnare agli Assiri il loro re, anch'egli chiamato Waite' (figlio di Bir Dabba). La campagna di Assurbanipal è descritta con colori pittoreschi negli annali di questo re (ultima edizione in M. Streck, Assurbanipal u. die letzte assyr. Könige, in Vorderasiat. Bibliothek, VII, Lipsia 1916), del quale esistono anche bassorilievi rappresentanti combattimenti con Arabi montan su cammelli e l'incendio delle loro tende; essi costituiscono la prima rappresentazione figurata relativa a questo popolo. Tratto caratteristico della costituzione sociale e politica degli Arabi dell'età assira è l'esistenza di regine, che compaiono quali sovrane effettive, non già quali semplici consorti di re: si ricordano Zabibi e Samsi sotto Tiglat Pileser, Te'elkhunu e Yati'e sotto Sanherib, Tabu'u, Yapa'a e Baslu sotto Asarhaddon. Questa singolarità, che richiama alla mente la regina di Saba e Zenobia di Palmira, ambedue arabe, si suole spiegare con l'esistenza di una costituzione matriarcale delle antiche tribù arabe, della quale si troverebbe traccia anche in età più tarda: essa non contrasta con la presenza contemporanea di re maschi, potendosi ammettere l'esistenza di tribù patriarcali accanto ad altre matriarcali. Dall'insieme dei documenti assiri si ricavano preziose identificazioni di località e di genti menzionate nella Bibbia (oltre i già citati Qidir, Nebayaya = Nĕbāyōt, Khayappa = ‛Efā, Dĕdān, Tēmā', Massā', ecc.) o in altre fonti indipendenti (p. es. i Tamud sotto Sargon, sui quali v. oltre); qualche indizio intorno alla religione si desume da nomi personali, in cui figurano la divinità pansemitica Il, il dio ‛Athtar che sta a capo del pantheon della Arabia meridionale (corrispondente etimologicamente alia femminile ‛Ashtart dei Semiti settentrionali), il cielo (samai), come è notevole la menzione di sacerdozî e di statue di divinità, indizî di culti abbastanza progrediti; finalmente le condizioni sociali e politiche degli Arabi (suddivisi in tribù che compaiono spesso confederate in gruppi più complessi, menanti di solito vita di pastori nomadi ma talora stanziati in località che figurano quali centri urbani, forse stazioni e depositi del commercio) risultano dalle iscrizioni assire conformi a quanto ci è noto da fonti più tarde.
Di vicende posteriori si ha notizia sporadica in qualche passo biblico (così la sconfitta dei Qēdār per opera di Nabucodonosor Geremia, XLIX, 28); ma più spesso si fa menzione delle carovane arabe recanti verso il Mediterraneo i prodotti del loro paese: bestiame, pietre preziose, oro (caratteristica la descrizione del loro commercio con la fenicia Tiro, Ezechiele, XXVII, e l'enumerazione dei loro prodotti, Isaia, LX, 6-7), e non manca la descrizione di qualche particolarità etnica, come il costume di radersi i capelli al disopra delle tempie (Geremia, IX, 25, XXV, 24, XLIX, 52) che è attestato anche da Erodoto (III, 8) e da fonti indigene posteriori (v. J. Wellhausen, Reste arab. Heidentums, 2a ed., Berlino 1897, p. 198; I. Goldziher, Muhammedanische Studien, I, Halle 1889, p. 249). Continuando quel processo di espansione di là dai limiti del deserto che è caratteristico dei nomadi, gli Arabi vengono a contatto con gli stati, di civiltà più antica, degli Edomiti (v.) e dei Moabiti (v.), i quali, fiaccati dalla conquista assira, non sono più in grado di opporre loro valida resistenza; così infestano i confini del regno di Giuda (cfr. II Cronache, XVII, 11; XXI, 16; XXII, I; XXVI, 7). Poco più tardi, al tempo della dominazione persiana (metà del sec. V a. C.), alcune tribù arabe si stanziano in Palestina e costituiscono un serio ostacolo al ristabilimento della comunità giudaica dopo il ritorno dall'esilio babilonese (Neemia, II, 19; IV, 6; VI, 1, 2, 6; il loro capo Gĕshĕm porta un nome noto anche all'arabo classico nella forma Giusham). Anche prima di quest'epoca, del resto, gli Arabi erano entrati, insieme con tutte le altre popolazioni dell'Asia anteriore, nell'orbita della politica persiana: la grande iscrizione di Behistūn (v.) cita l'Arabia tra le regioni sottomesse da Dario; si tratta sempre, come negli annali assiri, delle regioni del deserto siro-arabico, non dell'interno della penisola.
Le notizie assire e bibliche sugli Arabi sono discusse per ultimo da A. Musil, Arabia Deserta, New York 1927, pp. 477-497, in American Geogr. Soc., Oriemal Explor. and Studies, n. 2, e The Northern Ḥeǧâz, pp. 243-296; egli considera a torto come Arabi anche i Bĕnē Qedem ("gli Orientali"), dei quali la Bibbia fa spesso menzione, anche per celebrarne la saggezza: si tratta piuttosto degli Aramei, nel cui territorio invero s'infiltrarono assai per tempo, come si è veduto, elementi arabi.
Gli Arabi nell'età greco-romana. - Appunto per il tramite dei Persiani il mondo greco venne a conoscenza degli Arabi. Non merita d'esser presa sul serio l'identificazione, già proposta da Strabone o dalle sue fonti, degli Arabi con gli 'Ερεμβοί di Omero (Od., IV, 84); né l'eroe "Αραβος citato nel Catalogo esiodeo (fr. 23 Rzach) ha probabilmente alcunché di comune con essi. Eschilo è il primo scrittore greco che li ricordi, citando un Μᾱγος "Αραβος tra i capi dell'esercito di Serse (Pers., 318: un vago accenno all'Arabia, come a terra posta all'estremo del mondo abitato, si ha anche in Prom., 420). Abbondanti notizie si hanno in Erodoto, il quale mostra di avere una nozione geograficamente determinata dell'Arabia ("l'estrema terra abitata verso mezzogiorno", III, 107: egli vi comprende anche la regione africana a E. del Nilo, che porta tuttora il nome di "deserto arabico") e descrive i prodotti del suolo e i costumi degli abitanti in maniera abbastanza esatta, se pur non esente da esagerazioni e da racconti fantastici (la fenice, II, 73). La raccolta e il commercio dell'incenso, cui l'Arabia deve la sua rinomanza nel mondo classico, trovano ampio luogo nel racconto erodoteo (III, 107, 109-113: poiché questi prodotti sono caratteristici dell'Arabia meridionale, conviene ammettere che anche di questa regione fosse giunta notizia ai Greci fin dal sec. V a. C.); sono rilevate alcune particolarità etniche, come la già citata foggia della capigliatura, le abluzioni religiose (I, 198), il rito della commistione del sangue nella solenne conclusione dei patti (III, 4). Particolarmente preziosa è la menzione dei nomi delle due divinità supreme, 'Οροτάλτ e 'Αλιλάτ (variante Αλιατ), che Erodoto identifica con Dioniso e Afrodite Urania (III, 8, cfr. I, 131); di questi due nomi il primo è tuttora oscuro (un tentativo di ravvisarvi una corruzione del nome del dio Ruḍā è stato fatto dal Lidzbarski, in Ephemeris f. sem. Epigr., III, 90-92), nel secondo si riconosce la dea al-Lāt, del culto della quale sono numerosissime le testimonianze epigrafiche e letterarie. Con tutto ciò, le notizie propriamente storiche fornite da Erodoto sono alquanto magre e vaghe, e tutte s'aggirano intorno ai rapporti degli Arabi coi Persiani, ai quali pagavano un tributo di 1000 talenti d'incenso (III, 97): essi avrebbero aiutato con rifornimenti d'acqua l'esercito di Cambise movente attraverso il Sinai alla conquista dell'Egitto (III, 4, 9) e si trovavano numerosi nell'egercito che con Serse invase la Grecia, montati su cammelli, vestiti di una lunga tunica (ζειρά) e armati di lunghi archi a doppia incurvatura (VII, 69, 184). Né particolari storici molto più positivi si hanno in autori posteriori che pur rammentano gli Arabi, sempre in connessione coi Persiani (per esempio Senofonte, a proposito della rivolta di Ciro il giovane).
Soltanto le conquiste di Alessandro Magno, che allargarono così straordinariamente l'orizzonte geografico e politico dei Greci, diedero loro una nozione più precisa della vasta regione araba e dei suoi abitanti. Una ricognizione delle coste arabe dal Golfo Persico al Golfo Elanitico, fu ordinata dallo stesso Alessandro; i sovrani tolemei d'Egitto fecero esplorare a più riprese, nei sec. IV-III a C., le coste arabe del Mar Rosso e parte di quelle sul Golfo di ‛Aden, e ad esse si devono le notizie geografiche ed etnografiche raccolte da Eratostene, le quali per la prima volta distinguono nettamente i regni dell'Arabia meridionale dalle popolazioni nomadi del centro e del settentrione. All'età ellenistica risale la classica divisione dell'Arabia in Petrea, Deserta e Felice: quest'ultima denominazione forse è dovuta a un equivoco sul valore della radice ymn, che dal significato di "destro", ossia "meridionale" secondo l'orientamento dei Semiti, al quale si riallaccia il nome el-Yemen, assume quello di "fausto", "fortunato". In complesso, tuttavia, i popoli arabi coi quali i successori di Alessandro furono in diretto rapporto sono quelli stessi che già in passato erano stati noti agli Assiri, agli Ebrei, ai Persiani; ma, specialmente attraverso il commercio carovaniero, anche alcuni Arabi meridionali giunsero al Mediterraneo: ne è prova, tra l'altro, la dedica di un Mineo ad Apollo trovata a Delo. Quel movimento centrifugo che portava gli Arabi nomadi a spingersi verso settentrione, occupando le terre già tenute dagli Edomiti, Moabiti, Ammoniti e, ancora più a N., dagli stati aramei stanziati a oriente della Siria, culminò, prima della fine del sec. V, con la costituzione di un vasto regno arabo, il cui centro fu Petra, l'antica Sĕla‛, già capitale degli Edomiti: il regno dei Nabatei (v.), ai quali quasi sempre si riferiscono d'ora innanzi anche quelle notizie di scrittori classici che menzionano genericamente gli "Arabi". Il regno nabateo, attraverso alternative di espansione e di decadenza, fu in stretta relazione prima coi Seleucidi, poi coi Romani, ed ebbe una parte notevole nella storia politica dell'Asia anteriore; esso ci è sufficientemente noto attraverso i racconti degli autori classici, i grandiosi avanzi dei suoi monumenti, le numerose iscrizioni. Queste ultime, redatte in scrittura e in lingua non arabe, ma aramaiche, ci rivelano (come d'altra parte i monumenti, il cui stile presenta un caratteristico miscuglio di elementi orientali e classici) il carattere della civiltà degli Arabi viventi al margine del deserto e già sottratti all'ambiente di questo e sottoposti all'influsso dell'oriente ellenistico: si tratta di una civiltà profondamente impregnata di elementi aramaici, e in parte anche greci, che tuttavia non ha perduto del tutto il suo carattere nazionale, perché ha conservato l'uso della propria lingua (l'aramaico è usato soltanto come lingua letteraria), i proprî culti religiosi e, verosimilmente, la maggior parte dei proprî costumi. I Nabatei costituiscono il veicolo attraverso il quale l'Arabia centrale riceve la cultura superiore degli Aramei: questa, del resto, aveva trovato anche prima la via dell'interno dell'Arabia, probabilmente sotto l'egida delle guarnigioni di confine assire, neo-babilonesi, persiane, com'è attestato dalla presenza di un'iscrizione aramaica religiosa del sec. V a Taimā' (Tēmā', la località già menzionata dalla Bibbia e dalle iscrizioni assire e dove l'ultimo re di Babilonia, Nabonid, aveva fatto un lungo soggiorno), ad oriente della via da Petra a Medina. Nella penetrazione dell'Arabia l'influsso aramaico veniva a incontrarsi con quello della civiltà sudarabica, che anche esso, percorrendo le vie del commercio, si spingeva sia nella direzione dell'Arabia Petrea sia in quella del Golfo Persico, e, attraversando regioni abitate da nomadi, vi stabiliva stazioni di sosta e di rifornimento, esercitandovi forse anche l'egemonia politica. La mancanza quasi assoluta di esplorazioni archeologiche nel cuore dell'Arabia non consente di seguire con precisione tali percorsi, né di accertare la misura dell'influsso della civiltà sud-arabica sulla Arabia centrale; tuttavia i due centri, quasi contigui, di Ḥegrā (attuale el-Ḥiǵr o Madā'in Ṣāliḥ) e di Dĕdān (attuale el-‛Olā), sulla via ora percorsa dalla ferrovia del Ḥigiāz, le cui notevoli rovine furono più volte visitate da scienziati europei, attestano il limite della rispettiva estensione delle due civiltà, l'aramaica e la sudarabica: Ḥegrā segna l'estremità meridionale del regno nabateo, mentre Dĕdān, dapprima sottomessa all'influsso economico e culturale, e probabilmente anche politico, del regno dei Minei, divenne, col decadere di questo, il centro di un regno indipendente, quello dei Liḥyān, il quale più tardi si avvantaggiò grandemente della caduta del regno nabateo (105 d. C.) ed estese il suo potere anche sulla vicina Ḥegrā. Le iscrizioni liḥyānitiche di Dĕdān presentano la particolarità di essere scritte in un alfabeto derivato da quello mineo, ma in una lingua che è quasi identica all'arabo classico, del quale costituisce l'immediato antecedente: nella civiltà dei Liḥyāniti si ha dunque il più antico documento indigeno della storia degli Arabi propriamente detti. Si conoscono altri due tipi di iscrizioni, similissime per scrittura e per lingua alle liḥyānitiche, ma più recenti di esse: le tamūdene, nella stessa regione delle liḥyānitiche, e le ṣafaitiche, nella regione di eṣ-Ṣafā a SE. del Ḥaurān; le prime sono così chiamate perché attribuite (forse a torto) al popolo dei Thamūd, il cui ricordo è rimasto vivo anche nella tradizione indigena posteriore (v. oltre) e del quale recentemente sembra essersi scoperto il centro, nelle rovine presso la località di Ghwāfah, a SO. dell'oasi di Tabūk (v. A. Musil, The Northern Ḥeǧâz, pp. 185, 311, che menziona una lunga iscrizione bilingue in greco e in nabateo, tuttora inedita). I Tamudeni, che dovettero subire l'influsso tanto dei Nabatei quanto dei Minei, avrebbero raggiunto un certo grado di potenza dopo la decadenza dei Liḥyāniti.
Rimandando alla voce relativa la storia del regno dei Nabatei, basterà ricordare come esso cadde sotto l'egemonia romana dopo la conquista della Siria per opera di Pompeo (67 a. C.), e fu soppresso nel 105 d. C. da Traiano, il quale costituì la nuova provincia Arabia (v.) Gli ultimi due secoli della sua indipendenza politica furono quelli della sua maggior floridezza economica, sia per l'apertura dei mercati del mondo romano, sia perché, interrotte dopo l'infelice campagna di Crasso le relazioni con la Persia, il commercio dell'incenso e delle spezie, il quale prima, dall'India, seguiva anche la via del Golfo Persico e dell'Eufrate risalendone il corso fino ai punti di partenza delle vie carovaniere dirette verso la Siria settentrionale, abbandonò completamente quel percorso e si avviò esclusivamente attraverso l'Arabia meridionale e la Nabatea. Appunto il desiderio di dominare meglio tale commercio indusse i Romani a intraprendere una spedizione militare attraverso l'Arabia Deserta, con lo scopo di raggiungere i regni dell'Arabia meridionale: essa ebbe luogo nel 25-24 a. C. al comando del già prefetto d'Egitto Elio Gallo, che dal territorio nabateo, con guide indigene, si spinse verso l'interno e pervenne nel cuore del Yemen orientale; ma le gravi perdite subite nell'attraversare le inospiti regioni dell'interno e le malattie lo obbligarono ad un rapido ritorno con l'esercito decimato, rinunziando all'occupazione dei paesi conquistati. Tuttavia la spedizione diede notevoli risultati geografici, che si riflettono nel racconto di Strabone (XVI, pp. 765-768) sull'impresa di Gallo. Grande progresso nella conoscenza delle coste meridionali si ha nel Periplo del Mare Eritreo, composto in greco probabilmente fra il 40 e il 50 d. C. Anche la descrizione di Plinio (specialmente nel libro VI della Nat. Hist.: sua fonte principale è Giuba) e quella di Tolomeo (ll. V-VI), più variata la prima, più precisa nell'ubicazione dei luoghi la seconda, mostrano che nel sec. I e II d. C. anche la zona più remota dell'Arabia era sufficientemente nota al mondo greco-romano: per la prima volta sono menzionati in gran copia i nomi di varie tribù dell'interno, molti dei quali possono identificarsi con nomi noti alla tradizione storiografica araba; notizie abbastanza diffuse sono date sugli scarsi centri cittadini dell'interno, tra cui Macoraba (Mecca?) e Iathrippa (Yathrib, poi Medina).
Frattanto le tribù del deserto di Siria procedevano nella loro espansione lenta ma continua: fin dal sec. I a. C. si hanno nuclei arabi stanziati nell'Amano (vi sarebbero stati deportati da Tigrane di Armenia) e nell'Osroene, dove una dinastia araba impone il proprio dominio alla popolazione aramaica, ma, subendo l'influsso di una civiltà superiore, finisce col perdere completamente la propria nazionalità; nel regno di Osroene appunto si costituisce il centro della lingua, della chiesa e della letteratura siriache.
A partire dall'inizio del sec. II d. C. l'Arabia si chiude anche maggiormente alla penetrazione della civiltà classica, essendo venuto meno, con la caduta del regno nabateo, il tramite pacifico tra essa e le tribù nomadi, dalle quali il territorio dell'Impero è ormai separato e difeso per mezzo del limes, analogo a quelli dell'Africa, della Germania, della Pannonia, i cui grandiosi avanzi si riscontrano tuttora all'orlo del deserto siro-atabico (v. R. Brünnow e A. v. Domaszewski, Die Provincia Arabia, Strasburgo 1904-1909). Per un periodo abbastanza lungo le notizie sugli Arabi si fanno più scarse: quelli di essi che rimasero in più stretto contatto col mondo greco-romano furono i Saraceni, stanziati sulla costa orientale del Golfo Elanitico e nella penisola del Sinai, dai quali provengono probabilmente i numerosissimi graffiti nabatei detti "sinaitici". La prima menzione che si abbia di essi è del sec. I d. C., in uno scritto botanico di Dioscoride (anche Plinio li menziona, sotto la forma Araceni, e più tardi Tolomeo); verso la metà del sec. III sembra che avessero la supremazia sul gruppo di tribù stabilite ai confini dell'Impero romano, e nei secoli dal IV al VI il loro nome viene esteso dagli scrittori classici alle altre tribù, sì da divenire sinonimo di Arabi; gli scrittori bizantini, al tempo delle conquiste musulmane, diffondono questa accezione in Occidente, dove essa si è mantenuta fin quasi ai nostri giorni (fantastiche sono le etimologie del nome dei Saraceni dall'arabo sharq "oriente", benché sia stata ripresa recentemente dal Musil, o da saraqa "rubare", non meno di quella, di stretta fattura ecclesiastica e diffusa sia fra scrittori bizantini sia fra scrittori musulmani, che ne fa "i figli di Sara", la moglie di Abramo; la forma autentica del nome dei Saraceni sembra sopravvivere in quello degli es-Sawārqah (al singolare Sāriqī), portato tuttora da una piccola tribù abitante lungo la costa mediterranea del Sinai: v. B. Moritz, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., IA, coll. 2388-90; id., Der Sinaikult in heidnischer Zeit, in Abhandl. Ges. d. Wiss. Göttingen, phil.-hist. Kl., n. s., XVI, 2, 1917).
Del decadere della via commerciale attraverso l'Arabia meridionale e la Nabatea si avvantaggiò l'altra via sopra indicata, quella dell'Eufrate, specialmente dopo che Adriano, rinunziando alla politica bellicosa di Traiano, ebbe stabilito relazioni pacifiche coi Parti. E appunto col risorgere di questa seconda via coincide il fiorire di un altro stato arabo, che in un certo senso può dirsi successore dei Nabatei, quello di Palmira (v.). Questa città (in arabo Tadmur, già menzionata negli annali dei re assiri), situata in prossimità di sorgenti che ne fanno la stazione di tappa obbligata del percorso della parte settentrionale del deserto siro-arabico, acquistò tra il sec. II e il III d. C. il monopolio del commercio orientale, che, giunto per via fluviale fino a Dura sull'Eufrate, colonia macedonica trasformatasi in emporio palmireno, veniva avviato attraverso Palmira ai porti della costa siriaca (v. F. Cumont, Les fouilles de Doura-Europos, Parigi 1926, pp. XXXIII-XXXIX). La città, che salì a un grado di opulenza proverbiale di cui sono testimoni le magnifiche rovine soltanto parzialmente esplorate, era anch'essa, come la Nabatea, sotto il completo influsso della civiltà aramaica, con forti infiltrazioni greche, e in lingua aramaica sono redatte le sue iscrizioni; ma i nomi contenuti in queste rivelano che la massa della popolazione era di sangue arabo, e in modo particolare quelli della regina Zenobia (Zainab), di suo marito Odenathos (Udhainat), del loro figlio Uaballathos (Wahb Allāt) portano una schietta impronta araba, così come nel governo di Zenobia stessa si deve riconoscere, come si è visto, la continuazione dell'antichissimo costume arabo di una sovranità femminile. La sconfitta dei Palmireni per opera di Aureliano (273 d. C.), dopo il breve periodo di straordinaria espansione politica sotto Odenato e Zenobia, portò seco la rapida decadenza di questo, ultimo dei regni arabi dell'età antica (vi contribuì naturalmente la nuova rottura delle relazioni tra Persia e Roma, cui aveva dato occasione l'ascesa al potere della dinastia dei Sāsānidi), e con essa viene meno anche quel processo di penetrazione della civiltà nell'Arabia centrale, che aveva avuto un efficace tramite nei regni dei Nabatei e dei Palmireni: s'inizia per l'Arabia un periodo di regresso e di rimbarbarimento, cui contribuisce anche, per parte sua, lo sfacelo dei regni dell'Arabia meridionale.
Gli Arabi dal sec. IV al VI. - La storiografia araba, formatasi nel sec. II dell'ègira (VIII-IX d. C.) su tradizioni fissate e raccolte sullo scorcio del secolo precedente, ha elaborato un vasto e complesso sistema genealogico e storico che illustra le origini degli Arabi e narra le loro vicende nell'età preislamica. Senonché, al lume dell'indagine critica, quel sistema, per quel che concerne il periodo più antico, si rivela artificioso e di scarsa veridicità, risultando esso da una serie di combinazioni miranti a colmare la lacuna esistente fra i primi ricordi autentici degli Arabi e la tradizione biblica, che l'Islām aveva introdotta e convalidata. Si costruì pertanto un doppio albero genealogico delle tribù arabe e si dissero discendenti di Ismaele (Ismā‛īl) le settentrionali, di Qaḥṭān (identificato col Yoqtān biblico) le meridionali: le prime sarebbero penetrate nella penisola sotto la guida d'Ismaele e avrebbero respinto verso S. le seconde; antiche e favolose popolazioni, comprese sotto il nome generico di Amaleciti (v.), anch'esso di origine biblica, sarebbero state sopraffatte e sostituite. Che tra la enorme massa delle tradizioni elaborate dai dotti musulmani taluna possa aver conservato un riflesso di vicende realmente accadute, non è da escludersi: ne è indizio il fatto che talune genti alle quali le fonti arabe attribuiscono vicende favolose, sempre in connessione con la tradizione coranica che le afferma distrutte per castigo divino in seguito alla loro disobbedienza ai profeti, sono menzionate da scrittori classici e da altre fonti indipendenti; tali i Tamudeni (Thamūd), che appaiono già in un'iscrizione di Salmanassar II di Assiria, figurano come ausiliarî nell'esercito imperiale romano (equites Thamudeni), e recentemente sono stati anche attestati da epigrafi indigene (v. sopra), mentre il Corano addita come loro antica sede la già citata città di al-Ḥiǵr (Hegrā), in rovina al tempo di Maometto; tali gli ‛Ād, in cui la tradizione araba ravvisa i fondatori di quasi tutti i monumenti preistorici da essa segnalati nella penisola (presso a poco come i Pelasgi nella tradizione greco-italica) e che sembrano identici agli 'Οαδῑται di Tolomeo, ecc. Tali corrispondenze, naturalmente, inducono a credere che, anche colà dove ne manchi la conferma, qualche dato della tradizione possa avere fondamento storico; ma nulla può affermarsi con sicurezza nello stato attuale delle nostre cognizioni, mentre d'altra parte lo scetticismo intorno al valore complessivo della storiografia indigena è confermato dal fatto che del grande e potente regno dei Nabatei si è perduta ogni memoria, che di quello dei Lihyāniti non sussiste che una dubbia e debole traccia (v. G. Levi Della Vida, in Encykl. d. Islām, II, 29), che quello di Palmira è sì ricordato, ma in maniera totalmente alterata e con particolari fiabeschi tratti dal fondo generico del folklore (perfino il nome della regina è modificato nella forma az-Zabbā', mentre Zainab "Zenobia" figura come sua sorella!). Non senza significato, tuttavia, è che nella leggenda di Zenobia figuri un re di al-Ḥīrah (v. oltre), Giadhīmah al-Abrash della tribù di Tanūkh, che recentemente è apparso nella luce della storia grazie a un'iscrizione bilingue greco-nabatea che lo menziona quale "re dei Tanūkh" (v. E. Littmann, in Publications of the Princeton University Expeditions to Syria in 1904-1905 and 1909, Div. IV, Sect. A., Leida 1914, p. 38).
Storico nelle sue linee fondamentali, per quanto inquinato di leggenda nei particolari, è il racconto che la tradizione dà della migrazione delle tribù meridionali verso settentrione, che sarebbe stata provocata dalla rottura (anch'essa, secondo il pragmatismo religioso della storiografia araba, effetto di un castigo divino) della grande diga di Mārib nel Yemen, e dal conseguente isterilimento del paese per mancanza di irrigazioni regolari. Non vi è dubbio che, soprattutto dal sec. IV d. C. in poi, non già a causa di una singola catastrofe, ma in seguito all'intero processo della decadenza dei regni dell'Arabia meridionale (che appunto in quest'epoca vengono invasi e sottomessi dal regno etiopico di Aksum) e all'abbandono dell'agricoltura e dell'irrigazione, molte tribù abbiano preso la via del settentrione, essendo constatata, appunto sul limitare del deserto siro-arabico, la presenza di tribù di stirpe meridionale, come gli al-Azd, i Lakhm, i Kindah, i Kalb, i Tayyi': di questi ultimi, segnatamente, è confermata l'origine meridionale dalle notizie che i grammatici arabi hanno conservato intorno al loro dialetto, il quale si distingue dagli altri dell'Arabia settentrionale per particolarità che lo riavvicinano al sudarabico; e appunto i Tayyi' (già noti a Tolomeo e spesso citati da scrittori greci, specialmente cristiani, sotto la forma Ταενοι) sono tra le tribù arabe quella che come i Saraceni (v. sopra) rispetto alla civiltà greca, rappresentò, sul finire dell'età romana e nei primi secoli dell'età bizantina, gli Arabi nomadi rispetto alla civiltà orientale: il loro nome suona sinonimo di "Arabi" presso gli scrittori siriaci e nel Talmūd, proprio come quello dei Saraceni presso gli scrittori greci, e tale accezione è passata ai Persiani (Tāzī, attraverso il siriaco Tayyāyē) e dai Persiani ai Cinesi (Tā-zık). Turbati così gli antichi rapporti fra le tribù arabe, disfatti gli organismi politici che le tenevano in rispetto, indebolito, col venir meno di quegli organismi, l'influsso delle civiltà greco-romana e persiana, l'elemento nomade riprende vigore e si allarga dal centro della penisola verso la periferia, facendo retrocedere i limiti della civiltà e mantenendo, salvo che agli orli estremi, l'assetto sociale proprio dei Beduini.
Questo assetto, che non differisce sostanzialmente da quello che si osserva tuttora nelle società nomadi, arabe e non arabe, e che rappresenta un tipo estremamente arretrato di sviluppo, s'impernia sulla tribù (cfr. C.A. Nallino, Sulla costituzione delle tribù arabe prima dell'islamismo, in Nuova Antologia, 15 ottobre 1893, pp. 614-637), la quale costituisce l'unica forma di comunità sociale e politica, e porta come conseguenza il frazionamento atomico della società e il succedersi ininterrotto di guerriglie, cui dànno occasione la razzia e la vendetta del sangue; la vita economica ha forme elementari, fondata com'è quasi esclusivamente sulla pastorizia e continuamente turbata dall'inclemenza del clima, che alterna la siccità con le devastazioni di piogge torrenziali. Anche il livello intellettuale e morale è basso: se, da un lato, si notano nel beduino preislamico alcune qualita simpatiche, quali il sentimento dell'onore (spinto tuttavia quasi sempre a un orgoglio smisurato e talvolta puerile per la propria dignità di sangue), l'ospitalità, la resistenza fatalistica alle fatiche e alle vicissitudini della sorte, dall'altro lato sono suoi difetti inestirpabili la pigrizia, l'indisciplina, l'ostinato misoneismo, l'aspro egoismo appena mitigato dalla solidarietà di tribù; anche dal punto di vista delle virtù guerresche il beduino di rado ha spirito cavalleresco, e non disdegna fuggire dinnanzi al pericolo, anteponendo l'astuzia all'eroismo. Stupisce quindi riscontrare in un ambiente così poco progredito la presenza di alcune manifestazioni superiori, tra le quali la più notevole è la poesia, di cui l'Arabia preislamica ha lasciato cospicui esempî (v. arabi: Letteratura), e che è appunto retaggio dei Beduini, tanto più formalmente perfetta quanto più lontana dai centri cittadini.
Anche povero ci appare il sentimento religioso; a proposito del quale è tuttavia da osservare che l'antica poesia, fonte principale delle nostre conoscenze a questo riguardo, non rappresenta la vita reale in tutti i suoi aspetti, costretta com'è entro i suoi schemi convenzionali (alcunché di analogo si riscontra, p. es., nei poemi omerici), e che essa ci è stata trasmessa dalle generazioni musulmane, le quali non avrebbero certo pensato a conservarci poesie religiose pagane. Ma, anche con questa riserva, la religiosità beduina non sembra essere mai stata molto profonda (alla sua deficienza supplisce in parte, per ciò che si riferisce all'aspetto emozionale ed etico della religione, il sentimento dell'onore e il fatalismo), anche perché la vita nomade non consente largo sviluppo alle cerimonie cultuali: queste si riducono alle forme elementari del pellegrinaggio ai santuarî (generalmente situati in oasi coltivate o addirittura in città), nei quali sussistono le forme primitive dei culti semitici che in forma più progredita si riscontrano, in tempi diversi, in Palestina, in Abissinia e soprattutto, con carattere più specificamente arabo, nella Nabatea (dove però è anche da tener conto dell'influsso aramaico). Le divinità singole si ritiene abbian sede in rocce isolate e aguzze, talora rozzamente lavorate a obelisco, o in alberi isolati (la tradizione serba tuttavia ricordo di qualche figurazione antropomorfica), e all'intorno si estende un territorio sacro (ḥaram) entro il quale sono vietate determinate azioni (guerra, caccia, rapporti sessuali, ecc.); il culto consiste in sacrifici cruenti (talvolta accompagnati da riti di comunione, come quello dei Saraceni del Sinai descritto da S. Nilo: un cammello scannato all'apparire del pianeta Venere è divorato in fretta da tutti i membri della tribù), in corse sfrenate intorno al simulacro della divinità, in lancio di pietre, ecc. Tracce di totemismo si son volute riscontrare, ma senza fondamento (W. Robertson Smith, Kinship and marriage in early Arabia, Londra 1885, 2a ed. postuma 1903, superato per questa parte); sussistono, invece, avanzi di culti astrali (v. tra l'altro la testimonianza di S. Nilo or ora citata), che una volta dovettero essere più diffusi, grazie all'influenza dell'Arabia meridionale, della cui religione essi costituiscono la parte fondamentale. Caratteristica è la mancanza quasi assoluta del sacerdozio: gruppi famigliari o tribali che godono di speciali diritti di custodia e di amministrazione di singoli santuarî non possono dirsi sacerdoti, mancando loro l'attributo essenziale dell'esclusività del sacrificio, il quale è invece libero a tutti; e nemmeno è sacerdote, ma rappresenta uno stadio più primitivo, il kāhin (etimologicamente identico al kōhēn ebraico), indovino o mago che dà i suoi responsi con oscure sentenze in prosa ritmica e rimata, suggeritegli dal demone che l'ispira. Sicché anche per questo rispetto si nota da un lato il persistere di forme primitive, dall'altro lo scadimento di forme più progredite. Tra i nomi delle varie divinità (degli "idoli", come li chiama la pia tradizione musulmana) alcuni hanno carattere specificamente arabo, altri sono identici o affini a quelli di altre divinità semitiche, come p. es. il primo di quelli delle tre divinità femminili adorate nel santuario della Mecca: al-‛Uzzà ("l'assai potente", probabilmente il pianeta Venere), al-Lāt ("la dea" già conosciuta da Erodoto) al-Manāh, la divinità della sorte. Al concetto pansemitico del divino è altresì da riportarsi Allāh (v.), al quale non sembra si sia mai prestato un culto particolare, ma in cui forse è da riconoscere la sopravvivenza di un monoteismo primitivo e che, comunque, era ritenuto la manifestazione suprema della divinità (le tre dee della Mecca, ad es., erano considerate sue "figlie"). A un'altra manifestazione di religiosità primitiva, l'animismo, va riportata la credenza nei ginn: molteplici e multiformi spiriti senza carattere individuale, che riempiono di sé la natura, sono causa di fortune e di sventure, di malattie e di morti improvvise, operano da incubi e da succubi, assistono e ispirano indovini e poeti. (Sulla religione degli Arabi preislamici v. J. Wellhausen, Reste ar. Heidentums, cit., Th. Nöldeke, art. Arabs (ancient), in Hastings, Encycl. of Religion and Ethics, I; H. Lammens, Les sanctuaires préslamiques dans l'Arabie occidentale, in Mélanges de l'Univ. Saint-Joseph, X, 1926; id., Le culte des bétyles et les processions religieuses, ecc., in L'Arabie occidentale avant l'Hégire, Beirut 1928).
A partire dall'inizio del secolo VI d. C. sia la tradizione genealogica sia la storica cominciano ad apparire più degne di fede: a fissare la memoria delle vicende di quel tempo (che poco più di un secolo separa dalla redazione dei primi documenti scritti) contribuì la circostanza che essa venne per lo più tramandata in forma di commenti e di racconti esplicativi di poesie, nelle quali questa o quella tribù, questo o quel capo venivano esaltati o satireggiati. Attraverso il monotono succedersi dei consueti episodî delle guerre di razzia e di vendetta è difficile discernere lo svolgersi ordinato e coerente di un processo storico: tutt'al più è dato constatare qua e là la tendenza di varie tribù a unirsi in confederazioni più vaste (cui si contrappone d'altra parte il frazionamento di gruppi etnici numerosi in sottogruppi autonomi, spesso in lotta fra loro) e il ripetersi di tentativi di singole personalita più spiccate di costituirsi un potere personale più saldo che non sia quello del sayyid, capo-tribù, la cui autorità è fondata più che altro sul prestigio esercitato sui contribuli, senza carattere di sovranità e senza continuità ereditaria. Ma siffatti tentativi finiscono tutti col fallire dopo un successo effimero, e la mentalità beduina, fondamentalmente ostile a ogni forma di governo regolare, ne stigmatizza gli autori come "tiranni" e ha in odio il nome di "re". Ciò non toglie che alcuni "regni" arabi si siano pure istituiti anche in questo periodo; non tuttavia nel centro della penisola, bensì, come quelli che li avevano preceduti, ai margini di essa, nell'orbita di civiltà più progredite. I più cospicui di tali regni sono quelli stabilitisi presso Damasco e ad al-Ḥīrah (sulla riva destra del corso inferiore dell'Eufrate) per opera rispettivamente dei Ghassān, una famiglia della tribù degli al-Azd (v. ghassānidi) e delle tribù dei Tanūkh e dei Lakhm (v. lakhmidi); un altro, assai minore per potenza, fondato da una famiglia dei Kalb, ebbe il suo centro a Dūmat al-Giandal (l'attuale el-Giauf o Giauf Āl ‛Amr) nel deserto siro-arabico; un altro ancora, quello dei Kindah, dominòvarie tribù nomadi nelle regioni più interne, fra l'altopiano del Neǵd e la costa del Golfo Persico (v. G. Olinder, The Kings of Kinda of the family of Ākil al-Murār, Lund 1927, Lunds Universitets Arsskrift, n. s., I, XXVI, 6); anche su quest'ultima, nei territorî d'el-Baḥrein e dell'‛Omān, si costituirono o si rinnovarono piccoli principati, talora effimeri talora più stabili, sempre tendenti ad affermare la loro autorità sui nomadi circostanti, sempre insidiati e minacciati nella loro stessa esistenza dalla continua ostilità di questi. Dei regni dei Ghassān e di al-Ḥīrah possediamo una conoscenza più ampia e più precisa che degli altri, poiché per essi alla tradizione araba si aggiungono, confermandola, integrandola, correggendola, notizie di storici bizantini e di autori ecclesiastici greci e siriaci: quei due stati, infatti, furono in stretto contatto con gl'imperi romano e sāsānide, di cui erano rispettivamente agli stipendî (talora tradendo l'uno per darsi all'altro) in qualità di presidî dei confini contro le incursioni delle tribù nomadi (presso a poco come i Germani nell'Impero d'occidente) e di avamposti nel secolare conflitto tra Roma e la Persia. I sovrani ghassānidi figuravano come funzionarî dell'impero bizantino, da cui ricevevano il titolo di filarchi (ϕυλάαι o ϕύλαρχοι), talora anche quello di patrizî, e l'insegna del diadema; analoghi onori ebbero dai re persiani i sovrani di al-Ḥīrah, a uno dei quali si riferisce un documento dell'anno 328 (l'iscrizione di an-Namārah, il più antico documento linguistico dell'arabo classico), in cui il capo lakhmida s'intitola pomposamente "re di tutti gli Arabi". Peraltro, verso la fine del sec. VI, gli stipendî regolari cessarono da parte dell'uno e dell'altro impero (il regno di al-Ḥīrah anzi scomparve), causa non ultima, col venir meno dei due "stati cuscinetto", della facilità con cui poco più tardi gli Arabi irruppero nella Siria e nell'‛Irāq.
Tanto i Ghassānidi quanto i Lakhmidi avevano assunto il cristianesimo, subendo l'influsso delle popolazioni aramaiche, nel territorio delle quali erano stanziati; anche numerose tribù seminomadi e nomadi della periferia erano cristiane, e la storia ecclesiastica siriaca conosce dei "vescovi degli Arabi" che erano peraltro siriaci di nazione e di lingua; la conoscenza del cristianesimo era stata poi portata molto profondamente nel deserto dai monaci eremiti che colà si ritiravano; tuttavia la nuova religione non aveva modificato se non molto superficialmente i caratteri essenziali della mentalità beduina. Anche più lontano si era spinta la penetrazione del giudaismo, introdottosi fin da qualche secolo prima dell'era cristiana lungo la via del commercio e rappresentato da colonie agricole stanziate nel Ḥigiāz (oasi di Taimā', Wādī 'l-Qurā, Khaibar, Yathrib). Elementi arabi si erano aggregati a questi primi nuclei, abbracciandone la religione, la quale, non diversamente dal cristianesimo, doveva presentarsi in forme alquanto degenerate; tuttavia il giudaismo, essendo in Arabia radicato prevalentemente tra i sedentarî, doveva trovarsi in complesso a un livello alquanto più elevato del cristianesimo (v. A.J. Wensinck, Mohammed en de Joden te Medina, Leida 1908; R. Leszynsky, Die Juden in Arabien zur Zeit Mohammeds, Berlino 1910; I. Wolfenson, Storia degli Ebrei in Arabia, Cairo 1927, in arabo). Anche nell'Arabia meridionale cristianesimo e giudaismo erano presenti; il primo, specialmente, era stato favorito dalle due invasioni abissine del sec. IV e del VI, essendo esso la religione ufficiale del regno di Aksum, e la tradizione ricorda aspri conflitti tra le due fedi, in cui al motivo religioso s'intreccia quello politico (v. areta, dhū nuwās, himyariti, naǵrān, omeriti martiri). Ma la conquista persiana dell'Arabia meridionale, avvenuta alla metà del sec. VI, portando l'ultimo colpo all'esistenza degli stati sudarabici e all'influenza abissina su di essi, dovette anche indebolire il prestigio e l'efficacia del cristianesimo locale.
Come si è visto, alcune oasi dell'Arabia centrale erano state occupate da Ebrei: da esse, con lo sviluppo dell'agricoltura e dell'industria, specialmente quella della fabbricazione delle armi, ebbero origine villaggi e borgate. La più importante di queste era Yathrib, già centro urbano fin da epoca remota, dove gli Ebrei erano riusciti a introdursi, ma dove anche, in seguito a un'invasione di due tribù beduine venute dal sud (al-Aws e al-Khazraǵ, appartenenti al già citato gruppo degli al-Azd), la loro preminenza politica era venuta meno; tuttavia, sulla fine del sec. VI, una lunga guerra fra le due tribù aveva ridato agli Ebrei una parte del loro potere. Di altre città si ha pure ricordo, specialmente nelle regioni orientali della penisola, dove il traffico del Golfo Persico favoriva le agglomerazioni urbane, e, naturalmente, nell'Arabia meridionale, dove esse ormai non erano se non le rappresentanti decadute dell'antico splendore di civiltà. La "città" araba di quest'epoca è un piccolo centro, continuamente esposto a tentativi di occupazione e di saccheggio da parte dei beduini, dai quali i cittadini si garantiscono mediante il pagamento di tributi e talora con una sorta di soggezione politica. Soltanto nella parte occidentale della penisola, il Ḥigiāz, in posizione tutt'altro che favorevole per condizioni climatiche, ma dove l'agglomeramento urbano era dovuto a cause economiche e religiose, si trovavano due centri di una certa importanza, aṭ-Ṭā'if (nel territorio della quale si coltivava la vite e dove sembra c e la cultura intellettuale fosse più progredita che altrove) e Mecca (Makkah), il centro più importante dell'Arabia. Ivi il santuario al-Ka‛bah, dove si adoravano Allāh e le sue tre figlie (v. sopra), era meta di pellegrinaggi e dava occasione a mercati, ed ivi una tribù, quella dei Quraish (Coreisciti), era salita a un grado di civiltà superiore a quella dei nomadi, arricchendosi col commercio carovaniero (ancora superstite, benché di molto scaduto da quello che era stato al tempo del fiorire dell'Arabia meridionale e dei Nabatei), aggregandosi altre tribù in qualità di clienti e reggendosi sotto il dominio delle famiglie più ricche, che costituivano una specie di senato aristocratico, dando alla Mecca quasi il carattere di una repubblica mercantile. La vita economica vi si svolgeva in forme molto più progredite di quelle, elementarissime, del resto dell'Arabia, e la città esercitava una specie di egemonia morale, che non era, beninteso, vero dominio politico, sul resto dell'Arabia occidentale (v. H. Lammens, La Mecque à la veille de l'Hégire, in Mélanges de l'Université Saint-Joseph, IX, Beirut 1925).
L'Islām e l'impero arabo. - Lo stato teocratico di Medina e l'unificazione politica dell'Arabia. - Con lo stabilirsi della comunità musulmana (per la storia religiosa v. islamismo, maometto) a Yathrib (che d'ora innanzi assume il nome di al-Madīnah, Medina) si costituisce l'embrione di un organismo politico fino allora ignoto all'Arabia: lo stato teocratico. Maometto, giunto a Medina con un esiguo numero di seguaci verso la fine del 622, vi esercita opera di pacificazione fra le due tribù rivali al-Aws e al-Khazraǵ, le amalgama coi suoi fedeli, distrugge e sottomette, dopo un breve periodo di convivenza pacifica, la popolazione ebraica, e crea una comunità nella quale il vincolo di associazione è dato non già dalla comunanza del sangue, ma da quella della fede e del culto (ummah "nazione", o giamā‛ah "comunità"). A capo di essa sta Allāh, il quale le manifesta i suoi voleri attraverso le rivelazioni coraniche fatte al Profeta, e dal decreto divino originano le prime rudimentali istituzioni di diritto pubblico (elemosina legale, spartizione del bottino) e di diritto privato (matrimonio, eredità).
La comunità medinese, mentre si organizzava sotto il suo capo, si cimentava nella guerra coi Meccani. La battaglia di Badr (2 ègira, 623 d. C.), in cui i seguaci di Maometto sorpresero e misero in rotta una carovana di Coreisciti riportando bottino e prigionieri, non differì nel suo aspetto esterno dalle solite razzie; ma il successo cementò l'unità dei musulmani e diede loro la piena coscienza dell'irremissibile rottura col passato. L'anno seguente i Meccani sconfissero i musulmani a Uḥud presso Medina, e nel 5 èg., 627 vennero, con l'aiuto di tribù alleate, a porre assedio alla città stessa, furono respinti, e il loro insuccesso valse ad accrescere il prestigio di Maometto, il quale, continuando la sua sistematica campagna contro gli Ebrei, dopo averli massacrati o espulsi da Medina soggiogò la loro fiorente colonia di Khaibar, e in seguito le altre, arricchendo sé e i suoi col bottino e con l'esigere metà dei proventi delle terre. Lo stato medinese andava così acquistando una maggiore estensione territoriale; si costituivano, con la quota di terre e di bottino spettante "ad Allāh e al suo profeta", un demanio e un erario pubblico. Richiamate dalla prospera fortuna di Maometto, molte tribù dell'Arabia centrale gl'inviarono ambascerie e strinsero patti d'amicizia con lui (la tradizione li considera come vere e proprie conversioni all'islamismo), accettando di pagargli tributo e di accogliere suoi rappresentanti. Gli stessi Meccani, convinti ormai di non poter debellare il fuoruscito, si rassegnarono a trattare con lui: fu dapprima concluso un armistizio (tregua di al-Hudaibiyah, 6 èg., 628), due anni dopo Maometto entrava come trionfatore alla Mecca (ch'egli, con accorta politica, aveva proclamata città santa dell'Islām) e la riuniva allo stato di Medina; mediante un tacito compromesso con l'aristocrazia coreiscita, questa, in cambio della sua adesione alla nuova fede e al nuovo ordine di cose, conservava nella direzione politica dello stato musulmano quell'influenza di cui aveva goduto al tempo del paganesimo: da essa usciranno, negli anni seguenti, i generali, i governatori, i califfi che conquisteranno e reggeranno lo steminato impero arabo. Il trionfo di Maometto si risolveva pertanto, con un paradosso non infrequente nella storia, in un aumento di prestigio per coloro che lo avevano prima combattuto, ma esso conferiva all'egemonia dei Coreisciti sull'Arabia centrale un carattere e un'energia nuovi, costituiti dal segnacolo della religione e dalla fede nell'assistenza divina sempre presente ed agente attraverso il Profeta vittorioso.
Questi tuttavia mantenne la propria sede a Medina, dove il nucleo dei suoi primi compagni gli formava una sorta di consiglio autorevole e devoto e dove le due tribù che gli avevano prestato aiuto nei giorni delle prove più dure, ormai unificate sotto la denominazione generale di Anṣār ("gli aiutatori"), costituivano per lui il più valido e fedele presidio. E a Medina appunto, in seno ai Compagni e agli Ansār, si formò quella salda compagine la quale, all'inaspettata morte di Maometto (13 rabī‛ I 11, 8 giugno 632), non disperò dell'avvenire dell'Islām, e ne affidò la direzione politica e religiosa ad Abū Bekr (v.), il fedele e saggio compagno, padre di ‛Ā'ishah (v.), la sposa prediletta del Profeta. Il titolo di khalīfah ("successore"), che Abū Bekr assunse o che gli fu dato, mancava, come di ogni precedente storico nella tradizione araba, così di ogni precisazione teorica: con esso si volle indicare, non già che il carattere profetico fosse trasmissibile ad altri dopo Maometto, ma che il nuovo reggitore della comunità l'avrebbe guidata secondo lo spirito del Profeta scomparso; l'idea che nuovi problemi si sarebbero presentati, che decisioni d'indole generale e fondamentale avrebbero dovuto essere prese indipendentemente da quanto aveva fatto e detto Maometto, non poteva affacciarsi alle menti di coloro che ne raccolsero l'eredità senza preparazione preventiva. Come in quasi tutti i grandi rivolgimenti storici, risoluzioni d'importanza capitale per l'avvenire furono prese sotto lo stimolo della necessità urgente, e le conseguenze remote non furono né prevedute né valutate (v. califfato, califfo).
Abū Bekr ebbe, fin da principio, l'assistenza continua di ‛Omar (v.), la cui personalità potente si era già manifestata essendo ancor vivo Maometto e che fu, dopo il breve periodo del califfato di Abū Bekr (morto nel 13 èg., 634), il suo naturale successore. I primi tempi del califfato furono straordinariamente difficili: la maggior parte delle tribù alleate, ritenendosi legate soltanto personalnente con Maometto, rifiutarono il tributo e rimandarono i rappresentanti musulmani. Dalla pretesa del califfo, che i patti continuassero a esser validi, risultò una violenta guerra (conosciuta col nome di riddah "apostasia"), in cui i musulmani, con l'aiuto delle tribù rimaste fedeli, sgominarono i ribelli, dopo una lotta più aspra e più sanguinosa di quante da gran tempo avesse conosciute l'Arabia (battaglia della al-Yamāmah 12 èg., 633). Conseguenza della vittoria fu l'unificazione della maggior parte dell'Arabia sotto il dominio dell'Islām, il quale peraltro rispettò (né avrebbe potuto essere altrimenti) l'assetto sociale del paese, ma in un certo senso amalgamò le tribù, costringendole, di buona o di cattiva voglia, entro un organismo superiore, nella cornice del quale esse vivranno e agiranno d'ora in avanti, per forte che sia e continui a essere il loro innato particolarismo. Per tal modo l'Arabia, per la prima volta nel corso della sua storia, conobbe l'unità nazionale; sennonché (circostanza, questa, grave di conseguenze) tale unità è formulata in termini religiosi: arabismo e islamismo sono sinonimi, e tali rimarranno per lungo tempo avvenire; l'Islām, anche dopo esser divenuto religione e civiltà universalistica, non riuscirà mai a spogliarsi interamente della veste araba nella quale dapprima è comparso nella storia mondiale.
Le conquiste e la formazione dell'Impero arabo. - Il fenomeno della formazione dell'impero arabo è uno dei più meravigliosi che la storia delle conquiste militari ricordi: in dieci anni (13-23 èg., 634-644) poche decine di migliaia di Beduini sbaragliano gli eserciti di due potenti imperi e fondano uno stato unitario che si estende dall'altipiano iranico fino alla Cirenaica, e che pochi decennî dopo si estenderà dall'India all'Atlantico. L'indagine storica, cercando di darsi ragione delle cause e degli elementi di questo fenomeno, riesce a sceverare questi e quelle con chiarezza sufficiente; l'essenza specifica e intima del fenomeno stesso, la causa ultima del suo essere concreto rivestono tuttavia quel carattere di unicità, non privo di mistero, al quale è improntato ogni grande avvenimento storico. All'affemmarsi del nuovo principio unificatore dell'Arabia faceva riscontro, nei due imperi confinanti, una profonda crisi, attraverso la quale si andava compiendo la decadenza delle monarchie bizantina e sāsānide, stremate dalla diuturna rivalità (che era culminata tra la fine del sec. VI e l'inizio del VII con la temporanea conquista persiana della Siria e dell'Egitto e con la loro riconquista per opera di Eraclio), profondamente scisse dalle contese religiose (nell'Impero bizantino tra l'ortodossia imperiale e il monofisismo prevalente nelle provincie orientali, in quello sāsānide tra lo zoroastrismo ufficiale e il cristianesimo nestoriano delle provincie di lingua aramaica), esaurite per l'intollerabile fiscalismo, causa ed effetto a un tempo di quell'esaurimento; si aggiunga, per Bisanzio la minaccia delle invasioni slave nei Balcani, la guerra coi Longobardi in Italia; per la Persia, l'azione dissolvente del feudalesimo e della casta sacerdotale dei magi. Attraverso le frontiere del deserto ormai sguarnite di presidî indigeni (v. sopra) incursioni di nomadi erano avvenute con particolare intensità negli anni immediatamente anteriori all'Islām, e specialmente lungo il confine del basso Eufrate avevano avuto luogo scontri vittoriosi degli Arabi coi Persiani (battaglia di Dhū Qār, 610?). La grande invasione araba non fu, in sostanza, se non la prosecuzione intensificata di quelle incursioni.
La tesi storica prevalente in passato, secondo la quale le conquiste arabe sarebbero state dovute a un prorompere di fanatismo religioso e avrebbero avuto per fine immediato la conversione degli infedeli ("l'Islām o la morte!" è la frase leggendaria in cui si compendia questa tesi), è stata refutata definitivamente dagli argomenti del Caetani (v. bibl.), il quale ha richiamato l'attenzione su un duplice aspetto delle conquiste stesse: esse furono iniziate proprio da quelle tribù abitanti l'estremo Nord dell'Arabia che erano le meno tocche dall'influsso musulmano, e inoltre, durante l'intero primo secolo dell'impero arabo, le conversioni tra i popoli conquistati furono relativamente poche e non sempre desiderate dai conquistatori, dei quali la religione musulmana rimase appannaggio esclusivo. Le conquiste, secondo le deduzioni estreme del Caetani, non avrebbero avuto né carattere né fine religiosi: il loro primo e intimo movente sarebbe anzi da attribuirsi a cause fisiche, ossia al progressivo inaridimento del clima arabo, per cui le tribù nomadi, prive di pascoli abbondanti, sarebbero state mosse alla ricerca di terre più fertili. Secondo questa costruzione storica, le conquiste arabe rappresenterebbero l'ultima fase della plurimillenaria espansione dei Semiti (v. il principio della presente voce) e l'islamismo non sarebbe se non l'occasione che favorì e accelerò un processo autonomo e fatale. In realtà il fattore religioso ebbe un'importanza decisiva nell'imprimere al movimento di conquista degli Arabi un carattere di unità, nel sostenere l'entusiasmo degl'invasori, nel dar loro la possibilità di costituirsi in stato organico nei vastissimi territori occupati, nell'esprimere dalla massa barbarica quelle energie individuali che seppero dirigere e governare il movimento anarchico dei Beduini. Occorre tuttavia non equivocare sul termine religione": esso va inteso nell'accezione molteplice e ricca di gradazioni e di sfumature che l'indole del fenomeno religioso comporta, e non significò probabilmente, per la maggior parte di coloro che presero parte alle conquiste arabe, se non la fede elementare nell'aiuto soprannaturale di Allāh, che aveva mandato il Profeta per procurare agli Arabi trionfi e ricchezze. Un tal genere di fede, che il successo dovette rinsaldare a dismisura, non implica né un capovolgimento della psiche beduina né la comprensione di astruse dottrine teologiche.
Iniziatesi sotto Abū Bekr, le conquiste presero un andamento più organico e regolare mercé l'energico intervento del califfo ‛Omar, il quale, pur senza muoversi da Medina, ne assunse la direzione e nominò al comando delle milizie arabe (più accozzaglia di tribù che esercito regolare) generali di sua fiducia, tolti dai Compagni più anziani o dall'aristocrazia coreiscita. Costoro, benché impreparati al nuovo compito tanto più vasto e complesso di quanto essi avessero mai operato e veduto nella cerchia ristretta della politica meccana, rivelarono capacità insospettate: Abū ‛Ubaidah ibn al-Giarrāḥ, Sa‛d ibn Abī Waqqāṣ, ‛Amr ibn al-‛Ās, Yazīd ibn Abī Sufyān e suo fratello Mu‛āwiyah condussero gli Arabi alla vittoria sopra le truppe bizantine e persiane, nonostante la secolare tradizione militare e la superiorità di armamento di queste. Ma sopra tutti rifulse il genio guerresco di Khālid ibn al-Walīd (v.), già vincitore della riddah, il quale, dopo aver contribuito alle vittorie sui Persiani compiute da al-Muthannà ibn al-Ḥārith, un capo della tribù cristiana di confine degli Shaibān, raggiunse l'esercito di Siria con arditissima marcia attraverso il deserto, prese di fianco l'esercito bizantino e lo sconfisse ripetutamente (battaglie di Aǵnādain, di Fiḥl, del fiume al-Yarmūk, 13-15 èg., 634-636), costringendolo a sgombrare la Palestina e gran parte della Siria. Anche più fulminea e più definitiva fu la lotta contro i Persiani: in una serie di battaglie (al-Buwaib, al-Qādisiyyah, Gialūlā, 14-16 èg., 635-637) il loro esercito fu disfatto e i suoi avanzi si salvarono a stento sull'altipiano iranico, dove l'inseguimento per parte degli Arabi procedette più lentamente; ma l'alta e la bassa valle dell'Eufrate e del Tigri, comprendenti la Babilonide (al-‛Irāq) e la Mesopotamia (al-Giazīrah), e la stessa capitale dell'Impero, Ctesifonte-Seleucia (in arabo al-Madā'in), rimasero in mano degl'invasori. I Bizantini resistettero più a lungo: sconfitti in campo aperto, si ritirarono nelle città costiere della Siria, al riparo delle fortificazioni e sorretti dalla flotta, né gli Arabi, ignari dell'arte dell'assedio, furono per allora in grado di sloggiarli; anche molte delle città dell'interno si sottrassero da principio all'occupazione e rimasero come isole sperdute in mezzo alle campagne di cui gli Arabi erano padroni incontrastati: situazione che ricorda quella in cui si erano trovate, duemila anni prima, molte di quelle medesime città, allora in potere dei Cananei o degli Hittiti, di fronte all'invasione degli Ebrei in Palestina. Ritiratesi le guarnigioni bizantine, la sola autorità rimasta in piedi era quella dei vescovi, e furono essi appunto a trattare la resa delle singole città, che capitolarono a condizioni non troppo onerose (v. oltre): poche soltanto furono prese d'assalto. Dalla Palestina, via naturale di transito all'Egitto, la marea araba si riversò anche in questa direzione: l'impresa fu preparata e condotta, per iniziativa spontanea, da ‛Amr ibn al-‛Ās, il quale, con geniale concezione strategica, puntò direttamente sulla fortezza di Babilonia (a sud dell'attuale Cairo), chiave delle comunicazioni tra l'alto e il basso Egitto, e, battuti colà i Bizantini (19 èg., 640), isolò l'alto Egitto dal mare, tagliando fuori Alessandria e il suo retroterra: la resa di Alessandria era inevitabile, e avvenne poco dopo; il resto dell'Egitto cadde da sé in mano al conquistatore, che più tardi (21 èg., 642) si spinse fino alla Pentapoli (attuale Cirenaica) e a Tripoli, scacciando anche di lì le guarnigioni bizantine. Nel frattempo luogotenenti del califfo estendevano la conquista alla parte settentrionale della Siria, giungendo in breve alla catena del Tauro, le cui aspre gole, facili a difendersi, chiusero all'invasione la via dell'Asia minore, e segnarono, per quattro secoli ancora, il confine tra l'impero bizantino e il nuovo impero arabo. La facilità con la quale gli eserciti bizantino e persiano furono sbaragliati ha un che di prodigioso: occorre tuttavia tener presenti, oltre alle già menzionate condizioni di decadenza dei due imperi, la circostanza che parte delle loro milizie era formata di mercenarî arabi, elemento infido che passò agevolmente al vincitore consanguineo, e l'irruenza degli Arabi, i quali per la prima volta nella loro storia mossero all'assalto con grandi masse di cavalleria che presero il posto degli esili squadroni con i quali fino allora avevano condotto le loro incursioni.
La tradizione che attribuisce a ‛Omar il definitivo assetto amministrativo dello stato musulmano ha, secondo il solito, accentrato intorno a una grande figura il risultato di un processo graduale e complesso; ma nell'insieme ha veduto giusto: le vastissime, fulminee conquiste compiute durante il califfato di ‛Omar suscitarono problemi impensati, così rispetto ai rapporti tra gli abitanti delle terre conquistate e i nuovi signori, come rispetto all'organizzazione di questi, i quali. esigevano soluzioni immediate; gli elementi essenziali della costituzione e l'amministrazione dell'impero dovettero esser fissati senza indugio. Gli Arabi si trovarono di fronte alle popolazioni della Mesopotamia, dell'‛Irāq, della Siria, dell'Egitto in condizioni analoghe a quelle dei Germani nell'impero romano al tempo delle invasioni barbariche. Il carattere militare dell'occupazione, la distinzione giuridica tra vincitori e vinti vennero mantenuti: gli Arabi evitarono perfino, sul principio, di stabilirsi nelle città, dove le condizioni di vita erano troppo diverse dalle loro, e preferirono concentrarsi in località adatte, generalmente non lontane dai centri urbani, in grandi accampamenti nei quali ogni tribù aveva il proprio quartiere e le abitudini della vita del deserto si perpetuavano senza troppi mutamenti, mentre l'organizzazione militare non si spezzava e consentiva il rapido allestimento di nuove spedizioni. Sorsero così i campi militari stabili (miṣr, plur. amṣār) di al-Kūfah e di al-Baṣrah nella Babilonide, quello di al-Urdunn (Giordano) in Palestina, quello di al-Fusṭāṭ in Egitto, come più tardi sorgerà quello di al-Qairawān in Tunisia, e molti di essi si trasformeranno poi in città, le future metropoli provinciali, di popolazione e carattere schiettamente arabi. Altrove questo processo di urbanizzamento degli Arabi si era già compiuto, come p. es. a Damasco. I conquistatori vivevano sul paese: ogni combattente (muqātil), in quanto tale e indipendentemente dalla quota parte di bottino che poteva spettargli in seguito a una spedizione vittoriosa, riceveva uno stipendio regolare (‛atā'), in corrispettivo del quale doveva provvedersi a proprie spese di armi e di cavallo. La necessità di tenere un elenco degli aventi diritto allo stipendio dà origine al "registro" (dīwān), in cui i combattenti sono suddivisi per tribù, che darà più tardi il nome all'intero organismo amministrativo. Ma non tutte le rendite, ordinarie e straordinarie, sono divise tra i combattenti: la quinta parte di esse (la proporzione è fissata dal Corano, e la prescrizione continua una pratica dell'età preislamica) costituisce il "tesoro di Dio" (māl Allāh: Iddio è qui, come sempre nella concezione teocratica, sinonimo di "stato"), che si alimenta anche dell'elemosina legale (zakāh), già imposta ai fedeli dal Corano. Le rendite normali più cospicue provengono tuttavia dall'imposta cui sono soggetti gl'infedeli. A questi non sono stati tolti né la proprietà né l'uso delle loro terre ma le comunità, cristiane la più parte, ma anche giudaiche e, nel territorio già persiano, zoroastriche, sono tenute a corrispondere un tributo in danaro o in natura, del puntuale ed esatto pagamento del quale sono responsabili le autorità poste a capo delle circoscrizioni territoriali, generalmente le stesse dell'amministrazione bizantina e sāsānide; nelle città, poi, per lo più i vescovi. L'amm0ntare complessivo del tributo (chiamato gizyah o kharāǵ: i due termini sono in origine equivalenti e si riferiscono il primo alla Siria e all'Egitto, il secondo all'‛Irāq, ripetendo il nome da istituti preesistenti all'occupazione araba) è fissato anno per anno (esistono papiri del sec. I dell'ègira in cui tale sistema è documentato) dal governatore arabo, e il capo della comunità infedele è libero di ripartirne il carico a suo talento tra i proprî amministrati. In cambio di questo tributo gl'infedeli vengono presi sotto la protezione" dei musulmani (dhimmah, donde il nome di dhimmī (v.) col quale è designato il suddito non musulmano): i loro averi, l'esercizio del culto e l'applicazione della loro legge nei rapporti personali sono garantiti dall'autorità musulmana, che assume anche la loro difesa contro attacchi stranieri (donde l'esenzione dei non musulmani dal servizio militare, che durerà fino ai nostri giorni). Nell'insieme, come si vede, condizioni non dure, e senza dubbio molto migliori di quelle che erano fatte alle popolazioni indigene dai governi precedenti. La dominazione araba, passato lo sbigottimento dell'improvvisa invasione, fu dunque accolta e tollerata di buon grado. S'intende che dei tributi degl'infedeli era tenuta esatta registrazione: rimasero pertanto in piedi, nei loro elementi essenziali, le amministrazioni precedenti, e, data l'incapacità degli Arabi di provvedervi direttamente, gli antichi funzionari rimasero ai loro posti; perfino le lingue greca e persiana continuarono a essere usate nei registri per quasi tre quarti di secolo, e la prevalenza dell'elemento cristiano ed ebraico nel personale amministrativo durò lunghissimo tempo. Tuttavia, accanto a quello antico andava formandosi tutto un nuovo organismo amministrativo, emanante dal califfo e destinato alle particolari necessità militari e politico-religiose degli Arabi. Ogni provincia ha un governatore (wā‛mil o ‛āmil), cui il califfo delega le funzioni di capo militare e di direttore della preghiera pubblica, assistito da un corpo di guardia (shurtah). Indipendente da lui, e nominato direttamente dal califfo, è il giudice (qāḍī), le cui attribuzioni, da principio alquanto vaghe, andarono meglio detenninandosi in progresso di tempo.
Gli enormi acquisti materiali dei primi invasori, estinguendo il loro desiderio di preda, avrebbero dovuto far sostare l'espansione araba: se così non fu, il motivo ne va cercato nell'afflusso di forze fresche richiamate dall'interno dell'Arabia dagli straordinarî successi di coloro che avevano iniziato le conquiste. Si apre così una seconda fase di spedizioni militari, le quali si dipartono dai grandi accampamenti fondati dai primi conquistatori (v. sopra) e s'irradiano in zone più estese: tale è il carattere dell'espansione araba sotto il terzo califfo, ‛Othmān (v., 23-35 èg., 644-656), e in questo periodo si compie la conquista dell'intera Persia (l'ultimo re sāsānide Yezdegerd III è ucciso mentre tenta di salvare gli avanzi del suo regno rifugiandosi nei monti dell'Irān) e gli Arabi si affacciano alle distese steppose dell'Asia centrale, venendo a contatto coi Turchi nomadi, mentre, protendendosi lungo la costa orientale del Golfo Persico, giungono ai confini dell'India. Dalla Siria spedizioni annuali infestano l'Asia minore e minacciano l'Armenia, ma senza giungere a occupazioni permanenti. In Africa, il dominio arabo oltrepassa i limiti dell'Egitto, della Pentapoli e della Tripolitania e s'insinua verso la Tunisia, risale il Nilo e si stabilisce in Nubia. Contemporaneamente, per togliere ai Bizantini il dominio del mare, si forma una marina da guerra araba (le ciurme dovettero tuttavia continuare a essere reclutate tra gl'indigeni); le isole di Cipro, Rodi e Creta sono corse e saccheggiate e la prima grande vittoria navale araba è riportata dal successore di ‛Amr ibn al-‛Āṣ nel governo dell'Egitto, ‛Abd Allāh ibn ‛Abī Sarh, a Phoinix sulla costa della Licia (34 èg., 654).
Le lotte civili e l'avvento degli Omayyadi. - Come Roma vide estendersi il suo impero pur attraverso il divampare delle guerre civili, così il giovane impero arabo, mentre proseguiva nelle conquiste, era profondamente turbato da rivolgimenti interni, che erano a un tempo crisi di sviluppo e lontani prodromi di dissoluzione. Un intimo dissidio era già contenuto, come si è visto, nell'origine stessa dello stato islamico: l'elemento più intelligente, più energico, più civile era dato in esso da quell'aristocrazia meccana che aveva osteggiato Maometto all'inizio della sua predicazione, e nella quale i musulmani di vecchia data, e speciahnente gli Anṣār medinesi vedevano con risentimento la lunga infedeltà e la dubbia conversione preferite alla propria antica e sicura fede. Poiché appunto dell'aristocrazia meccana ‛Omar aveva fatto la base della propria politica interna, a essa aveva affidato comandi di eserciti, governi di provincie. Finché l'energico califfo rimase in vita, il suo senno seppe mantenere in equilibrio i due partiti, la sua autorità seppe imporre silenzio ai malcontenti; ma dopo la sua morte (egli cadde pugnalato da uno schiavo cristiano, per vendetta privata, a quanto pare, ma non senza qualche sospetto di movente politico) la bilancia piegò decisamente dalla parte dei Meccani: il suo successore, designato tra i proprî membri da un consiglio (shūrà) composto dei Compagni più anziani, i quali erano peraltro tutti meccani, risultò appunto il solo di essi che fosse a un tempo musulmano della prima ora e membro dell'aristocrazia meccana aggiungendo a questi titoli quello di essere genero di Maometto: ‛Othmān, appartenente a un ramo della famiglia dei Banū Umayyah (Omayyadi, ‛Ommiadi, [v.]), la più insigne delle grandi famiglie della Mecca. Uomo di sincera pietà religiosa, ma vecchio e poco energico, Othmān subì in misura larghissima l'influsso dei suoi parenti, i quali finirono col ridurre nelle loro mani tutti i posti di governo, dai quali a mano a mano vennero allontanati gli antichi Compagni e coloro stessi che erano stati i conquistatori del vasto Impero; questo si trasformava a poco a poco in un appannaggio esclusivo degli Omayyadi. Gl'interessi lesi si accomunarono in un'opposizione, nella quale alle rivalità gentilizie si univa la reazione del sentimento pietistico (che già andava accentuandosi in alcuni ambienti musulmani), e si accusavano gli Omayyadi di disprezzare e violare le prescrizioni del Corano, di voler riportare gli Arabi all'antico paganesimo. Le tribù che costituivano la massa dei combattenti, sostanzialmente indifferenti alla contesa tra Coreisciti e Anṣār, appoggiavano or questi or quelli; e ad accentuare la scissione dei partiti si aggiungevano, fenomeno consueto, interessi e passioni personali, differenze locali, circostanze fortuite. L'opposizione a ‛Othmān divenne sempre più intensa, specialmente nelle provincie, dove l'autorità del centro meno si faceva sentire: l'‛Irāq e l'Egitto furono i focolari della ribellione. Una spedizione di facinorosi, venuta dall'Egitto a Medina per chiedere giustizia al califfo, lo assediò nella sua stessa casa e, dopo un tumultuoso periodo di trattative, penetratavi a forza, lo uccise (35 èg., 656).
L'opposizione a ‛Othmān aveva fatto capo, da un lato ai due Compagni Ṭalḥah e az-Zubair, già entrambi candidati al califfato ai quali si era unita ‛Ā'ishah, l'astuta e ambiziosa vedova del Profeta, dall'altro ad ‛Alī (v.), primo cugino e genero di Maometto, il quale fin dalla morte di questo era stato oppositore sistematico dei tre primi califfi. Presente a Medina al momento dell'uccisione di ‛Othmān, ‛Alī fu acclamato califfo dagli Anṣār, appoggiati dagli Egiziani, sola forza armata che si trovasse nella capitale; i suoi rivali furono costretti a riconoscerlo, ma subito dopo fuggirono alla Mecca e, unitisi ad ‛Ā'ishah, decisero di cercare un appoggio nelle provincie, dove ormai si trovava il nerbo delle forze arabe, e mossero su al-Baṣrah; ‛Alī li seguì, e riuscì a trovare aderenti e alleati ad al-Kūfah: della quale fece il suo centro. Così il califfato lasciava l'Arabia, e questa cessava, da allora in poi, di aver parte significativa nello svolgimento della storia dell'Islām. Ormai, del resto, la porzione più numerosa e più attiva del popolo arabo si era riversata fuori della penisola, la quale anche dalla sua posizione eccentrica era tenuta estranea ai grandi avvenimenti che si svolgevano nelle provincie e, vuota di uomini e priva di risorse economiche, riprendeva il ritmo monotono della vita beduina, restando soltanto Mecca e Medina città sante dell'Islām e (con apparente contrasto, in realtà col carattere tipico di metropoli gloriose che gli eventi hanno escluse dall'attività politica attuale) a un tempo ritrovi d'arte e di vita mondana e centri di studî religiosi.
Schiacciati i ribelli nella battaglia del Cammello presso al-Baṣrah (36 èg., 656), ‛Alī si trovò di fronte Mu‛āwiyah (v.), il più potente dei membri della famiglia omayyade, da quasi vent'anni governatore della Siria, che durante l'ininterrotta guerra contro i Bizantinì aveva rinsaldato la disciplina delle sue milizie e se le era rese devote; uomo d'insuperata sapienza politica, altrettanto saldo nei propositi quanto versatile nei mezzi per attuarli. Egli, chiamato dalla legge dell'onore beduino a chieder vendetta del parente ucciso, non si atteggiò ad anticaliffo, ma pretese da ‛Alī che scindesse la propria responsabilità da quella degli uccisori di ‛Othmān e glieli consegnasse: proprio quello che ‛Alī, il quale aveva in essi i suoi maggiori sostenitori, non avrebbe mai potuto fare. Riuscito vano ogni tentativo di accordo, si venne a battaglia a Siffīn sull'Eufrate (37 èg., 657), e dopo un lungo succedersi di combattimenti incerti Mu‛āwiyah indusse l'avversario a rimettere a due arbitri il giudizio intorno all'uccisione di ‛Othmān, giudizio da pronunziarsi secondo i dettami del Corano. L'arbitrato riuscì nel fatto una commedia, e gli arbitri si separarono senza aver concluso nulla, e questo forse aveva appunto sperato e voluto Mu‛āwiyah; poiché la sola convocazione degli arbitri bastò a staccare da ‛Alī parte dei suoi seguaci, tanto quegli spiriti di esaltata fede religiosa, che ritenevano profanazione la nomina d'interpreti umani della parola divina, quanto coloro che, direttamente implicati nel delitto di Medina, temevano le conseguenze di un'inchiesta. I secessionisti, che assunsero il nome di Khārigiti (v.), furono disfatti da ‛Alī in un sanguinoso combattimento presso il Tigri (an-Nahrawān, non lungi dal sito di Baghdād, 38 èg., 658), ma il movimento da essi suscitato, nonché cessare, s'intensifcò e, assumendo aspetti di guerriglia, seminò il terrore e l'anarchia in tutto l'‛Irāq. Quasi contemporanea fu la perdita dell'Egitto, dove ‛Alī era riuscito a spedire suoi emissarî; esso fu riconquistato a Mu‛āwiyah da ‛Amr ibn al-‛Ās, il suo primo conquistatore e governatore che ‛Othmān aveva deposto, ma che aveva avuto la prudenza di non compromettersi nella ribellione contro il califfo. Mecca e Medina stesse furono sottratte da emissarî di Mu‛āwiyah all'autorità di ‛Alī, sicché questi, rimasto padrone effettivo della sola al-Kūfah, era virtualmente debellato quando fu assassinato da un khārigita (40 èg., 661). I suoi più intimi partigiani proclamarono successore suo figlio al-Ḥasan (v. ‛alidi), ma il potere di lui rimase nominale: a Mu‛āwiyah fu facile guadagnarsi, col miraggio del trionfo omiai assicuratogli, gli ultimi fedeli del partito ‛alida; e i più influenti capi delle tribù, sanzionando ciò che era ormai stato di fatto, lo proclamarono califfo a Gerusalemme (41 èg., 661). Il potere supremo tornava agli Omayyadi, ma in mani ben altrimenti salde che quelle di ‛Othmān, e doveva rimanere nella stessa famiglia per quasi un secolo, durante il quale l'impero arabo allargò ancora di più i suoi confini e trasformò profondamente il suo assetto interno.
Le conquiste sotto il califfato omayyade. - Come si è visto sopra, mentre le città della costa di Siria caddero successivamente in mano agli Arabi, la catena del Tauro non fu varcata che temporaneamente da essi: sui confini la guerra tra Arabi e Bizantini continuò perenne, con campagne estive interrotte dal riposo invernale, ma senza produrre notevoli mutamenti territoriali. Di tratto in tratto si pattuivano tregue, provocate in genere da difficoltà interne nelle quali ora l'imperatore ora il califfo venivano a trovarsi e che li inducevano a risparmiare le proprie forze militari; si addiveniva così a reciproci tributi, allo scambio dei prigionieri, istituendosi tra i due stati rivali una serie di relazioni, se non addirittura pacifiche, almeno di scambievole tolleranza. Più intensa fu l'azione svolta sul mare dagli Arabi, la marina dei quali, ormai saldamente costituita, permise loro di compiere scorrerie in tutto il Mediterraneo orientale, prendendo saldamente piede nelle grandi isole già precedentemente corse, e giungendo fino a minacciare la sitessa Costantinopoli (49 èg., 669 e 97 èg., 716), peraltro senza successo (v., per i particolari della lotta tra gli Arabi e Bisanzio, J. Wellhausen, Die Kämpfe der Araber mit den Romäern in der Zeit der Umajjaden, in Nachrichten Akad. Göttingen, 1901, n. 4). Continuava, d'altra parte, l'espansione verso Oriente e verso Occidente: se la marcia verso l'India lungo il litorale non proseguì (l'occupazione musulmana dell'India non ebbe luogo se non nel sec. X, attraverso l'Afghānistān, per opera del sultano Maḥmūd di Ghaznah, di razza turca), la conquista dell'Asia centrale si compì gradualmente, ma ininterrottamente, con la sottomissione dei principi iranici e dei khān turchi, giungendo fino alla frontiera del Turkestān cinese e portando alla remota Cina, che ne ha serbato memoria nei suoi annali, la notizia del nuovo grande Impero sorto all'altra estremità dell'Asia; a questa conquista è legato il nome di Qutaibah ibn Muslim, che diede agli Arabi i più splendidi successi in quelle regioni, tra l'86-96 èg., 705-715 C. (v. H.A.R. Gibb, The Arab Conquests in Central Asia, Londra 1923).
In Africa le spedizioni si erano spinte, ancora prima dell'avvento degli Omayyadi, di là dalla Cirenaica, avendo facilmente ragione delle guarnigioni della Tripolitania e della Tunisia, dove il dominio bizantino era poco più che nominale; ma soltanto sotto gli Omayyadi l'intero paese fu definitivamente occupato, specialmente per opera di ‛Uqbah ibn Nāf', il quale raggiunse l'Atlantico nel 62 èg., 682; spedizioni successive verso l'interno portarono gli Arabi fino al Fezzān. La lotta più aspra si ebbe non già contro i Bizantini, ma contro i Berberi, nomadi al pari degli Arabi, ma più bellicosi e più refrattarî di essi alla civiltà. Sanguinose ribellioni, quali quelle della cosiddetta al-Kāhinah ("l'indovina", soprannone di una donna che fu a capo dei Berberi insorti) e di Kusailah, altro capo berbero, misero in forse il dominio arabo; alla fine riuscì agli Arabi di aver ragione dell'ostilità dei Berberi, associandoli alle loro imprese e dando sfogo al loro ardore col portarli alla conquista della Spagna: in questa spedizione infatti, tranne i capi e alcune tribù provenienti specialmente dall'Arabia meridionale, il nerbo delle truppe fu costituito da Berberi. Varcato lo stretto di Gibilterra al comando di Ṭāriq ibn Ziyād (92 èg., 711), la Spagna (che gli Arabi chiamarono al-Andalus dal nome dei Vandali che l'avevano posseduta) fu sottomessa senza troppa difficoltà (il comando supremo fu assunto da Mūsà ibn Nuṣair), dato l'indebolimento del regno visigotico e l'incapacità dei dominatori germanici di assimilarsi la popolazione indigena. Anche qui si riprodusse il fenomeno già riscontrato in Mesopotamia, in Siria, in Egitto: i cristiani accettarono di buon grado l'autorità di nuovi signori che erano sì di fede diversa, ma lasciavano piena la libertà del culto ed erano meno oppressori e meno fiscali degli antichi. È noto come gli Arabi, invasa l'intera penisola iberica, si spinsero oltre i Pirenei, e come Carlo Martello li arrestò nella marcia verso il centro della Francia, vincendoli a Poitiers (114 èg., 732); come più tardi (ciò avvenne già sotto la dinastia ‛abbāside) Carlo Magno, in una serie di campagne, annesse al regno franco la regione a nord dell'Ebro, e come gli Arabi di Spagna, che per lungo tempo ebbero a capitale Toledo, si trovarono a fronte i regni cristiani del settentrione della penisola, dai quali più tardi partì il movimento di riscossa.
Così, durante la seconda metà del sec. VII e i primi decennî dell'VIII, l'impero arabo raggiunse la sua massima estensione. Ulteriori conquiste saranno fatte in seguito dall'Islām, la cui orbita così politica come religiosa comprende regioni situate fin nel centro dell'Africa e all'estremità orientale dell'Asia; ma i conquistatori apparterranno per lo più ad altre razze, e alla penetrazione della religione non si accompagnerà quella della lingua. A quel tempo, del resto, l'unità islamica non avrà se non un significato religioso e culturale: l'unità politica sarà infranta da un pezzo. Durante circa un secolo, invece, il mondo conobbe uno stato unitario arabo, la cui superficie eguaglia o supera quella dei più grandi imperi che la storia ricordi, il persiano, il macedonico, il romano. L'autorità del governo centrale si fa effettivamente sentire fino nelle provincie più lontane, e quella certa autonomia lasciata di necessità ai governatori non impedisce che la loro opera sia sorvegliata e che destituzioni e nuove nomine si succedano frequentemente. Anche l'amministrazione raggiunge un grado di uniformità, pur tenuto il debito conto delle differenze locali, che non è certo inferiore a quello degl'imperi ricordati, e specialmente l'elemento arabo mantiene intatto il proprio carattere dalla Spagna fino al Turkestān.
Carattere del califfato omayyade. - La lunga durata del califfato di Mu‛āwiyah (41-60 èg., 661-680), non turbata da avvenimenti interni di grande rilievo, gli consentì di dedicarsi all'organizzazione dello stato, la cui formazione, come si è visto, era stata improvvisa e tumultuaria. Egli non introdusse tuttavia radicali mutamenti nel sistema che era prevalso fino allora, e se provvide a rafforzare l'autorità del califfo, che le vicende svoltesi al tempo di ‛Othmān e di ‛Alī avevano grandemente scossa, non diede al proprio potere quel carattere di monarchia assoluta che gli è rinfacciato dalla tradizione storiografica superstite, risalente all'età ‛abbāside e imbevuta di spirito pietistico. Il califfo, i cui poteri e le cui attribuzioni non sono fissati da alcun atto costitutivo, vede la propria autorità limitata dall'influenza dei personaggi che lo circondano, capi alla lor volta di tribù o di gruppi di tribù che hanno mantenuto la loro compagine pur nel nuovo organismo politico, i quali si fanno forti della loro posizione personale e delle aderenze di cui dispongono, sicché egli deve destreggiarsi abilmente e far opera di persuasione piuttosto che d'impero per essere obbedito. Questo stato di cose si ripete nelle provincie, dove l'autorità dei governatori dipende anch'essa dal prestigio che essi sanno acquistarsi presso i capi degli elementi locali. Un tipo di stato, dunque, che è ben lontano dall'autocrazia e che, senza avere le forme del feudalesimo, presenta qualcuno dei caratteri di questo.
Mu‛āwiyah rimase a Damasco, dove aveva avuto la sua residenza come governatore della Siria, e la Siria fu, per tutto il periodo omayyade, il centro dell'impero arabo; centro che era anche geografico e si trovava in vantaggiosa posizione rispetto all'impero bizantino, l'avversario principale. Ma speciale attenzione dovette esser data all'‛Irāq, non solo perché esso era una delle più ricche provincie e perché in esso abitavano alcuni tra i più forti gruppi di tribù, ma anche perché colà si manteneva salda e attiva l'opposizione al governo, rappresentata, per un verso, dai partigiani della famiglia di ‛Alī i quali assunsero il nome, più tardi famoso anche dal lato religioso, di shī‛ah "il partito (di ‛Alī)" (v. sciiti), per l'altro, dai Khārigiti, il fanatico zelo religioso dei quali vedeva nel califfato omayyade un potere non meno empio ed esecrabile del califfato ‛alida, e appuntava contro esso la sua azione terroristica (v. J. Wellhausen, Die religiös-politischen Oppositionsparteien im alten Islam, in Abhandlungen Akad. Göttingen, 1901, n. 2). Per alcuni anni Sciiti e Khārigiti vennero contenuti dall'energico governatore Ziyād, che Mu'āwiyah, il quale lo aveva avuto prima avversario, apprezzò al punto da riconoscerlo come fratello, figlio di un dubbio amore illecito di suo padre; ma subito dopo la morte di lui (53 èg 673) cominciarono le agitazioni, che la morte di Mu‛āwivah e quella, seguita dopo soli tre anni, del suo figlio e successore Yazīd (64 èg. 683) fecero salire al colmo; già nel 60 èg., 680 scoppiò una insurrezione violenta capitanata da al-Ḥusain (v.), il secondo figlio di ‛Alī; repressa nel sangue, essa fu grave di conseguenze per lo strascico di odio che si lasciò dietro; ma molto più pericoloso fu il movimento che fece capo ad ‛Abd Allāh ibn az-Zubair (figlio del Compagno che aveva avversato ‛Othmān e ‛Alī), il quale si fece proclamare califfo e riuscì a dominare l'Arabia e l'‛Irāq, pur in mezzo a feroci lotte coi Khārigiti. Per circa dieci anni il centro dell'Impero fu sconvolto dalla guerra civile, essendosi alla lotta tra i pretendenti al califfato intrecciata quella tra due gruppi di tribù rivali, i Qais e i Kalb, che rinnovarono, ma su un'estensione molto più vasta e in proporzioni molto maggiori, le guerre di tribù dell'Arabia preislamica. A capo degli Omayyadi si pose Marwān membro di un ramo collaterale, il quale riconquistò la Siria (64 èg., 684) e fu proclamato califfo; la sua opera fu compiuta dal suo figlio e successore ‛Abd al-Malik (v.): l'unità dell'Impero fu ristabilita, ‛Abd Allāh ibn az-Zubair fu ucciso alla Mecca, dove s'era rifugiato e dove sostenne un lungo assedio (73 èg., 692), i Khārigiti, che sierano stabiliti fortemente nelle provincie persiane e di lì infestavano l'‛Irāq, furono sgominati. ‛Abd al-Malik, assistito dal suo geniale governatore al-Ḥaggiaǵ (v.), la cui inesorabile severità, congiunta a una energia infaticata e a una devozione assoluta, è rimasta proverbiale, fu il vero restauratore dell'Impero: sotto di lui le conquiste furono riprese, l'amministrazione riformata, introducendo l'arabo come lingua ufficiale; e i benefici effetti della sua azione si fecero sentire anche durante i regni dei suoi figli al-Walīd e Sulaimān (86-99 èg., 705-717)
Ma, nel frattempo, un'altra crisi si maturava in seno allo stato arabo: crisi immensamente più grave delle stesse guerre civili, perché aveva le sue cause profonde nel modo stesso col quale si era istituito il dominio degli Arabi sulle popolazioni sottomesse. Queste, come si è visto, erano rimaste nettamente distinte dai conquistatori, ai quali somministravano, col tributo gravante su esse, i mezzi di sussistenza; ma nessun divieto teorico e nessun ostacolo pratico si opponevano alla conversione degl'infedeli. Nei primi tempi, sussistendo ancora il principio che identificava l'arabismo con l'islamismo, il convertit veniva assunto come cliente (mawlà, plur. mawālī) di una tribù, e conseguiva i diritti di un autentico Arabo, in primo luogo quello allo stipendio militare. Con l'aumentare delle conversioni, il numero degli aventi diritto allo stipendio crebbe smisuratamente, mentre i tributi rimanevano stazionarî, specialmente quando il ritmo delle conquiste si rallentò, e anzi, poiché il loro carico continuava a gravare in egual misura sulle comunità infedeli assottigliate, costituivano per esse un peso sempre crescente, che finì col diventare intollerabile. Allo squilibrio così introdottosi non poteva rimediarsi se non con una riforma radicale, che il califfo ‛Omar II (99-101 èg., 717-720) ebbe il coraggio di attuare: egli stabilì la distinzione tra imposta personale (gizyah) e imposta territoriale (kharāǵ), quest'ultima gravante su tutte le terre, con carattere d'imposta reale, qualunque fosse la religione del proprietario. I musulmani inoltre, essendo stata resa più rigorosa l'esazione dell'elemosina legale, dovettero pagare su per giù l'equivalente di quanto pagavano gl'infedeli con la gizyah, a essi peculiare. Il carico tributario era dunque quasi egualmente ripartito tra musulmani e infedeli; ma ormai il processo dell'islamizzazione di questi era andato intensificandosi (e aumentò anche in seguito), sicché si formò una vasta classe di musulmani di sangue non arabo, ma arabizzata nella lingua, la quale, superiore agli Arabi per cultura ed esente dalle caratteristiche beduine, incompatibili col grado di civiltà al quale il mondo musulmano andava salendo, finì con l'avere il sopravvento sia nel campo della vita economica e civile sia in quello della politica, attuando gradualmente una profonda trasformazione della società araba. L'età degli Omayyadi rappresenta quindi a un tempo il più alto trionfo degli Arabi nella storia mondiale e l'inizio della loro decadenza; essa è inoltre quella nella quale comincia il complicato processo della fusione della civiltà dei popoli sottomessi con quegli elementi della civiltà araba i quali, pur essendo questa sostanzialmente inferiore a quella dei non arabi, hanno resistito all'assorbimento e si sono anzi imposti a razze allogene: da questa fusione è risultata la civiltà arabo-musulmana ricca e complessa quanto altra mai, a sua volta suscitatrice di altre fiorenti civiltà, estese su tre continenti e produttrici di grandi valori sociali, artistici, scientifici, filosofici, religiosi, nelle quali l'elemento arabo è pur sempre presente, anche se non in tutte prevale (v. anche omayyadi).
La decadenza degli Omayyadi e il califfato degli ‛Abbāsidi. - Giunto al sommo della sua estensione e della sua grandezza, l'impero arabo si trovava tuttavia in una condizione di equilibrio instabile: le tribù beduine che lo avevano creato e che costituivano in esso la classe privilegiata non avevano saputo trarsi fuori dallo stato di splendida barbarie, del quale il loro orgoglio si compiaceva; e questo stesso orgoglio, come impediva loro di dedicarsi agli uffici amministrativi, così li faceva sprezzanti e ostili verso i nuovi musulmani, i mawālī, nelle mani dei quali si andava accentrando il potere effettivo. D'altra parte gli Arabi, se sdegnavano di prender parte attiva nell'amministrazione dello stato, se ne ritenevano pur sempre i padroni, e tolleravano malvolentieri le velleità monarchiche dei calilfi. In questa sorda lotta contro ciò che il vecchio spirito individualistico dei Beduini chiamava tirannide, esso trovava consenziente l'elemento religioso, cui lo svilupparsi della tendenza dogmatica e legalistica sotto l'influsso del cristianesimo e del giudaismo conferiva un crescente prestigio tra le masse, e che, idealizzando i primordî patriarcali della comunità islamica, condannava come empio e contrario alla pia norma istituita da Maometto e seguita dai quattro primi califfi ("i ben diretti") il tentativo che gli Omayyadi, discendenti degl'idolatri nemici dell'Islām nascente e convertitisi soltanto sotto lo stimolo della paura e del tornaconto, facevano per trasformare lo stato arabo, ancora organizzato quasi come una banda di predoni accampata in terra di conquista, in un regime monarchico regolare. L'accusa di empietà trovava terreno specialmente favorevole nelle provincie orientali, dove i partiti sciita e khārigita, non mai soffocati nonostante le frequenti repressioni sanguinarie, avevano preso un colorito fortemente religioso. Allo squilibrio sociale ed etico-religioso si aggiungeva il turbamento prodotto nell'economia dalla riforma tributaria, mentre la crescente importanza assunta dalle provincie in confronto della metropoli rendeva sempre più difficile al potere centrale di far valere in esse la propria autorità. Finché forti personalità tennero saldamente in mano la direzione suprema dello stato, l'urto delle tendenze opposte venne contenuto; ma quando a esse successero sovrani frivoli e imbelli (tali furono Yazīd II, al-Walīd II, Yazīd III) l'unità dell'Impero andò sgretolandosi; la stessa Siria, che Mu‛āwiyah prima e ‛Abd al-Malik poi avevano mantenuta immune dalle lotte di fazioni, venne meno alla cieca fedeltà verso la dinastia; il movimento insurrezionale sciita, che da tempo andava maturandosi nelle lontane provincie dell'Oriente, scoppiò irresistibile, travolgendo gli Omayyadi.
Centro della ribellione fu il Khorāsān, vastissima regione stepposa della Persia orientale, nella quale le tribù arabe che l'avevano conquistata sotto ‛Othmān erano rimaste ancora più inaccessibili delle altre alla disciplina del governo centrale, mentre d'altra parte il numeroso elemento iranico, convertitosi di buon'ora, trovava nell'opposizione alla dinastia e nell'accoglimento delle pretese degli ‛Alidi uno sfogo, forse inconscio, del proprio sentimento nazionale. La propaganda sciita svolse colà un'azione tenace e abile, sotto la forma dell'associazione segreta che le è rimasta caratteristica anche più tardi: fiduciarî vennero spediti in tutte le provincie, avvolti nel più profondo mistero; gli stessi capi del movimento rimanevano sconosciuti alle masse, cui si diceva soltanto che essi agivano in nome del "califfo nascosto", discendente di ‛Alī, il quale sarebbe uscito nell'ora voluta da Dio per mettersi a capo dei fedeli e con essi riconquistare il trono e ricondurre la religione degenerata alle sue pure origini. In realtà le fila dell'agitazione erano tenute dagli ‛Abbāsidi (v.), discendenti da al-‛Abbās, lo zio paterno di Maometto, i quali di fronte agli stessi ‛Alidi affermavano di aver impegnato la lotta in favore di questi ultimi, nel nome dei vincoli di parentela (il loro capostipite era infatti fratello di Abū Ṭālib, il padre di ‛Alī). L'insurrezione scoppiò apertamente nel 129 èg., 747, al comando di un certo Abū Muslim, capo di bande arabe, che aveva ai suoi ordini altri numerosi capi (qā'id, plur. quwwād); nei quadri degli Arabi erano numerosissimi i mawālī di razza persiana, ma il movimento non ebbe (come a torto è stato sostenuto da alcuni) il carattere di una rivolta dei Persiani contro gli Arabi: esso si manifestò sotto colore religioso e proclamò la rivendicazione dei diritti degli ‛Alidi.
Il califfato era tenuto allora da Marwān II, omayyade di un ramo collaterale di quello di ‛Abd al-Malik, che era salito al potere dopo una serie di lotte dinastiche, di congiure e di uccisioni che per quasi un ventennio avevano tenuto in condizione di anarchia la Siria: valoroso guerriero, che aveva fatto lunga prova nelle guerre coi Bizantini e aveva riorganizzato l'esercito rompendone la ripartizione per tribù e sostituendola con reparti misti, egli riuscì a ristabilire l'ordine in Siria, ma fu sorpreso dall'improvviso irrompere delle bande del Khorāsān, che invasero l'‛Irāq, senza incontrare resistenza da parte degli abitanti in maggioranza ostili agli Omayyadi, e s'impadronirono di al-Kūfah. Marwān, le cui forze erano stremate dalle lotte civili appena sopite, fu battuto in Mesopotamia sul fiume az-Zāb (132 ég., 750) e cercò riparo in Egitto; ma fu raggiunto colà dalle truppe di Abū 'l-‛Abbās (v.), proclamatosi apertamente capo della rivolta, e, sconfitto nuovamente, fu catturato e ucciso. Abū 'l-‛Abbās, padrone della situazione, tolse di mezzo gli Omayyadi facendoli uccidere a tradimento: uno dei pochi scampati alla strage, ‛Abd ar-Raḥmān ibn Mu‛āwiyah ibn Hishām (quest'ultimo, califfo, figlio di ‛Abd al-Malik), riparò in Africa, donde mosse poi alla conquista della Spagna. Pareva scoccata l'ora degli ‛Alidi; ma Abū 'l-‛Abbās aveva pensato di trar profitto della propria situazione facendosi proclamare califfo dai capi delle tribù fedeli, fondando la propria legittimità sulla parentela degli ‛Abbāsidi col Profeta, non meno stretta di quella degli ‛Alidi. Stabilì la propria residenza ad al-Anbār (v.), poi ad al-Kūfah, ma morì poco dopo (136 èg., 754), seguito nel califfato da suo fratello al-Manṣūr, il quale dev'essere considerato come il vero organizzatore el potere della dinastia ‛abbāside.
L'apogeo della civiltà araba e la decadenza del califfato. - Con l'avvento degli ‛Abbāsidi il centro dell'impero arabo si sposta dalla Siria all'‛Irāq, dove al-Manṣūr fondò nel (145 èg., 763) la nuova capitale, Baghdād (v.). Il fulcro della potenza dei primi ‛Abbāsidi risiedeva nelle milizie del Khorāsān, fedeli alla persona del califfo all'infuori delle fluttuazioni dell'opportunità politica e dei rapporti di tribù. Questo stato di cose consentì, per la prima volta nel corso della storia islamica, il costituirsi di una vera e propria monarchia personale. Benché le tribù, come elemento militare, non scomparissero all'improvviso dalla scena, la loro importanza andò ben presto diminuendo, fin quasi ad annullarsi, specialmente al centro dell'Impero, e ad esse si sostituirono milizie regolari, nelle quali gradatamente l'elemento straniero (Turchi, Negri) finì con l'avere il sopravvento e che furono, anziché l'espressione della forza guerriera della nazione araba, lo strumento del potere del sovrano, e più tardi, quando esse furono costituite quasi interamente di schiavi, anche la sua proprietà personale. Questa trasformazione ne portò seco un'altra, non meno importante: la soppressione del regime degli stipendî conferiti ai "combattenti", con le prerogative politiche che a esso si accompagnavano. Ormai di fronte al sovrano non sta che una massa di sudditi privi di qualsiasi diritto politico e garantiti nei loro diritti individuali soltanto nell'ambito della legge religiosa, che il califfo applica, ma che non ha facoltà né di abrogare né di modificare (v. califfato). Tuttavia, accanto alla legislazione religiosa, se ne sviluppa un'altra, soprattutto nell'ambito della fiscalità e del diritto penale, nella quale il sovrano è arbitro assoluto e il cui contrasto con la legge religiosa non può dar luogo che a proteste formali da parte del ceto dei giuristì (fuqahā'), proteste alle quali spesso l'intervento della polizia toglie ogni velleità di persistenza. In pratica, dunque, il regime è quello dell'assolutismo monarchico; al quale carattere dà risalto anche maggiore lo stabilirsi della successione dinastica, già iniziatosi a dir vero sotto gli Omayyadi, ma perfezionatosi sotto gli ‛Abbāsidi con la designazione del principe ereditario (walī al-‛ahd) oppure con la nomina del successore al califfo per parte di cortigiani, con l'appoggio della milizia, nei casi di deposizione violenta o di uccisione del sovrano regnante, casi che nel corso del tempo vanno diventando sempre più frequenti. Il rispetto di tipo non arabo che circonda la persona del califfo, il complicarsi dell'etichetta di corte, l'istituirsi di un'amministrazione centrale regolare e di una complessa gerarchia amministrativa con a capo il visir (wazīr) contribuiscono a compiere la trasformazione dello stato. Tale trasformazione (la quale, beninteso, si compì a grado a grado) non fu peraltro sentita dal popolo come una menomazione di libertà politiche, soprattutto perché il solo elemento che ebbe realmente a soffrirne, quello delle tribù arabe, in quanto non rimase nelle zone desertiche e semidesertiche (dove di fatto il giogo dell'autorità si faceva poco sentire), si era già in parte fuso e sempre più si andava fondendo nella massa, numericamente maggiore, dei convertiti, ed ormai Arabi e arabizzati costituivano un'inscindibile unità linguistica, religiosa, culturale, la vera "nazione araba", quale essa tuttora sussiste e nonostante il successivo frazionamento politico, e che ha la sua consistenza fuori dei confini della penisola arabica e presenta caratteristiche del tutto diverse da quelle che sono peculiari agli Arabi "puri", ossia ai Beduini. Si tratta di una popolazione parte agricola parte cittadina, quest'ultima dedita al commercio all'industria, allo studio; d'indole pacifica e quieta, avvezza da millennî al disp0tismo orientale, del quale il califfato ‛abbāside è l'erede effettivo. Con l'affermarsi della monarchia ‛abbāside si compie dunque in realtà (benché, s'intende, con innovazioni dovute all'intrusione dell'elemento arabo nella lingua e nella religione) il ritorno dell'Oriente alla continuità della sua antichissima tradizione, bruscamente sovvertita dall'invasione beduina del sec. VII. E come il sussistere di un'autorità unitaria e vigorosa su vastissime estensioni territoriali aveva favorito, in passato, un'intensa attività economica nell'Oriente anteriore, così il califfato ‛abbāside, realizzando in misura anche più completa l'unità politica dell'Oriente, segna un'epoca di straordinaria prosperità: le relazioni commerciali si svolgono facili e frequenti, aiutate da ottime reti stradali, da servízî regolari di posta e di alloggiamenti, e non si limitano al pur immenso impero dei califfi, ma ne varcano i confini e portano i mercanti e i piloti arabi nelle terre e nei mari dell'Estremo Oriente, nei porti europei del Mediterraneo, sulle coste atlantiche. Merci arabe, prodotti di un'industria che si manifesta con tecnica perfetta, salgono verso settentrione attraverso la Russia fino a raggiungere il Baltico, scendono verso mezzogiorno lungo la costa orientale dell'Africa, penetrano nelle regioni più remote del continente antico; in cambio, i prodotti di tutto il mondo affluiscono sui mercati dell'‛Irāq, della Siria, dell'Egitto. Al cosmopolitismo economico fa seguito, come è ovvio, quello della cultura: si costituisce una classe intellettuale raffinata, curiosa di ogni conoscenza peregrina; la lingua araba si arricchisce, si svolge e si plasma in modo da adeguarsi a ogni espressione di vita spirituale (v. arabi: Letteratura).
Questa trasformazione del mondo arabo si compie durante il primo secolo dell'era ‛abbāside, che è il più prospero e il più glorioso anche dal punto di vista più ristretto della politica. Sovrani di grande capacità occupano successivamente il trono: al-Manṣūr, Hārūn ar-Rashīd, al-Ma'mūn, figure storiche di prim'ordine, diedero la loro impronta personale allo sviluppo dell'Impero, seppero circondarsi di ministri e di funzionari di gran valore (tra tutti notevole la famiglia dei Barmecidi, di origine persiana, che diede una serie di ministri ai primi califfi, finché fu distrutta da Hārūn ar-Rashīd per sospetto di tradimento), ristorarono la finanza, protessero le scienze e le arti. Non mancarono fin dall'inizio, a dir vero, moti sediziosi e ribellioni in questa o in quella parte dello sconfinato territorio soggetto ai califfi, provocati ora dagli Sciiti ora dai Khārigiti, e già sotto al-Manṣūr (136-158 èg., 754-775) una sollevazione sciita ebbe momentanei successi nell'Arabia e nell'‛Irāq. Più gravi furono le lotte civili provocate da rivalità di membri della famiglia ‛abbāside pretendenti al califfato, rivalità che talora ebbero per campo l'ambiente ristretto della corte e si chiusero con deposizioni e con assassinî, ma altre volte scoppiarono in guerre aperte: tale quella tra i due figli di Hārūn ar-Rashīd, al-Amīn e al-Ma'mūn, il secondo dei quali, relegato dal testamento paterno al secondo posto nell'ordine di successione, si ribellò al fratello califfo, lo assediò in Baghdād, prese d'assalto la città e si fece proclamare califfo, mentre al-Amīn fu ucciso nella fuga (198 èg., 813); lo stesso al-Ma'mūn, che all'inizio del califfato parve favorire gli ‛Alidi, vide scoppiare una rivolta generale, e soltanto dopo aspri combattimenti, e dopo avere rinunziato al disegno di darsi per successore un discendente di ‛Alī, riuscì a pacificare l'Impero. Anche quel processo di distacco delle provincie eccentriche che segna la nascita degli stati autonomi (v. oltre) s'inizia fin dal principio dell'età ‛abbāside; esso rimane tuttavia limitato a pochi casi, fin tanto che l'autorità del califfo si mantiene effettiva.
Poco sviluppo ebbero sotto gli ‛Abbāsidi le conquiste: l'attività militare si limitò alle solite incursioni contro i Bizantini nell'Asia minore e contro le tribù turche nell'Asia centrale; notevole, sotto Hārūn ar-Rashīd, i tentativi di accordo col regno dei Franchi (preceduti, del resto, da trattative già iniziate sotto al-Manṣūr), diretti contro il comune nemico, l'impero di Bisanzio. Tali tentativi non ebbero tuttavia altro risultato concreto che quello di stabilire speciali garanzie per i pellegrini cristiani che si recavano in Terrasanta; mentre proprio durante il califfato di Hārūn ar-Rashīd la guerra tra Franchi e Arabi fu specialmente intensa in Spagna: è vero peraltro che quella regione non apparteneva già più al califfato ‛abbāside, onde già si verificava il fenomeno del venir meno dell'unità islamica nella lotta contro gl'infedeli.
Il secondo secolo dell'età ‛abbāside vede la decadenza del potere effettivo dei califfi, i quali finirono col cader in potere dell'esercito che, al sorgere della dinastia, li aveva sottratti all'influenza predominante delle tribù arabe. Alle truppe del Khorāsān subentrano ben presto, elemento che parve più sicuro, le milizie turche, e in parte negre, composte essenzialmente di schiavi; e queste, divenute il presidio del potere califfale, non tardarono ad assumere il carattere di pretoriani e a divenire arbitre dell'elezione e della esistenza dei sovrani, alcuni dei quali, per aver tentato di metter freno al prepotere dei capi delle truppe turche, furono deposti e uccisi: tali al-Wāthiq (227-232 èg., 842-847), al-Mutawakkil (232-246 èg., 847-861), al-Mu‛tazz (251-255 èg., 866-869). A poco a poco le velleità di resistenza dei califfi, nei quali l'energia personale va gradatamente affievolendosi, cedono all'invadenza dell'esercito, ed essi si accontentano di un potere nominale, circondato di un fasto pomposo e fatto segno ad un omaggio formale che vanno aumentando a mano a mano che il potere effettivo vien meno: tale trasformazione è sanzionata ufficialmente dall'istituzione dell'amīr al-umarā' ("comandante dei comandanti" cioè comandante in capo), avvenuta in seguito ai torbidi che successero alla morte di al-Muktafī e portarono all'elezione di suo fratello al-Muqtadir, appena tredicenne (296 èg., 908), e questo soldato straniero è d'ora innanzi il vero padrone dello stato, sul quale esercita un dominio senza limiti e senza controllo.
Gli stati autonomi e la decadenza dell'arabismo. - Il sorgere degli stati autonomi. - Come tutti i grandi imperi formatisi in seguito a rapide imprese militari, l'impero arabo era privo di un sentimento unitario nazionale. A questa mancanza ovviavano in parte l'esistenza di una classe dominante formata interamente di Arabi e la comunanza della fede che si esplicava, politicamente, nel carattere religioso, per quanto mal definito, che era attribuito al califfato. Venuto meno il primo di questi elementi, il secondo non fu sufficiente a resistere alle forze centrifughe che tendevano a separare le varie regioni dell'Impero, diverse tra loro per sostrato etnico, per tradizioni storiche, per condizioni economiche e sociali. Si andarono così formando, o per meglio dire ridestando, i particolarismi locali, i quali avevano avuto, sin dalla fine dell'età omayyade e specialmente al principio dell'età ‛abbāside, l'occasione di manifestarsi nella rivendicazione delle tradizioni dei mawālī di fronte allo sfrenato orgoglio degli Arabi. Ma questa tendenza (la cosiddetta shu‛ūbiyyah, v. I. Goldziher, in Muhammed. Studien, I, Halle 1889, pp. 177-216, e arabi: Letteratura, § 28), se accentuò il carattere delle singole nazionalità (specialmente di quella persiana) e costituì il presupposto dei movimenti separatistici, rimase limitata agli ambienti colti e non creò veri e proprî movimenti nazionali né contribuì direttamente alla formazione degli stati autonomi. Questi furono prodotti, oltre che dalla causa generale dell'indebolirsi dell'autorità centrale, da motivì occasionali, che vanno esaminati singolarmente. Diverso, in particolare, fu il modo di comportarsi degli stati sorti a occidente e a oriente di Baghdād: nei primi, salvo che in alcuni stati berberi, la civiltà araba era penetrata così profondamente da sopravvivere alla separazione politica; nei secondi il sentimento nazionale iranico, che aveva mantenuto coscienza di sé, si rivelò più forte dell'arabismo sicché questo cedette, dopo il distacco dall'unità dell'impero, alla rinascente civiltà persiana, e questa, a partire dal sec. X, si esplicò in forma autonoma, specialmente nella lingua e nella letteratura, e s) propagò a sua volta, insieme con l'Islām, ad altre razze (Turchi, Indiani, Mongoli), non senza aver tuttavia risentito in maniera permanente l'influsso arabo in questa e in quella, e soprattutto mantenendo, insopprimibile, la comunione nella religione (per alterazioni di questa, in cui anche si ravvisa l'intervento di forze separatistiche di natura etnica, v. sciiti).
Gli stati autonomi non sorgono, di solito, in seguito a un atto di brusca rottura che li separi dall'unità califfale, ma si formano a poco a poco, quasi per un insensibile rallentarsi dei vincoli che li univano al potere centrale, ormai indebolito. Si tratta per lo più di governatori, i quali finiscono col reggere in maniera indipendente le provincie loro affidate e trasmettono il potere ai loro discendenti, oppure esso viene loro strappato da rivali più forti e più abili, rimanendo tuttavia immutata e indiscussa la sovranità teorica del califfo, che si manifesta con l'investitura, con omaggi formali, e specialmente con la menzione del suo nome nella preghiera pubblica. Soltanto in alcune regioni, prima fra tutte la Spagna, il distacco è anche formale; ma occorre scendere sino alla fine del secolo III dell'ègira per trovare, col califfato sciita dei Fāṭimidi (v. oltre), un grande stato arabo che proclami apertamente il proprio carattere separatistico.
Il primo stato autonomo costituitosi al di fuori del califfato fu, come si è visto, la Spagna, dove l'omayyade ‛Abd ar-Rahmān I (v.), giuntovi dopo molteplici avventure incontrate nell'Africa settentrionale, riuscì non solo a essere riconosciuto come sovrano, ma a fondare una dinastia, che con ‛Abd ar-Rahmān III (v.) assunse carattere califfale. Quasi contemporaneo è il formarsi di stati indipendenti nell'Africa, favorito dallo spirito separatistico dell'elemento berbero: tali gli Idrīsiti, di stirpe ‛alida, nel Marocco (172-310 èg., 788-922) e gli stati di Tāhert e di Sigilmāsah, fondati verso la metà del sec. II dell'ègira da ribelli khārigiti e anch'essi, pertanto, negatori della suprema autorità del califfo. A questa si mostrò invece sempre ossequiente lo stato degli Aghlabiti (v.), il cui fondatore, Ibrāhīm ibn al-Aghlab, governatore della provincia di Africa (Tunisia), rese ereditario il suo potere con l'assenso del califfo Hārūn ar-Rashīd e lo estese di là dai suoi limiti originarî; analogo fu il modo col quale l'Egitto si costituì in stato autonomo sotto la dinastia dei Ṭūlūnidi (v.), nel 254 èg., 868, e, dopo un breve periodo nel quale gli ‛Abbāsidi ripresero il dominio diretto, sotto quella degli Ikhshīdidi (323 èg., 935): entrambe le dinastie erano di origine turca e porgono il primo esempio di capi militari stranieri che si insediano da padroni in territori di popolazione araba, fatto che in seguito diviene normale. In Siria e in Mesopotamia, invece, il potere rimase per allora agli Arabi: si ha colà, dalla metà del sec. II dell'ègira in poi, la ripetizione del fenomeno, tante volte osservato nel corso della storia araba, dell'affermarsi del potere delle tribù nomadi ogni qual volta venga meno nelle regioni circondanti il deserto una salda autorità politica. Così avvenne che le tribù arabe, rimaste, come si è visto, escluse da ogni reale influenza politica, ripresero vigore col decadere del califfato. L'inizio di tale movimento, e la sua fase più gloriosa, sono segnati dall'insediarsi e dal prevalere della dinastia dei Ḥamdānidi, membri della tribù dei Taghlib, la quale, suddivisa in due rami, uno residente a Mossul e l'altro ad Aleppo, ebbe per quasi un secolo (317-394 ègira, 929-1003) il dominio dell'intero territorio arabo a nord e a ovest di Baghdād, e contribuì efficacemente a rialzare il prestigio decaduto dell'arabismo riprendendo la guerra contro i Bizantini, i quali avevano tratto profitto dell'indebolimento del califfato per occupare parte della Siria e della Mesopotamia settentrionali (sotto Basilio I, 867-886). Più tardi, dopo la parentesi del dominio fāṭimide, altre dinastie arabe si stabilirono in quelle regioni; i Banū Mirdās, della tribù dei Kilāb, ad Aleppo (414-472 èg., 1023-1079); i Banū ‛Uqail a Mossul (386-489 èg., 996-1096), donde estesero il loro potere su gran parte della Mesopotamia e della Siria, scendendo anche nell'‛Irāq, a sud di Baghdād; i Banū Mazyad, frazione della tribù degli Asad, sul basso corso del Tigri (403-545 èg., 1012-1150). Anche l'Arabia sfugge di mano ai califfi; dinastie locali vi si formano, e, durante il sec. X, si costituisce nella provincia orientale d'al-Baḥrein un regno dei Qarmaṭi, setta sciita che, per un certo tempo, ebbe l'egemonia sull'Arabia intera, occupò parte dell'‛Irāq e minacciò l'Egitto.
Contemporaneo allo sminuzzarsi dell'impero arabo a occidente è il processo di formazione degli stati autonomi a oriente, aventi in genere, come si è visto, carattere persiano e forniti di un sentimento nazionale più cosciente e più sviluppato: tuttavia nemmeno essi (a eccezione, s'intende, di alcuni che sorsero, per lo più con carattere effimero, sotto l'egida di membri della famiglia ‛alida) vennero in conflitto con l'autorità dei califfi, anzi di quella autontà si proclamarono a un tempo vassalli e tutori. Appunto in oriente è formulata per la prima volta la teoria della distinzione tra il potere universale del califfo e quello locale del sultano (v.), potere che il sultano ripete dal califfo, in qualità di suo delegato. A tale teoria porse soprattutto occasione l'atteggiamento della dinastia dei Buwaihidi (320-447 èg., 932-1055), di origine persiana e padrona di fatto di Baghdād, che mirava a tenere sotto il suo dominio l'autorità califfale e a valersi del prestigio morale di questa, estendentesi a tutto il mondo musulmano, per accrescere la propria importanza politica, presentandosi quasi come vicaria di un'autorità essenzialmente ideale; da essa avrebbe potuto svilupparsi (se ne scorgono qua e là indizî e conati) una trasformazione radicale del concetto del califfato, la quale tuttavia non si compì per l'intervento di altri fattori politici. Principale tra questi fu l'alto grado di potenza raggiunto dalla dinastia dei Fāṭimiti (v.), sorta nel 297 èg., 910, nell'Africa settentrionale in seguito a un movimento sciitico, impadronitasi con fulminea rapidità dell'Egitto, dove fondò il Cairo, la splendida capitale destinata a divenire più tardi la metropoli culturale dell'Islām arabo, e donde mosse alla conquista della Siria, con lo scopo apertamente confessato di rovesciare il califfato di Baghdād e di sostituirsi ad esso. I Fāṭimidi, i quali, in quanto sciiti, dichiaravano gli ‛Abbāsidi usurpatori ed eretici, miravano a ricostituire l'unità musulmana sotto i proprî califfi, aventi potere effettivo e non soltanto nominale. Primo effetto di questa loro aspirazione fu, viceversa, l'accentuarsi della scissione religiosa dell'Islām, e il sorgere di un terzo califfato, quello degli Omayyadi di Spagna (316 èg., 929), la cui proclamazione fu con ogni probabilità dovuta all'esempio del califfato fāṭimide.
Comune a tutte le dinastie sorte dalla progressiva dissoluzione dell'impero arabo è la rapidità con la quale esse nascono e muoiono, scomparendo bruscamente o scindendosi in rami collaterali. In realtà esse sono formazioni occasionali, dovute all'audacia o all'abilità di avventurieri militari (molto spesso, come si è visto, di origine straniera), prive, così del prestigio che deriva da una lunga e augusta tradizione, come della forza che proviene dal consenso popolare o dalla rispondenza a un concreto ideale politico. È tuttavia da notare che al profondo turbamento della continuità dinastica non si accompagna la decadenza economica né culturale, e neppure, almeno fino a un certo punto, quella della forza di espansione. Certo il periodo delle grandi conquiste non si rinnova; ma taluni dei giovani stati, appunto in virtù della salda organizzazione militare che ne costitúisce l'ossatura costituzionale, si rivela capace di altre imprese che non siano le guerre civili e riesce ad allargare ancora la cerchia del dominio musulmano. Trascurando (per i limiti imposti alla presente trattazione) le campagne militari dei sultani dell'oriente (si pensi alla grandiosa conquista dell'India di nord-ovest, fino a parte considerevole del bacino del Gange, compiuta da Maḥmūd di Ghaznah), si rammenterà l'ininterrotta penetrazione nell'interno dell'Africa, e soprattutto, come quella che ha più vivo interesse per la storia europea, la conquista di alcune isole del Mediterraneo: Malta, Pantelleria, finalmente la Sicilia (212-264 èg., 827-878), strappata ai Bizantini in una serie di campagne condotte dagli Aghlabidi di Tunisi; seguirono ripetute scorrerie degli Arabi nel Mediterraneo, che condussero i Saraceni (così, si rammenti, li chiamò l'Occidente) in varie località dell'Italia e della Provenza: in Calabria, in Puglia (Bari), nei ducati di Gaeta e Benevento, nelle isole d'Ischia e di Ponza, a Frassineto nelle Alpi Cozie. Episodî culminanti di queste scorrerie furono, com'è noto, l'incursione saracena su Roma del 231 èg., 846, col saccheggio delle basiliche di S. Pietro e S. Paolo, e la battaglia navale di Ostia (234 èg., 849) in cui i Saraceni furono sconfitti. Anche le coste della Sardegna e della Corsica furono infestate, senza che tuttavia vi si formassero stanziamenti stabili. Deve ricordarsi che, nonostante il giustificato terrore che le incursioni saracene, e specialmente le occupazioni con carattere permanente a Bari, a Benevento, alla foce del Garigliano, provocarono nel mondo cristiano, un vero pericolo di conquista generale dell'Italia non vi fu mai: né la stessa Sicilia, a quanto risulta dalle fonti, sarebbe caduta in mano agli Arabi se il governo bizantino si fosse mostrato meno debole.
Gli stati autonomi dal sec. XI al XV. - La storia del mondo arabo durante questo periodo è segnalata da tre grandi avveninenti: l'affermarsi del predominio di dinastie turche dalla Mesopotamia all'Egitto, che l'episodio delle Crociate scosse solo momentaneamente; il succedersi del predominio di alcune grandi tribù berbere nell'Africa settentrionale; la fine dell'egemonia araba nel Mediterraneo. Ciascuno di questi avvenimenti non è se non una delle tappe della decadenza continua dell'arabismo, che ha esaurito ogni sua eneroia politica e sussiste soltanto per il prestigio del passato e perché la sua lingua e la sua cultura continuano ad essere l'elemento fondamentale della società musulmana e a costituire il vincolo che tiene unite, nella sfera dei valori spirituali, le diverse nazioni musulmane, ormai del tutto separate nel campo degl'interessi politici ed economici.
Con l'occupazione di Baghdād, nel 447 èg., 1055, i Turchi Selgiūqidi (v.) proclamarono di volere restaurare l'indipendenza del califfato: in realtà esso rimase anche più strettamente sottomesso al potere del sultanato, il quale, benché rapidamente si frantumasse in una quantità di piccoli dominî personali, passati successivamente dai rami collaterali della dinastia selgiūqide ad altre dinastie militari (gli Atābeg), rimase senza contestazione in mano ai Turchi; questi si assimilarono la civiltà dei territorî di lingua araba, e anzi promossero quel vigoroso rifiorire della cultura per cui si segnala il sec. V dell'ègira (XI d. C.); è caratteristico tuttavia delle mutate condizioni spirituali il fatto che, parallelamente alla rinascita della cultura araba, i Selgiūqidi favoriscono, nei territorî a oriente della Mesopotamia e dell'‛Irāq, il rafforzarsi della cultura persiana, e che questa, non quella essi importano nell'Asia Minore da loro conquistata: questo fatto avrà un'importanza decisiva più tardi, her il carattere della civiltà dei Turchi ottomani. L'occupazione dell'Asia Minore diede, com'è noto, l'occasione alle Crociate, le quali pertanto furono rivolte piuttosto contro i Turchi che contro gli Arabi, e cominciarono con la conquista dell'Asia Minore prima di dirigersi verso la Siria e la Palestina, territorî arabi. Il trionfo delle armi cristiane fu grandemente facilitato dalle continue lotte dei successori dei Selgiūqidi coi Fāṭimidi per il possesso della Siria e della Palestina, lotte la cui natura essenzialmente politica assumeva, a causa delle pretese fāṭimidi a stabilire un califfato sciita, aspetto di guerra di religione. Ma il regno latino di Gerusalemme non doveva aver lunga durata, appunto perché le sue sorti erano legate al perdurare di quelle lotte. La dinastia fāṭimide (indebolitasi sempre più, anche per l'insanabile contrasto della sua fede sciita con quella, ortodossa, della popolazione egiziana), fu finalmente deposta (567 èg., 1171) dal generale turco Ṣalāḥ ad-dīn (Saladino), che era già stato al servizio del più potente tra gli atābeg di Siria, Nūr ad-dīn. Al passaggio della signoria dell'Egitto in mani vigorose tenne dietro rapidamente la riscossa musulmana in Siria e in Palestina e la fine del regno di Gerusalemme (582 èg., 1187); successivamente anche gli altri possedimenti cristiani ricaddero in mano ai musulmani. Le Crociate, la cui importanza fu grandissima per il mondo occidentale, non ebbero in Oriente se non carattere episodico e non valsero a modificare il corso generale degli eventi. Saladino, già prima della presa di Gerusalemme, aveva annesso al suo regno la Siria e la Mesopotamia, spossessando gli ultimi atābeg, e aveva esteso il proprio dominio anche nell'Arabia. La dinastia ayyūbide di Saladino (così chiamata da Ayyūb, il nome di suo padre) si mantenne per circa un secolo nei discendenti e collaterali di lui, con carattere unitario in Egitto, frazionata in principati sottomessi all'egemonia egiziana in Siria, Palestina, Mesopotamia. Spodestati poi gli Ayyūbidi dai Mamelucchi, anch'essi, al pari di tutte le altre dinastie che con monotona successione si avvicendano nel dominio del mondo arabo orientale, capi militari di razza turca, l'Egitto accentua la sua funzione (già iniziata sotto i Fāṭimidi e proseguita sotto gli Ayyūbidi) di centro politico e culturale dell'Isl.m. Sotto una serie di sovrani eminenti per qualità politiche e militari, con una complessa amministrazione nella quale l'elemento militare turco e l'elemento civile arabo riescono per qualche tempo a convivere armonicamente e a creare un organismo tecnicamente perfetto, l'Egitto si assicura il dominio della Siria e della Palestina, estende in Africa le sue conquiste verso Occidente e Mezzogiorno, stringe relazioni con gli stati cristiani del Mediterraneo, sviluppa l'industria e il commercio, protegge le arti e la cultura. Ai Mamelucchi (che seppero evitare alla loro dinastia il frazionamento nei rami collaterali, piaga dei Selgiūqidi e degli Ayyūbidi) si deve se l'ondata mongola, rovesciatasi attraverso la Persia sulla Mesopotamia e l'‛Irāq, fu fermata ai confini della Siria, sicché il mondo arabo rimase quasi interamente immune dall'invasione. Alla conquista mongola è legato un avvenimento di grande significato simbolico, ma di scarsa importanza effettiva: la fine del califfato (656 èg., 1258), che ebbe luogo con la presa di Baghdād e con l'uccisione dell'ultimo califfo 'abbāside; in realtà, essendo il califfato ormai da secoli assai più un nome che un potere reale, questo avvenimento non ebbe sensibile ripercussione all'infuori che teorica (v. califfato; per la serie dei califfi ‛abbāsidi, v. abbāsidi).
La parte occidentale del mondo arabo si era andata sempre più isolando dall'oriente, e questa separazione si accentuò col trasportarsi del centro della potenza dei Fāṭimidi dalla Tunisia all'Egitto, conseguenza del quale fu il formarsi degli stati degli Zīridi (o, meglio, Zairidi) in Tunisia e dei Ḥammādidi in Algeria. L'elemento berbero, non mai interamente assimilato dagli Arabi, riprese il sopravvento col formarsi dei due grandi imperi degli Almoravidi e degli Almohadi, nei quali, sotto il solito manto della religione, si affermano sentimenti e aspirazioni di carattere etnico. Occorre tuttavia non dimenticare che, essendo i Berberi incapaci di costituire stabilmente una propria cultura nazionale, è pur sempre l'arabismo, sia pure con infiltrazioni estranee che ne modificano profondamente la struttura, quello che trionfa e si espande per mezzo dei successi militari degli Almoravidi e degli Almohadi. Una nuova e larga infusione di sangue arabo nel mondo berbero fu poi provocata dalla migrazione delle tribù beduine dei Banū Hilāl (v. benī hilāl) e dei Banū Sulaim (v. benī Sulaim) che, a metà del sec. XI, furono costrette dai Fātimidi a trasportarsi verso le regioni desertiche della Tripolitania e dell'altipiano tunisino e atlantico. Questa migrazione, che ristabilì l'equilibrio tra Arabi e Berberi nell'Africa settentrionale, ebbe tuttavia per conseguenza diretta l'imbarbarimento e l'anarchia di vaste zone dove andava, sia pure imperfettamente, costituendosi una vita statale e culturale superiore: i beduini hilāliani e sulaimiti erano in realtà del tutto estranei a quell'arabismo produttore di civiltà che, come si è visto, fu il risultato della fusione tra i conquistatori del sec. I dell'ègira e le popolazioni sottomesse; essi rappresentavano invece i soli aspetti negativi della vita araba nomade e non erano pertanto capaci di provocare un qualsiasi rinnovamento di civiltà, come invece avevano fatto i loro antenati, in circostanze storiche del tutto diverse e, soprattutto, in un'atmosfera di fresco entusiasmo creativo che ad essi, tagliati fuori da ogni movimento spirituale, faceva completamente difetto.
Dai frantumi dell'impero almohade si costituirono in Africa diversi stati, alcuni dei quali, come quelli dei Ḥafṣidi a Tunisi e dei Marīnidi nel Marocco, ebbero notevole importanza (da notare specialmente le relazioni del primo con gli stati italiani del Tirreno); ma furono tutti di carattere locale, senza influenza sulla storia generale del mondo arabo. Questo, del resto, in Occidente vede in questo periodo la propria orbita restringersi sempre più. Nella Spagna il califfato arabo di Cordova aveva segnato l'apogeo dell'arabismo: venuta meno l'unità califfale al principio del sec. XI, suddivisosi il territorio in una molteplicità di piccoli stati in continua lotta tra loro, i regni cristiani del settentrione della penisola iniziarono la lenta opera di riconquista, durata per secoli con alterna vicenda, e terminata, com'è noto, con la definitiva espulsione degli Arabi. Tuttavia le ultime fasi del dominio arabo nella Spagna sono di straordinaria importanza per la civiltà: non solo nelle piccole corti dei régoli arabi (tali effettivamente essi erano per la completa assimilazione dei costumi, anche se il sangue di molti di loro era berbero) la letteratura, la scienza e l'arte fiorirono singolarmente, ma gli stretti rapporti tra musulmani, cristiani ed ebrei (è appunto di quest'epoca il rigoglioso fiorire della letteratura ebreo-spagnola) contribuirono a creare una civiltà composita, ricca e vigorosa per la fusione e la concrescita di svariati elementi, la quale, assorbìta in gran parte dalla Spagna cristiana, si propagò nel resto dell'Europa con effetti decisivi forse sulla letteratura, certo sulla scienza e sulla filosofia; effetti sopravvalutati in passato, poi interamente disconosciuti, oggi in via di essere meglio lumeggiati e misurati dall'indagine storica intorno alle origini della civiltà europea nella seconda metà del Medioevo. La riconquista cristiana della Spagna, molto progredita nell'età dei régoli, alcuni dei quali non ebbero scrupolo di allearsi con gli stati cristiani per combattere i proprî correligionarî, fu interrotta durante il tempo in cui le due potenti dinastie africane, Almoravidi e Almohadi, tennero in loro potere anche la penisola iberica; ma riprese vigorosa col cadere dell'ultima di esse e, com'è noto, era di fatto compiuta alla fine del sec. XIII, rimanendo i Naṣridi di Granata, che sussistettero sino alla fine del XV, i soli rappresentanti dell'Islām e dell'arabismo in una piccola parte della Spagna. Nella letteratura aljamiade (v. aljamía) e mozarabica (v. mozarabi) si mantenne tuttavia anche più tardi (fino all'espulsione definitiva dei moriscos al principio del sec. XVII) un vestigio della già fiorente civiltà araba.
Anche più rapida fu l'espulsione degli Arabi dalla Sicilia, dove già nel periodo dell'occupazione musulmana l'unità politica si era andata frazionando, attraverso le lotte degli emiri dei singoli centri cittadini, con processo analogo a quello riscontrato nelle altre parti del mondo islamico. La conquista dei Normanni (453-479 ègira, 1061-1086) non solo mise fine al dominio arabo in Sicilia, ma segnò l'inizio del movimento offensivo della cristianità contro le coste dell'Africa, parallelo a quello delle Crociate in oriente (presa di al-Mahdiyyah, di Gerba e di Tripoli, 543 èg., 1148, crociata contro Tunisi, 1270); essa peraltro non soppiantò bruscamente nell'isola la civiltà araba, la quale anzi fece sentire il suo influsso sui nuovi signori, che ne assunsero e ne mantennero per alquanto tempo le forme, specialmente nel fasto della corte, e conservarono il sistema amministrativo precedente in tutti i suoi particolari, perfino nell'uso della lingua araba (accanto alla latina e alla greca). Anche l'arte e la letteratura arabe continuarono a fiorire sotto i Normanni, specialmente durante il regno di Ruggero II (1130-1154): si ripeté anche in questo caso l'abituale fenomeno del conquistatore barbaro che si assimila la civiltà superiore del paese conquistato. Sennonché la civiltà araba non aveva radici abbastanza profonde in Sicilia e soprattutto non aveva completamente estirpato la civiltà romano-bizantina, così da poter offrire una resistenza durevole all'azione della rinascente civiltà italiana, della quale i Normanni costituivano il tramite, sia pure inconsapevole: la Sicilia riprese pertanto abbastanza rapidamente il suo carattere italiano, pur rimanendo in essa qualche traccia dell'occupazione araba; l'elemento etnico arabo in piccola parte passò al cristianesimo fondendosi nella massa della popolazione, in gran parte emigrò in Tunisia, lasciando soltanto qualche nucleo compatto, che non abbandonò né la propria lingua né la propria religione. Il più ragguardevole di questi nuclei, quello di Girgenti, fu, in seguito a una ribellione contro gli Svevi successori dei Normanni, deportato da Federico II nel castello di Lucera in Puglia (1224), dove costituì la celebre colonia saracena che diede valido aiuto militare così a Federico come a Manfredi e che prolungò di tre quarti di secolo l'influenza della civiltà araba nell'Italia meridionale, influenza che, com'è noto, fu specialmente grande nell'ambiente della corte sveva. Ma l'avvento degli Angioini e la spietata e perfida distruzione di Lucera compiuta da Carlo II nel 1300 fecero scomparire anche quest'ultimo vestigio dell'arabismo in Italia; gli staterelli di Bari, della Campania e di Frassineto erano scomparsi da tempo. Più a lungo sopravvisse l'arabismo sotto il dominio cristiano nelle isole di Pantelleria e di Malta, dove l'arabo rimase lingua parlata: soltanto per qualche secolo nella prima, essendo poi prevalso il siciliano; fino ai nostri giorni nella seconda, ma come dialetto ormai fortemente commisto a elementi italiani e separato, con l'abbandono dei caratteri arabi nella scrittura, dalla grande corrente culturale araba, la quale del resto, intimamente legata com'era all'islamismo, non era in grado di sopravvivere alla scomparsa della religione.
L'egemonia dei Turchi ottomani. - All'inizio del sec. XVI il mondo arabo presenta un aspetto di decisa decadenza politica e culturale rispetto allo splendore dei secoli precedenti, ma conserva tuttavia un carattere di autonomia, il quale si manifesta specialmente nell'Egitto, nonché nella Siria, dove il carattere turco della dinastia e dell'esercito non si estende al paese rimasto interamente arabo, e nel Marocco, dove con la dinastia dei Marīnidi, poi con quella dei Waṭṭāsidi (875-957 èg 1470-1550), cui più tardi succederanno le due dinastie dette degli Sceriffì (Sharīf, plur. Shurafā, dialettalmente Shorfã, ossia di stirpe ‛alida), l'arabismo, modificato ma non soppresso dal berberismo, si mantiene immune da conquiste e da influssi stranieri. Ma di questi due grandi centri arabi il primo, l'Egitto, vien meno sotto la formidabile pressione dell'impero ottomano. Questo, superata la crisi che all'inizio del sec. XV ne aveva momentaneamente sospeso l'azione in Europa, aveva compiuto la conquista della penisola balcanica sotto la guida dei suoi grandi sovrani Murād II, Maometto II, Bāyazīd II. Selīm I, figlio e successore di Bāyezīd, si rivolse verso l'Oriente: dopo aver annesso al suo impero la Mesopotamia e l'‛Irāq, regioni arabe da lui tolte alla Persia (920 èg., 1514), egli invase la Siria, penetrò in Egitto e debellò l'ultimo sovrano mamelucco, Tūmān Bey (923 èg., 1517), riducendo il già potente stato a provincia dell'impero ottomano; poco dopo sottomise anche l'Arabia occidentale, che alla fine dell'età ayyūbide era andata perduta per l'Egitto, e soppresse o rídusse a condizione di vassallaggio le dinastie locali, sicché, per la prima volta dopo l'apogeo della potenza ‛abbāside, l'intero oriente arabo si trovò nuovamente riunito in un unico stato. Questa riunione non andò tuttavia a vantaggio della civiltà araba: gli Ottomani, diversi in questo da tutte le altre stirpi turche le quali da secoli avevano esercitato l'egemonia militare e politica nell'oriente musulmano, non avevano abdicato al proprio carattere nazionale, ma anzi, mantenendolo e affermandolo con orgoglio consapevole, avevano dato forma letteraria alla propria lingua e andavano creando una letteratura e una civiltà particolari (non senza, beninteso, profondissimi influssi persiani e, di riflesso, arabi). Lingua, letteratura e civiltà che furono incapaci, per mancanza di forza intrinseca, di sostituirsi a quelle arabe, in cui la tradizione laica e la religiosa si rafforzavano a vicenda, ma che valsero a impedire la consueta benefica fusione di conquistatori e conquistati, e, mentre mantennero gli Ottomani estranei e ostili all'ambiente circostante, nazione entro nazione, abbassarono il livello culturale dell'arabismo. Inoltre a questo persistente carattere straniero si accompagnò (complemento indispensabile e che d'altra parte era imposto agli Ottomani dalla molteplicità e varietà delle razze da essi dominate in Europa, in Asia, in Africa) un sistema rigidamente accentratore nell'amministrazione: finché l'organismo statale ottomano rimase forte (la decadenza non cominciò che nel corso del sec. XVII e si accentuò soltanto alla fine del XVIII), quest'accentramento poté avere effetti benefici, ma, naturalmente, rese più evidente l'aspetto di dominazione straniera, e più tardi, col venir meno dell'ordine e della regola negli organi centrali, si trasformò in una burocrazia sfruttatrice, capricciosa e corrotta. Sicché, sotto gli Ottomani, gli Arabi ebbero la percezione chiara, che non venne mai meno e anzi si accentuò con l'andar del tempo, di essere oppressi da una razza altrettanto inferiore ad essi per civiltà quanto superiore per forza materiale; una razza la quale non solo li dominava politicamente e li sfruttava economicamente (a ciò erano avvezzi da secoli), ma anche non teneva conto del loro primato nel regno dello spirito. Costrette a imparare il turco se volmano aver parte nell'amministrazione statale (mentre i precedenti dominatori avevano sempre conservato l'uso dell'arabo), le classi più elevate andarono assumendo un carattere culturale ambiguo, mentre quelle più umili, sempre più staccate dalla vita pubblica, si rinchiudevano nella strata cerchia degl'interessi immediati. Se il sentimento dell'oppressione straniera rimase sterile per secoli (né la mancanza totale di un'effettiva coscienza politica tra gli Arabi avrebbe potuto dargli forma concreta), esso preparò il terreno alle tendenze autonomistiche arabe che presero coscienza di sé soltanto alla fine del sec. XIX, ma che si rivelarono molto prima, per esempio in Egitto, con la costituzione di uno stato autonomo al principio dello stesso secolo. Né molto diversa fu la condizione formatasi nell'Africa settentrionale a oriente del Marocco, dove il dominio dei Corsari barbareschi di origine turca (o, meglio, greci turchizzati) fece entrare anche gli Arabi di quelle regioni, a partire dalla metà del sec. XVI, nell'orbita dello stato ottomano e, per un certo tempo, anche sotto il suo dominio effettivo.
Tuttavia neppure nell'epoca del dominio ottomano sugli Arabi questi cessarono dall'esercitare la loro attività in regioni eccentriche e dal propagare tra popolazioni barbare, insieme con l'islamismo, gli elementi della civiltà araba. È appunto di quest'epoca l'intensificarsi della penetrazione nell'Africa orientale da parte di commercianti provenienti dall'Arabia meridionale e di quella nel Sūdān da parte di Egiziani: s'iniziò pertanto un processo di islamizzazione e di parziale arabizzamento di genti cuscitiche e negre, il quale dura tuttora. Della fine del sec. XVIII è la fondazione di un sultanato arabo nell'isola di Zanzibār, estesosi poi anche sulla costa opposta.
Il valore della civiltà araba. - Come si è accennato sopra, la conquista ottomana segna non soltanto la fine della funzione degli Arabi nella storia mondiale, ma anche quella della loro funzione di creatori e promotori di civiltà. Essi entrano (per meglio dire, erano già entrati da tempo) in un periodo di stasi, paragonabile per molti rispetti all'età bizantina, nel quale i valori culturali non sono negati né perduti, ma sono soltanto gelosamente conservati senza essere accresciuti; nel quale lo slancio vitale, la ricerca appassionata del nuovo, la libera critica delle verità ufficiali vengono meno, e subentra l'età del conservatorismo tradizionalistico, della formulazione dogmatica, dell'imitazione e del compendio meccanici; principì e metodi ai quali s'ispirano così il pensiero scientifico come la fantasia artistica. Quando, in tempi vicinissimi a noi, il mondo arabo, ridestatosi dal suo torpore, si accingerà a uscire dal suo medioevo e a rinnovare la propria cultura, esso cercherà di rintracciare gli elementi vitali dell'antica tradizione nazionale, ma li troverà in gran parte inadeguati alle esigenze contemporanee e dovrà ricorrere, per la propria rinascita, alla civiltà europea. Il ciclo della civiltà classica araba è dunque ormai conchiuso; ma essa ha avuto un carattere e una fisonomia inconfondibili, che le conferiscono una sua propria individualità; la sua influenza nella storia della civiltà mondiale è stata grandissima. Sorta dalla fusione avvenuta durante l'età degli Omayyadi e il primo periodo di quella degli ‛Abbāsidi, di alcuni elementi inestirpabili dello spirito beduino e di altri proprî della civiltà, essa stessa composita, che l'Oriente semitico cristianizzato aveva ereditata dalle antiche civiltà mesopotamiche, dall'ellenismo, dal giudaismo; vivificata da nuove correnti di pensiero e d'arte greche e persiane, la civiltà araba presenta un aspetto di sincretismo che tuttavia non è perfettamente organico, sicché alcuni dei suoi componenti vengono impacciati nel loro sviluppo, altri rimangono isolati ed estrinseci al complesso della vita spirituale. Da una parte, la letteratura è costretta entro gli schemi dell'antica poesia del deserto e non tenta liberarsene se non attraverso conati sporadici e infruttuosi; mentre la prosa, che pure raggiunge un grado d'insuperabile perfezione formale che la rende atta ad esprimere qualsiasi genere di pensiero, rimane anch'essa, nelle sue manifestazioni artistiche, legata a esercitazioni di verbalismo retorico e staccata dalla vita (su ciò v. arabi: Letteratura). Dall'altra parte il pensiero filosofico, che ebbe sul principio, al contatto delle fonti greche e dell'esperienza viva di problemi attuali, notevole varietà di movimento, non ebbe sensibile sviluppo dopo il sec. XII o si perdette in speculazioni mistiche; la teologia dogmatica, imbarazzata da alcune formule categoriche del Corano, finì con accogliere soluzioni medie, di significato ambiguo, per mezzo delle quali alcuni dei massimi problemi vennero girati ed elusi piuttosto che affrontati e sviscerati (su tutto ciò v. islamismo). Anche le scienze matematiche, sperimentali e d'osservazione, pur arrecando molto notevole contributo di fatti nuovi, non diedero, come nel Rinascimento europeo, spinta a costruzioni teoretiche di contenuto universale. Forse il campo nel quale lo spirito arabo (s'intende che questo temiine va sempre preso in significato storico e non etnico) ha dato miglior prova di sé è quello dell'architettura e della decorazione, dove è perfettamente organica la fusione degli elementi che hanno concorso a formare lo stile, e dove la tipicità dell'opera d'arte si afferma con carattere universale.
Messa a confronto, pertanto, con altre grandi civiltà mondiali (e il confronto s'istituisce spontaneo con la civiltà classica), quella degli Arabi appare alquanto inferiore per contenuto. Tuttavia la sua sfera d'influenza è stata forse anche più vasta di quella della civiltà classica, poiché si è estesa dalle rive dell'Atlantico all'Arcipelago australasico, dalle regioni equatoriali alle steppe siberiane, e in questa vastissima zona sussiste tuttora, più o meno frammista a elementi eterogenei. Essa è stata tramite di manifestazioni culturali svariatissime, trasmettendo all'Estremo oriente e all'Africa tenebrosa principî e nozioni derivate dai mondi greco, biblico, cristiano, e, reciprocamente, facendo conoscere all'Europa alcuni prodotti (materiali per lo più, ma talvolta anche spirituali) di quelle remote contrade. Finalmente, l'influsso esercitato dalla civiltà araba sul Medioevo europeo (di fronte al quale, come si è visto, essa fu nettamente superiore almeno sin verso la fine del secolo XII) è stato grandissimo: non solo l'agricoltura e l'industria arabe hanno fornito all'Europa, per molti secoli, quasi tutti i prodotti caratteristici di un tenore di vita largo e raffinato (dalle frutta ad alcuni generi di tessuti, dai metalli e dai cuoi lavorati alla carta), ma anche alcuni dei più notevoli acquisti spirituali (importanti non solo in sé, ma altresì per la spinta che essi diedero a nuovi progressi) sono stati largiti dagli Arabi all'Europa, soprattutto, come si è visto, per il tramite della Spagna. Non occorre neppure rammentare, trattandosi di cosa notissima, che il Medioevo cristiano conobbe il pensiero e la scienza dei Greci attraverso le versioni arabe, e che i progressi che gli Arabi avevano compiuti nella matematica, nell'astronomia, nella meccanica, nella chimica nella medicina furono fecondi di applicazioni in Europa; ma anche alcune istituzioni sociali che si manifestano in Europa verso il sec. XII (cioè nel periodo delle Crociate e dei più stretti rapporti tra musulmani e cristiani nella Spagna) sembrano dover qualcosa all'influsso arabo (per quanto ciò non possa ancora affermarsi con certezza assoluta, essendo gli studî in questa materia ancora in via di sviluppo): tali le corporazioni operaie e gli ordinamenti della cavalleria. Perfino nei campi della religione e della letteratura, nei quali l'odio reciproco e la differenza di linguaggio sembrerebbero dover escludere ogni possibilità di rapporti, pare debba riconoscersi l'azione degli Arabi sull'occidente: per tacere di fenomeni secondarî (quale p. es. l'uso del rosario nella preghiera), sono da ricordarsi gl'influssi della filosofia araba su alcuni problemi di teologia cristiana nei secoli XII-XIII, e il possibile trasporto di alcuni generi di poesia popolare araba ad analoghi generi della nascente poesia volgare di Spagna.
Il predominio europeo sul mondo arabo e la formazione degli stati contemporanei - La trasformazione del mondo arabo. - Mentre la maggior parte dei popoli arabi, incorporata nell'impero ottomano, vegetava nell'ombra, e meutre gli stati dell'Africa nord-occidentale, rinchiusi in sé stessi, pagavano il beneficio dell'indipendenza con l'esclusione dalle correnti della civiltà, nell'Europa si andavano costituendo i grandi stati nazionali, e la civiltà rampollata dal Rinascimento e dalla Riforma raggiungeva il primato così nell'ambito della forza materiale come in quello del progresso spirituale. L'equilibrio tra Oriente e Occidente, rotto in favore del primo nei secoli VII-XI e che la travolgente espansione degli Ottomani aveva minacciato di rompere nuovamente nei secoli XV e XVI, non solo si ristabiliva, ma andava gradatamente modificandosi in favore del secondo. Al progressivo decadere dell'impero ottomano fa riscontro l'affermarsi dell'egemonia europea, la quale dapprima si limita a dominare le vie del commercio e a frenare la pirateria barbaresca nel Mediterraneo, più tardi, attraverso le varie fasi dell'espansione coloniale, mette piede nel territorio arabo e a poco a poco si estende, in forma più o meno diretta, sulla più gran parte dei popoli arabi. Questo processo culmina con la guerra del 1914-1918, alla fine della quale la totalità degli Arabi viene a dipendere politicamente dagli stati europei; sennonché accanto a esso, e da esso stesso provocato, si era svolto un processo di penetrazione culturale che aveva dato agli Arabi, insieme con gli altri benefici effetti della civiltà, una coscienza politica e un sentimento nazionale del tutto nuovi, ond'essi furono tratti a esigere quelle garanzie d'indipendenza e di rispetto della nazionalità che non solo sono il fondamento degli stati moderni ma che avevano costituito l'ideologia della guerra mondiale. Dove circostanze particolari consentirono l'attuazione di queste esigenze si costituirono pertanto, per la prima volta nella storia, stati arabi indipendenti o semi-indipendenti fondati sul principio moderno della nazionalità, e tutti i problemi politici, economici, culturali connessi con queste nuove formazioni si posero, con rapidità e intensità singolari, innanzi alla mentalità araba, la quale subì, e subisce tuttora, una profonda trasformazione. Il mondo arabo si trova dunque attualmente in uno stato di crisi, forse altrettanto grave di quella che ne trasformò radicalmente la compagine e la funzione storica agli albori dell'islamismo, e dallo sviluppo di questa crisi dipenderà la sua storia avvenire.
Le fasi della penetrazione europea e il nazionalismo arabo. - I primi accenni a una penetrazione europea nel mondo arabo si hanno all'estremo Occidente, colà dove la potenza ottomana non ostacolava l'azione delle forze cristiane. L'offensiva degli Spagnoli e dei Portoghesi sulle coste marocchine non fu se non la continuazione della lotta secolare che aveva portato alla liberazione della penisola iberica e fu sentita come guerra di religione, come "crociata". In realtà essa fu dovuta in parte a ragioni di difesa mirando a togliere al Marocco le basi navali per attacchi contro le coste iberiche, in parte a ragioni coloniali, specialmente per quanto riguarda la formazione di stazioni portoghesi sulla costa dell'Atlantico, quali scali per la circumnavigazione dell'Africa. Lo stato di guerra quasi continuo ira il Marocco e la Spagna e il Portogallo (finché quest'ultimo fu regno indipendente) portò i due stati iberici a impadronirsi di alcune città della costa (Arzilla, Ceuta, Tangeri, Melilla, Larache, ecc.), ma non modificò l'effettivo rapporto di potenza tra i belligeranti, e anzi le città perdute vennero tutte riconquistate dai Marocchini, a eccezione di Ceuta e Melilla, verso la fine del sec. XVII.
Un'occupazione europea vasta e permanente nell'Africa settentrionale si ha soltanto con la conquista francese dell'Algeria (1830), che è da mettersi in relazione con la lunga opera di epurazione del Mediterraneo dalle navi corsare barbaresche compiuta durante il sec. XVIII e al principio del XIX dalle potenze europee. Algeri e Tunisi erano ridiventate di fatto, in quel tempo, stati arabi indipendenti, poiché il dominio turco vi era rimasto soltanto nominale, e dal 1671 ad Algeri, dal 1705 a Tunisi i dey (dāy) e i bey riproducevano la situazione degli emirati e dei sultanati staccatisi dal califfato durante l'età ‛abbāside. Dal 1830 al 1881 nessun mutamento a favore delle potenze europee ha luogo nell'Africa settentrionale; del 1881 è la dichiarazione del protettorato francese sulla Tunisia, e dal 1898 in poi la penetrazione francese nel Marocco, assicurata da accordi con l'Inghilterra, procede dapprima in forma pacifica, finché nel 1912, in seguito ai rivolgimenti che diedero alla Francia l'occasione all'intervento armato, anche il Marocco passò nella Condizione di protettorato francese, mentre una parte di esso era concessa alla Spagna. Anche il resto della popolazione araba dell'Africa nord-occidentale che, sparsa tra Berberi e Negri molto superiori di numero, aveva tuttavia, nel cosiddetto Sūdān occidentale, conservato e propagato l'islamismo e fondato varî sultanati dal sec. XV al XIX (v. afrrca: Storia), cadeva gradualmente sotto il dominio della Francia e veniva incorporato nel grande impero coloniale francese. Quasi contemporanea all'occupazione francese del Marocco si svolgeva quella italiana della Libia (1911-12), la quale, benché interrotta nella sua avanzata verso l'interno dal sopraggiungere della guerra mondiale, col conseguente sussistere, per qualche anno ancora, dello stato dei Senussi, segnò un altro trapasso di popolazione araba sotto il dominio di una nazione europea. Anche in Libia, del resto, il dominio ottomano aveva subito fasi di decadenza analoghe a quelle che avevano condotto alla costituzione degli stati autonomi di Algeri e di Tunisi; ma, dal principio del sec. XIX, il governo di Costantinopoli era riuscito a riprendere il dominio della regione costiera e anche a estendersi verso l'interno (sia pure contrastato dalla organizzazione senussita) mediante un'opera metodica di penetrazione (sulla quale v. E. Rossi, in Onriente Moderno, IX, 1929, pp. 153-167).
Anche gli altri Arabi sottoposti al dominio ottomano avevano, già prima del sec. XVIII, compiuto tentativi sporadici di ribellione, dei quali uno dei più notevoli fu quello dell'emiro druso Fakhr ad-dīn (v.), in Siria, il quale dal 1608 al 1635 condusse una vigorosa lotta contro la Porta, ricercando e ottenendo (episodio interessante di politica musulmana di uno stato italiano) l'alleanza del granduca di Toscana Ferdinando I. Ma soprattutto la seconda metà del sec. XVIII e il principio del XIX videro accentuarsi dovunque il processo di disgregazione dell'impero ottomano, che tuttavia nei territorî arabi fu meno rapido e meno intenso che in quelli, cristiani, della penisola balcanica: nell'Arabia i varî potentati esistenti nel Yemen andarono sempre più allentando i vincoli di vassallaggio verso la Porta, e allo stesso modo si comportarono gli Sceriffi (v.) della Mecca, i quali, vantando origine ‛alida e facendosi forti del prestigio religioso conferito loro dall'esercizio della sorveglianza e della direzione del pellegrinaggio, finirono col disporre anche del potere politico, tenendo in stato di soggezione il governatore turco; in Siria si ebbero varî tentativi di ribellione, tra i quali il più serio fu quello dello sheikh ‛Omar at-Ṭāhir e dei suoi figli durante il regno di ‛Abd ul-Ḥamīd I (1773-1789). Più che altrove l'autorità ottomana fu scossa in Egitto: a varie riprese i discendenti della dinastia soppressa dei Mamelucchi, i quali erano rimasti a costituire un consiglio (dīwān) intorno al governatore turco, suscitarono moti rivoluzionarî, e uno di questi, del quale fu a capo ‛Alī bey (un Georgiano di origine cristiana), ebbe tale successo da riunire per breve tempo sotto il dominio del ribelle, che assunse il titolo di soltano, oltre all'Egitto quasi tutta la Siria e l'intera Arabia occidentale (1182-1187 èg., 1768-1773). L'occupazione francese del 1798, benché effimera, ebbe grande importanza in quanto che, per la prima volta dopo molti secoli, rimise gli Arabi a contatto del mondo europeo: la grande rivolta di Moḥammed ‛Alī, il governatore turco dell'Egitto, ne fu conseguenza indiretta. Liberatosi dall'incomodo potere dei Mamelucchi, Mohammed ‛Alī assunse il governo diretto dell'Egitto e porse valido aiuto alla Porta nel reprimere in Arabia l'insurrezione dei Wahhābiti; ma, non volendo la Porta riconoscergli l'autonomia completa, si rivolse contro di essa e conquistò rapidamente la Siria, minacciando la stessa Asia minore: soltanto l'intervento delle potenze europee arrestò, com'è noto, la sua marcia trionfale (1840); tuttavia l'Egitto rimase d'allora in poi eretto in provincia autonoma sotto la dinastia di Mohammed ‛Alī, i successori del quale ottennero nel 1867 il titolo di Khedive (v.) indicante la loro autonomia meglio che quello di Pascià, ed ebbero sempre di mira il ridurre al minimo il vincolo di dipendenza dalla Turchia. La situazione politica dell'Egitto, e più ancora la sua importanza economica, immensamente accresciuta dall'apertura del canale di Suez (1869), fecero sì che questo paese risentisse, più che tutto il resto del mondo arabo, l'influsso della civiltà europea. Anche nel Libano si ebbe, benché in forma immensamente più modesta, un rudimento di costituzione autonoma degli Arabi (in massima parte cristiani), in seguito alla rivolta dei Drusi (v.) e al successivo intervento francese (1860).
Il motivo profondo che favorì questi diversi tentativi di scuotere il giogo ottomano deve senza dubbio ricercarsi nell'odio degli Arabi contro i Turchi: tuttavia tale sentimento non ebbe, per allora, se non il carattere di un'insofferenza istintiva, non già quello di un'aspirazione nazionale cosciente e matura (basti pensare che i capi dei movimenti rivoluzionarî furono quasi sempre funzionarî del governo ottomano, di stirpe non araba). Del resto, a partire dal riconoscimento dell'autonomia egiziana, il dominio turco sul mondo arabo (a eccezione, beninteso, dell'Algeria, già perduta, e della Tunisia, di fatto indipendente) andò rafforzandosi per alquanti decennî, poiché la perdita della maggior parte dei Balcani aveva indotto la Porta a una politica più energica verso le provincie arabe rimastele, mentre d'altra parte le riforme, attuate o soltanto promesse, valevano ad acquetare il malcontento delle popolazioni. La crisi si aggravò soltanto alla fine del sec. XIX, principalmente a causa dell'influsso europeo. Questo agiva in due modi: l'intervento sempre più invadente delle potenze occidentali nelle questioni interne della Turchia suscitava lo sdegno di tutte le classi, colte e incolte, contro l'assoggettamento dei musulmani agl'infedeli; d'altra parte la penetrazione economica degli Europei nel mondo arabo recava dietro di sé il corredo della cultura e delle ideologie europee, introducendo tra gli Arabi i concetti di nazionalità e di libertà. Mentre l'odio contro l'Europa tendeva a unire tutti i musulmani, senza distinzione di razza, nel movimento panislamico che il sultano ‛Abd ul-Ḥamīd II (1876-1909) seppe abilmente sfruttare ai fini della propria politica (v. califfato, e panislamismo), il formarsi tra gli Arabi di una dottrina nazionale imitante quella che aveva trionfato in Europa nel sec. XIX doveva portarli al desiderio del distacco dalla Turchia e all'abbandono o almeno alla subordinazione, del sentimento di solidarietà islamica, favorendo invece l'unione tra musulmani e cristiani di lingua araba in Siria, Palestina ed Egitto. Il movimento nazionale arabo, a sua volta, si frazionava nei diversi territorî, i quali, benché accomunati dal linguaggio, erano tuttavia nettamente individuati da differenze specifiche di situazione geografica, di condizioni economiche e culturali, di tradizioni storiche: si andavano così formando di contro al "panarabismo", singoli nazionalismi in Egitto, in Siria, in Tunisia; rimanevano estranee al movimento le regioni dove la civiltà europea aveva minor presa a causa dello scarso sviluppo culturale delle popolazioni, come l'Arabia e il Marocco.
Gli stati nazionali arabi. - Le varie tendenze, panislamica, panarabica, nazionalista (le ultime due formulate più tardi della prima), ebbero largo seguito nel mondo arabo durante il primo decennio del sec. XX, soprattutto in Egitto, ove da un lato la civiltà occidentale era penetrata più che altrove (notevole, tra l'altro, il grandissimo sviluppo del giornalismo politico), mentre dall'altro l'occupazione inglese seguita al moto rivoluzionario del 1882 e la bizzarra situazione politica che ne era sorta davano esca al risentimento contro l'egemonia europea: sintomatico fu il "congresso egiziano" del 1910, nel quale la dottrina nazionale, di fattura prettamente europea, fu nettamente affermata. Ad accrescere il fermento del mondo arabo contribuirono la rivoluzione turca del 1908-09, l'occupazione italiana della Libia, quella francese del Marocco, le guerre balcaniche del 1912-13. La guerra mondiale del 1914 trovò pertanto gli Arabi divisi: mentre una parte di essi seguiva le tendenze panislamiche proclamate dalla Turchia e appoggiate dalla Germania, un'altra, la maggiore o almeno la più matura politicamente, riteneva giunta l'occasione di scuotere il giogo turco e di conquistare l'indipendenza nazionale. Questo secondo partito ebbe l'appoggio dell'Intesa, la quale, pur avendo serie preoccupazioni da parte dei suoi sudditi arabi (moti sediziosi avvennero in Tunisia, e la Tripolitania, di acquisto recente, si ribellò quasi per intero), riuscì a far leva sul nazionalismo degli Arabi per staccarli definitivamente dai Turchi. Quest'azione fu promossa con particolare zelo e fortuna dall'Inghilterra: mediocre fu il successo in Egitto, dove l'indipendenza dalla Turchia esisteva già di fatto, e il dominio straniero era proprio quello inglese; fu pieno invece in Arabia, dove le velleità califfali dello sceriffo della Mecca Ḥusain (o Ḥusein) ibn ‛Alī (v.), la venalità d'alcuni potenti capi beduini, la diretta o indiretta ingerenza inglese in alcuni staterelli costieri ('Omān, el-Baḥrein, el-Yemen, protettorato di ‛Aden, ‛Asīr) furono abilmente messe in opera: le guarnigioni turche furono espulse dall'Arabia e contemporaneamente due corpi di spedizione inglesi puntavano dall'India sull'‛Irāq e dall'Egitto sulla Palestina, conquistando rispettivamente Baghdād e Gerusalemme. Alla fine della guerra (1918), sfasciatosi l'impero ottomano, il mondo arabo era interamente sotto la direzione della Francia (in occidente e nella Siria settentrionale), dell'Inghilterra e in piccola parte dell'Italia: le promesse fatte durante il periodo bellico, l'ideologia messa dall'Intesa a fondamento del proprio buon diritto, le stesse rivalità dei vincitori esigevano che l'assetto delle regioni arabe tolte alle Turchia fosse tale da soddisfare, almeno in parte, le richieste del nazionalismo arabo. Tuttavia l'Inghilterra non volle rinunziare al protettorato sull'Egitto (proclamato durante la guerra e accompagnato dall'erezione del paese a sultanato, sotto Ḥusein Kāmil, zio del khedive ‛Abbās II, rimasto a Costantinopoli, ove si trovava allo scoppio della guerra e quindi detronizzato dall'Inghilterra), né la Francia consentire allo stabilirsi di uno stato unitario in Siria, ove d'altra parte esso avrebbe incontrato particolari difficoltà a causa dei contrasti di interessi e delle discordie non sopite tra musulmani, cristiani e drusi. Più facile fu, almeno in principio, la ripartizione dell'Arabia: lo sceriffo della Mecca fu proclamato re del Ḥigiāz, un suo figlio, ‛Abd Allāh, fu nominato emiro della Transgiordania, sotto mandato inglese; i principali tra i sultanati od emirati già esistenti conservarono la loro indipendenza, ma subirono una larvata egemonia inglese. L'‛Irāq e la Mesopotamia furono dati, come regno, a un altro figlio del re del Ḥigiāz, Faiṣal, sotto mandato inglese; la Siria, sotto mandato francese, fu suddivisa in Siria propriamente detta e in territorio del Grande Libano, poi trasformato in repubblica del Libano (con Beirut), oltre al piccolo stato detto degli ‛Alawiti (v.) e al territorio dei Drusi. La Palestina, anch'essa paese arabo, dovette essere sottoposta a un regime speciale, sotto mandato inglese, a causa dei patti conchiusi durante la guerra coi Sionisti (v. Sionismo) e degl'interessi religiosi cristiani.
Così il mondo arabo, affrancato dal dominio turco, si avviava verso una vita politica autonoma, se pur non completamente indipendente, e soprattutto non unitaria. Tuttavia gli anni immediatamente successivi al nuovo assetto (1919 e seguenti) furono di profondo turbamento: troppo grande era la sproporzione tra le speranze nutrite durante la guerra e la realtà molto più modesta; le popolazioni arabe, chiamate a esercitare diritti politici nuovi per esse, si rivelarono in gran parte immature, e si fece evidente il contrasto tra una minoranza educata all'europea e una maggioranza rimasta ancora in condizione di semibarbarie; le aspirazioni panarabiche o addirittura panislamiche, a base religiosa, rimasero vivissime, soprattutto perché a molti pareva che con l'avverarsi di esse gli Arabi avrebbero potuto liberarsi interamente da ogni ingerenza straniera. Inoltre, gli Arabi già da tempo sottomessi al dominio di potenze europee ne sentirono anche più intollerabile il peso in seguito all'affrancamento dei loro connazionali già sudditi turchi, e aspirarono all'indipendenza o almeno alla partecipazione diretta nell'amministrazione politica. Basterà ricordare (procedendo da Occidente verso Oriente) la rivolta del Marocco settentrionale dal 1921 al 1926, capitanata da Ibn ‛Abd al-Karīm (Abd el Krim, v.); i torbidi in Tunisia, seguiti da esperimenti di rappresentanze popolari nell'amministrazione interna; gli analoghi esperimenti di "parlamenti" locali, iniziati e poi abbandonati in Tripolitania e in Cirenaica; i gravi movimenti in Egitto, che indussero l'Inghilterra a rinunziare, con la dichiarazione del 28 febbraio 1922, al protettorato e a riconoscere l'indipendenza del paese, sotto la riserva di quattro punti che l'Egitto fino ad ora ha rifiutato di riconoscere e che continuano quindi a formare oggetto di grave dissenso fra i due stati ed un impaccio alla libera vita politica egiziana; i ripetuti sollevamenti in Siria, donde nel luglio 1920 fu espulso l'emiro Faiṣal (poi re dell'‛Irāq) che se n'era proclamato re, e dove più tardi (1927) si ebbe una sanguinosa rivolta di Drusi e d'altri elementi siriani. Anche più importanti sono stati i rivolgimenti interni dell'Arabia, dove la potenza dello stato dei Wahhābiti, rimasto indipendente dalla Turchia anche dopo la sconfitta inflittagli dalle truppe egiziane sotto Moḥammed ‛Alī (v. sopra), prese un grande impulso sotto l'attuale sovrano ‛Abd al-Azīz ibn ‛Abd ar-Raḥmān, detto Ibn Sa‛ūd, tanto che il Higiāz fu conquistato da lui e la dinastia hāshimita fu spossessata (1925) dopo soli nove anni d'esistenza: cadde così al tempo stesso il disegno nutrito dal re Husein di assumere il califfato (la sua proclamazione a califfo, avvenuta nel marzo 1924, dopo la soppressione del califfato di Costantinopoli, ebbe scarsissima fortuna nel mondo musulmano). Ibn Sa‛ūd persiste tuttora, con un'accorta politica che a volta a volta gli procura l'appoggio o l'opposizione dell'Inghilterra, nel proposito di riunire sotto il suo scettro l'intera Arabia, proposito che l'Inghilterra naturalmente combatte, valendosi dell'ostilità ch'esso incontra negli altri stati d'Arabia o confinanti con l'Arabia: ‛Irāq, Transgiordania, Yemen. Quest'ultimo, che si distingue dagli altri anche per la religione del sovrano e di parte degli abitanti, che professano la forma zaidita dell'eresia sciita, ha cercato un contrappeso all'egemonia inglese in un accordo economico con l'Italia (2 settembre 1926), e sembra che, ultimamente, abbia ottenuto l'appoggio della repubblica dei Soviet.
I varî stati nazionali costituitisi in seguito alla guerra mondiale, e anche i territorî arabi che, soggetti al dominio diretto di potenze europee, hanno pure partecipato al movimento politico e culturale degli ultimi anni, presentano naturalmente un diverso grado di sviluppo, massimo in Egitto, minimo in Arabia; anche qui, tuttavia, l'influsso europeo e l'esperienza della guerra hanno suscitato non solo nelle classi dirigenti, ma anche nelle masse sentimenti e tendenze nuovi. Nei paesi evoluti si è diffusa la persuasione che la rigenerazione del paese potrà conseguirsi solo mercé i mezzi tecnici forniti dalla civiltà occidentale, e in molti ambienti si crede altresì alla necessità di una profonda trasformazione delle istituzioni sociali e religiose. Nei paesi arabi più progrediti (ossia fuori dell'Arabia e del Marocco) è viva la fede nell'efficacia delle istituzioni rappresentative, le quali da alcuni si considerano anzi come già esistenti nell'antica Arabia e nell'Islām primitivo e soppresse poi dal prevalere della tirannide militare dei sultani di stirpe turca (tesi che non è da accettarsi tale quale, dal punto di vista storico). Nonostante le delusioni, i risentimenti, le incertezze degli ultimi anni, gli stati nazionali arabi vanno assestandosi con rapidità superiore all'aspettativa e, occupati in prima linea dalle urgenti necessità della loro vita economica, sociale, culturale, sembrano aver lasciato in disparte, per ora, le aspirazioni così panarabiche come panislamiche e si dedicano attivamente alla soluzione dei problemi prossimi; si nota in ciascuno di essi una forte tendenza al rinnovamento, la quale, nell'inevitabile contrasto tra lo spirito conservatore e quello progressista, mira al miglioramento materiale e intellettuale del popolo nell'ambito di salde unità nazionali. È caratteristico, a questo riguardo, il formarsi di uno spirito che riattacca il presente dei singoli stati alle vetuste tradizioni storiche anteriori all'Islām: così alcuni Egiziani attuali amano proclamarsi con orgoglio discendenti del popolo dei Faraoni, alcuni Iraqeni dei Babilonesi; atteggiamento che è in diretta contraddizione con lo spirito religioso musulmano, per il quale quegli antichi popoli idolatri non possono essere che argomento di abominio. Questo spirito di rinnovamento nell'ámbito nazionale (notevole soprattutto nell'Egitto e nell'‛Irāq) non si limita a sforzarsi di innalzare il tenore della vita materiale al livello di quello europeo mediante lo sviluppo dell'agricoltura, dell'industria, del commercio, dell'igiene, della pubblica sicurezza, ma promuove la cultura con l'istituzione di scuole e di accademie, cercando di armonizzare (secondo l'esempio del Giappone, il cui sviluppo ha suscitato fin dal tempo della guerra con la Russia del 1904-05 l'ammirazione e l'emulazione del mondo musulmano) l'acquisto delle capacità tecniche europee con la conservazione del patrimonio ideale della tradizione arabo-islamica: onde si ha, per esempio, un movimento puristico tendente a liberare la lingua dai neologismi d'importazione europea, un forte incremento nella pubblicazione e nello studio dei monumenti letterarî e storici dell'età classica dell'arabismo, e così via. S'intende che molto rimane ancora da fare prima che i popoli di lingua araba (i quali pure hanno compiuto sorprendenti progressi negli ultimi anni) possano, nonché raggiungerlo, avvicinarsi al grado di civiltà degli Europei; e non deve dimenticarsi che l'avvenire riserva loro nuovi e ardui problemi. Può anzitutto domandarsi quali saranno i rapporti reciproci di questi nuovi stati nazionali, che vanno sì differenziandosi, ma che la comunanza di lingua, di costumi, di tradizioni tiene così intimamente legati tra loro da portarli irresistibilmente verso l'unione anche politica. Si avrà forse un risorgere del panarabismo? oppure la differenziazione procederà tanto oltre da dare origine a civiltà particolari, così come dalla civiltà romana dell'inizio del Medioevo (con la quale quella araba presenta alcune tipiche analogie) sorsero le singole civiltà neolatine? e l'islamismo (che anch'esso sta attraversando un periodo di crisi nel conflitto tra vecchie e nuove idee) sarà compatibile con una trasformazione radicale della società araba o subirà trasformazioni, scissioni, alterazioni essenziali nella dottrina e nella pratica? Le soluzioni di tali problemi, che si connettono poi con l'andamento generale della politica e della civiltà mondiali, non possono naturalnente prevedersi; ma l'esistenza di essi mostra come la storia dei popoli di lingua araba, nonché essere conchiusa, è forse prossima a nuovi importanti sviluppi.
Bibl.: G. H. Flügel, Geschichte der Araber bis auf dem Sturz des Chalifats von Baghdad, 2ª ed., Lipsia 1867; C. Huart, Histoires des Arabes, voll. 2, Parigi 1912-1913 (con bibliografia); C. H. Becker, The expansion of the Saracens (nella Cambridge Medieval History, II, 1912), pubblicato anche in tedesco, nelle Islam-studien dello stesso autore, I, 66-145, Lipsia 1924 (con bibliografia a pp. 528-32). Inoltre le opere generali di storia dell'Islām: G. B. Rampoldi, Annali musulmani, voll. 13, Milano 1822-26 (di scarso valore); G. Weil, Geschichte der Chalifen, voll. 5, Mannheim-Stoccarda 1846-62; id., Geschichte der islamischen Völker von Mohammed bis zur Zeit des Sultan Selim, Stoccarda 1866; A. Müller, Der Islam im Morgen- und Abendlande, voll. 2, Berlino 1885 (nella Storia Univesale dell'Oncken; trad. it., Milano 1898-99); C. Brockelmann, Der Islam (nel vol. III della Weltgeschichte del Pflugk-Harttung; trad. ital., Milano 1924, III, 133-320).
Tutte queste opere sono ormai superate oppure hanno carattere di riassunti divulgativi: recente è invece la monumentale opera di L. Caetani, Annali dell'Islam, voll. 10, Milano 1904-26 (contiene le fonti tradotte per esteso o largamente riassunte, con copioso apparato di note, introduzioni, sintesi critiche, digressioni, taluna delle quali di fondamentale importanza; purtroppo la storia dell'Islām non è condotta oltre l'anno 40 dell'ègira, né è prossima la continuazione); id., Chronographia islamica, Parigi [1912-22] (elenco annalistico degli avvenimenti storici e tavole necrologiche dall'1 al 132 ègira, con indicazione delle fonti stampate e manoscritte), continuata dalla Cronografia generale del bacino mediterraneo e dell'oriente musulmano, fasc. 1°, Roma 1923 (dal 133 al 144 ègira); id., Studi di storia orientale, vol. I e III (soli pubblicati), Milano 1911 e 1914 (rifacimento ampliato di alcuni capitoli degli Annali). Una trattazione quasi continua, e d'importanza non minore di quella delle opere del Caetani, intorno alla storia degli Arabi dall'età di Maometto a quella del califfo omayyade Marwān si desume dai molteplici scritti del padre H. Lammens, raccolta di saggi pieni di erudizione e ispirati a una critica radicale della tradizione (gli scritti contrassegnati col solo anno di pubblicazione sono contenuti nei Mélanges de l'Université Saint-Joseph di Beirut): Le berceau de l'Islam, I: Le climat. Les béduins, Roma 1914; L'Arabie occidentale à la veille de l'Hégire, Beirut 1928; La cité arabe de Ṭaif à la veille de l'Hégire (1922); La Mecque à la veille de l'Hégire (1925); L'âge de Mahomet et la chronologie de la Sîra, in Journal Asiatique, 1911; Coran et tradition, in Recherches religieuses, 1910; Mahomet fut-il sincère?, ibid., 1911; Fatima et les filles de Mahomet, Roma 1912; Le triumvirat Abou Bakr, ‛Omar et Abou ‛Obaida (1910); Études sur le règne du calife omaiyade Mo‛āvia Ir (1906-1908); Ziad ibn Abihi viceroi de l'Iraq, in Riv. Studi Orientali, IV (1911-12); Le califat de Yazīd Ier (1910-22); Mo‛āwia II, in Riv. Studi Orient., VII (1916); L'avènement des Marwânides (1926), oltre ad altri scritti minori. Di minor mole, ma anch'essa fondamentale per la critica delle fonti e la valutazione storica, ed estesa fino alla caduta degli Omayyadi, è la serie di scritti di J. Wellhausen, in Skizzen und Vorarbeiten, IV e VI, Berlino 1889 e 1899; id., Das arabische Reich und sein Sturz, Berlino 1901.
Per la storia antichissima dell'Arabia v. D. H. Müller, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., I, coll. 344-359; F. Hommel, Ethnographie und Geographie des Alten Orients, Monaco 1904-26 (ricchissima raccolta di dati, da usarsi con molta cautela); D. L. O' leary, Arabia before Muhammad, Londra 1927 (Trubner's Oriental Series, compilazione di non grande valore); A. P. Caussin de Perceval, Essai sur l'histoire des Arabes avant l'Islamisme, voll. 3, Parigi 1847-49 (ancora utile come raccolta di fonti letterarie arabe). Per la biografia di Maometto e la storia delle origini e dei primordî dell'Islām, v. maometto. Per la storia dei singoli stati autonomi, v. le relative voci di paesi e di dinastie. Per gli avvenimenti posteriori alla guerra mondiale, v. A. J. Toynbee, The Islamic world since the peace settlement, Londra 1927, e la rivista mensile Oriente moderno, Roma 1921 segg.
II. Lingua.
La lingua araba fa parte delle lingue semitiche (v.) e ne costituisce, insieme con i linguaggi semitici dell'Etiopia, il gruppo meridionale; essa può suddividersi in due varietà principali: l'arabo settentrionale e il meridionale. Ma, quando si parla di "lingua araba" senz'altro, s'intende la lingua letteraria (con i rispettivi dialetti), usata dal 500 d. C. ad oggi in tutto il mondo arabo, nella poesia preislamica e nel Corano, poi in tutta la ricchissima letteratura e fin nel giornalismo contemporaneo. Essa è sorta da alcuni dialetti del ramo settentrionale (come sarà indicato appresso), il quale ha così tanto maggiore interesse per la cultura. Per arabo volgare, espressione impropria ma spesso usata, s'intendono ì diversi dialetti contrapposti alla lingua classica scritta: né esiste un volgare unico, bensì molti volgari, che variano da regione a regione o anche da luogo a luogo.
L'arabo meridionale mostra non lieve differenze dal settentrionale, ed è più strettamente connesso con le suddette lingue d'Etiopia, che ne derivano direttamente per le migrazioni di Arabi del sud in Africa. Questa lingua araba meridionale tu in uso, in cinque varietà (sabeo, mineo, ḥimyarita, qatābānico, ḥaḍramico), negli antichi regni del Yemen e Ḥaḍramaut, e ci è nota da numerose iscrizioni che rimontano almeno al sec. IX a. C. (se non a un periodo assai più antico). Essa fu soppiantata dall'arabo settentrionale, da tempo già penetrato nel sud, man mano che crebbe la decadenza del Yemen; la conquista musulmana nella prima metà del sec. VII d. C. la travolse del tutto, solo lasciandone sussistere alcune parlate della costa sudarabica (Mahrah) e dell'isola di Soqotrà.
Come degli Indoeuropei così anche dei Semiti non conosciamo con sicurezza il luogo di provenienza e le primitive sedi; cosicché non è chiaro il rapporto tra il cammino delle migrazioni e la vicenda storica del differenziarsi dei singoli linguaggi. L'arabo sembra conservare meglio che altri idiomi alcuni caratteri originarî nella fonetica, nella declinazione, nelle forme del verbo, nel vocabolario; e la maggioranza di beduini che ne ha costituito per lungo tempo la popolazione, e la loro vita nel deserto, lontana da influssi stranieri (ai quali in ogni modo essi hanno sempre opposto il loro noto spirito conservatore) possono in parte dar ragione di tale fenomeno. Per quanto concerne la relazione tra i due prmcipali tipi del ceppo arabo qui sopra indicati è difficile egualmente giungere a conclusioni sicure; la vita prevalentemente sedentaria ed agricola dei Yemeniti e la loro cultura hanno avuto certo il loro influsso sullo sviluppo dei loro dialetti. Almeno al sec. IX a. C. (ma alcuni credono che le epigrafi più antiche risalgano ad epoca assai più antica) il sudarabico è ormai completamente formato nei suoi caratteri; il suo sviluppo non c'interessa in questo articolo. Si deve solamente accennare ad alcuni rapporti tra arabo del sud e arabo del nord, che non appaiono chiari. Genealogisti e storici musulmani dividono tutte le popolazioni arabe in due grandi gruppi: tribù meridionali o qaḥṭānide, nelle quali sono comprese sia le popolazioni che fondarono gli antichi regni del Yemen, sia altre che troviamo, invece, già prima dell'Islām e in seguito a migrazioni, nei paesi più a settentrione, nella al-Yamāmah o nel Neǵd, nel Ḥigiāz o nello Shammar, in altre parti d'Arabia, fin nella Siria e nella Mesopotamia; tribù ismaelite (e per maggiori particolari v. arabi: Etnologia), anch'esse abitanti in prevalenza nelle regioni del nord parlanti l'arabo settentrionale e di cui alcune, come p. es. i Banū Tamīm, i Banū Qais, gli Asad ed i Kinānah, a cui appartenevano i Quraish (Coreisciti, la tribù della Mecca nella quale nacque Maometto), ebbero parte assai importante nelle vicende del periodo precedente a Maometto e dei primi tempi dell'Islām. Tale divisione è alla base di tutto il sistema della preistoria e della genealogia indigena. Certamente non dobbiamo prestare intieramente fede alle elucubrazioni dei genealogisti, su cui agivano varî fattori perturbatori della verità storica; potrà anzi darsi che l'attribuzione di date tribù al ramo meridionale sia del tutto falsa e non attesti antichissime relazioni tra esse e quelle sedentarie del Yemen, parlanti la loro speciale lingua. Il fatto importante è però che alcune di queste tribù attribuite al ramo meridionale e migrate verso il nord parlavano senza dubbio, già nel periodo precedente l'Islām, un dialetto simile all'arabo settentrionale, ma screziato da particolarità che lo riavvicinano all'arabo meridionale.
Tale circostanza sembra mostrare la credibilità di quella opinione degli Arabi circa i legami di esse tribù con le popolazioni del Yemen; opinione che può tuttavia essere nata per il semplice provenire delle tribù da paesi prossimi al Yemen, il cui influsso linguistico e culturale potrà anche averle fatte apparire agli abitanti del nord come estranee, e strettamente connesse con le popolazioni meridionali. Ma è più probabile (né è qui possibile discutere più a lungo la questione) che la connessione originaria sia reale, e che la causa di quel convergere della lingua, a cui si è accennato qui sopra, sia dovuta alle migrazioni che misero a contatto quelle tribù con i beduini del nord; o, ipotesi seducente, è anche possibile che la vera e propria lingua sudarabica sia stata sviluppata, con tutte le sue caratteristiche, dai soli sedentarî del Yemen, e che queste tribù invece, più tardi attribuite al ceppo meridionale e più tardi parlanti, come si è detto, un dialetto simile all'arabo del nord ma screziato di idiotismi meridionali, si siano arrestate ai margini del paese montagnoso (e la tradizione ci parla sempre della presenza colà di tribù "arabe" distinte dalla vera popolazione yemenita) e vi abbiano conservato la lingua antica, connessa sì, in origine, con quella divenuta più tardi la yemenita, ma non lontana quanto questa dai dialetti del nord, ai quali, con le migrazioni, si saranno vieppiù riavvicinate. Queste tribù attribuite dalla tradizione araba al ceppo meridionale sono assai numerose ed importanti; e occorre anche ricordare che gli alfabeti delle antiche iscrizioni nordarabiche, liḥyānite, thamūdene e ṣafaitiche, trovate nel Ḥigiāz e nella Siria (v. qui sotto, e alfabeto), sono derivati dalla scrittura yemenita, e che infine specialmente la lingua di quelle di Siria (le ṣafaitiche) ha alcuni elementi che sembrano riavvicinarla alla lingua sudarabica.
In ogni modo è opinione falsa quella seguita dal critico egiziano Ṭāhā Ḥusein, che queste popolazioni qaḥṭānide dovessero conservare, poco prima dell'Islām e sebbene migrate in paese di lingua diversa, il loro dialetto yemenita, e non esser quindi comprese dagli Araoi. Ne conseguirebbe che la poesia attribuita a poeti di tribù qaḥṭānide dalla tradizione araba sarebbe, per questa semplice considerazione, dimostrata falsa, in quanto i loro versi dovrebbero essere scritti in arabo meridionale. Tale opinione non tiene conto, da un lato, della falsita di molte notizie dei genealogisti arabi, e dall'altro delle considerazioni qui sopra esposte e dello sviluppo della lingua letteraria beduina (v. arabi: Letteratura, § 2).
Checché sia di tutto ciò, interessa ora accennare alle vicende dell'arabo settentrionale; dello stadio più antico di esso non siamo così ben informati come per l'arabo meridionale, e ne incontriamo i primi monumenti solo in epoca non lontana dall'era volgare. Sono questi le iscrizioni liḥyānite, thamūdene e ṣafaitiche (v. alfabeto) scritte in caratteri derivati da quelli yemeniti ma in lingua araba e trovate recentemente nel Ḥigiāz (le liḥyānite e le thamūdene) e nella Siria, presso Damasco (le ṣafaitiche); appare da esse che in questi paesi (si trovano iscrizioni ṣafaitiche anche nelle regioni tra il Ḥigiāz e la Siria) era in uso un dialetto simile, in fondo, a quelli a noi noti dell'arabo settentrionale, ma che usava per articolo la particella ha. Nelle iscrizioni dei Nabatei (v.; e v. alfabeto, e aramei; dal sec. III a. C. al III d. C. circa) sebbene scritte in aramaico, affiora l'arabo; appare, p. es., in una di esse datata del 267 d. C., l'uso dell'articolo al, come esso appare anche nei graffiti nabatei che son detti sinaitici. Un'iscrizione di grande importanza è quella scoperta intorno al 1900 dal Dussaud a en-Namārah, non lungi da Damasco; è l'epigrafe funeraria del re Mar'alqais di al-Ḥīrah datata del 328 d. C., e scritta in scrittura nabatea monumentale, ma già tendente alla corsiva (v. qui sotto arabi: Scrittura). Sebbene essa contenga degli aramaismi, è redatta in vero arabo settentrionale e ci attesta che in al-Ḥīrah al sec. IV d. C. era già in uso un dialetto, il quale non si discosta sensibilmente dalla lingua letteraria che conosciamo per monumenti assai più tardi e in cui appare egualmente l'articolo al.
Dei dialetti della massa dell'antica popolazione araba, nomade o cittadina, non abbiamo monumenti così antichi; ma da informazioni di filologi arabi, e da altre fonti, a cui si accennerà qui sotto, possiamo dedurre col Nallino che un gruppo di dialetti dell'Arabia centrale-orientale, cioè del Neǵd e dell'al-Yamāmah (di quelle stesse tribù forse che furono riunite per qualche tempo nella confederazione dei Kindah; v. arabi: Letteratura § 1), costituirono la base di una lingua letteraria beduina usata nella poesia preislamica (che crodiamo, in parte, genuina, come crediamo che questa lingua letteraria beduina non sia ricalcata su quella del Corano nelle presunte falsificazioni dell'antica poesia, ma sia monumento dell'epoca preislamica e caposaldo dell'antica storia dell'arabo, v. arabi: Letteratura § 2). Questi dialetti dei Banū Tamīm, ad esempio, degli Asad, dei Qais e di altre tribù adiacenti o connesse rappresentano per gli antichi filologi arabi il dominio della ‛arabiyyah, della vera e pura "lingua araba", ricca delle sue sfumature grammaticali e sintattiche, vergine di contatti stranieri; fonte ampiamente usata per lo studio non solo dell'antica poesia, la cui lingua è ritenuta la classica, ma anche della parola di Dio, del Corano. Altri dialetti di tribù beduine o anche cittadine hanno ceduto nell'uso letterario a quelli; così è che di poeti del Ḥigiāz ad esempio, e della stessa tribù dei Quraish, da cui nacque Maometto, non abbiamo quasi versi antichi a noi tramandati; né i filologi, per quanto si affermi che il Corano è redatto nel dialetto della Mecca, si sono ispirati a fonti ḥigiāzene per studiarne le particolarità, bensì ai dialetti del Neǵd sopra indicati. Nella tradizione araba appare, quasi tentativo di classifica di dialetti arabi, sebbene non così rigorosa come si è voluto affermare, una contrapposizione tra dialetti orientali dei Banū Tamīm specialmente, e occidentali, del Ḥigiāz, fra i quali le differenze non sono molto sensibili. Per il Ḥigiāz abbiamo notizie specialmente sul dialetto della Mecca, di cui alcune particolarità sono anche penetrate nel Corano (v. qui sotto).
Al di fuori di questi dialetti che sono più vicini alla lingua letteraria, abbiamo notizia nelle nostre fonti di altri numerosi dialetti, propri delle singole parti della penisola arabica, di Siria o di Mesopotamia, di cui si biasimano più o meno varî difetti o di cui si sottolinea la corruzione per l'influsso straniero; come è il caso di quei dialetti screziati di arabo meridionale a cui abbiamo accennato qui sopra, sebbene alcuni poeti dei Banū Ṭayyi' (tribù che abitava lo Shammar ed era sicuramente di origine sudarabica) sian citati come autorità nelle questioni di lingua. La penetrazione, nei singoli dialetti, dell'influsso straniero che si manifesta specialmente nell'entrata di vocaboli di prestito, variava, s'intende, secondo le condizioni geografiche e culturali; è naturale p. es. che gli Arabi più prossimi ai Greci o ai Persiani ne risentissero vieppiù l'influenza. Le relazioni con gli Aramei sono assai strette non solo in Siria e in Mesopotamia, ma anche nel Ḥigiāz (ove la cultura aramea già fioriva sotto i Nabatei, e ove essa fu poi promossa dalla presenza di centri giudaici e cristiani). Molte parole arabe concernenti l'agricoltura, arti e mestieri, la religione o il culto (estranee quindi alla genuina antica vita araba dei Beduini) sono di origine aramaica; esse entrano, in parte, anche nel Corano. Il Ḥigiāz ha avuto anche relazioni con l'Abissinia (e Abissini cristiani esistevano alla Mecca), e ciò spiega il numero notevole di parole etiopiche entrate nell'arabo e anche nel Corano. Gran parte del tesoro lessicale straniero passò dai singoli dialetti nella lingua letteraria ed è ora patrimonio dell'arabo.
Assai difficile è stabilire il tempo e la modalità dello sparire, nei singoli dialetti, delle terminazioni della declinazione del nome e del verbo, che, tranne nei dialetti beduini che le conservano in parte e in varia misura, sono sparite, se se ne eccettuino dei resti fossili nei dialetti arabi moderni.
Come si vede, siamo ben lontani dall'avere un quadro anche approssimativamente esatto delle condizioni dialettali dell'Arabia antica al sorgere dell'Islām, e le fonti, già di per sé scarse, non sono state ancora intieramente raccolte e opportunamente classificate e studiate. Esse consistono nelle già citate informazioni dei filologi arabi (che però registrano per la maggior parte fenomeni a loro contemporanei, i quali tuttavia possono ritenersi, data l'indole conservatrice dei dialetti beduini, come buona fonte anche per il periodo più antico); nelle varianti del Corano, che rispecchiano, in parte, antiche vicende dialettali; nella fonte viva, infine, dei dialetti odierni d'Arabia, specialmente beduini (ancora assai poco studiati) che possono gettare qualche raggio di luce sulle condizioni delle antiche parlate.
Fatti generali che occorre tener presenti sono anzitutto la assenza di una differenziazione profonda tra i singoli dialetti beduini; la differenza tra idiomi di città e beduini, l'azione della lingua letteraria della poesia preislamica, prima, del Corano poi. S'intende che i progressi della linguistica semitica e le conclusioni metodiche della moderna linguistica generale sono preziose per l'interpretazione e l'organizzazione dei pochi fatti, di cui siamo, almeno finora, a conoscenza.
Con Maometto la storia della lingua araba cambia profondamente di aspetto; come si accenna qui sotto (v. arabi: Letteratura, § 13) noi riteniamo col Nallino ch'egli abbia usato nel Corano la lingua letteraria beduina, la quale si era diffusa nell'Arabia ed era conosciuta nella stessa Mecca; e che solamente alcuni idiotismi quraishiti siano penetrati nel sacro testo. Ciò spiega da un lato perché la lingua dei Quraish, che a torto è identificata nella tradizione a quella del Corano, sia ritenuta dai musulmani la eccellente, e dall'altro perché la lingua coranica sia quasi eguale a quella dell'antica poesia, e i filologi arabi ne ricerchino appunto in questa la fonte di studio. Con la diffusione dell'Islām, e le conquiste arabe fuori d'Arabia, insieme con il conservarsi delle antiche forme letterarie e il necessario sorgere di nuovi impulsi, nasce la grande letteratura araba, qui sotto descritta, che esce dagli stretti confini dell'Arabia e diviene mondiale. La lingua letteraria basata sull'antica poesia e sul Corano è codificata dai grammatici, e, irrigidita dal prestigio della religione e dell'antica letteratura nazionale, funge da remora e da regola dello sviluppo dialettale; con i contatti e i fecondi influssi di culture straniere, come la greca e la persiana, si arricchisce e diviene atta all'espressione in campi nuovi, nel filosofico, nel dogmatico, nello scientifico. L'estensione della lingua letteraria araba è enorme; fin dai primi tempi dell'Islām la conquista portò gli Arabi e la loro religione dall'estremo occidente alle porte della Cina. E la lingua araba, per quanto la cultura musulmana sia sincretistica ed assuma i più varî aspetti, tra Persiani o Turchi, tra Mongoli o Africani, resta sempre lo strumento essenziale di ogni espressione della vita musulmana, e attraverso l'Islām diviene internazionale; anche i cristiani sottomessi, nel languire delle loro antiche lingue liturgiche, l'usano ben presto per i loro scopi letterarî o religiosi. Ancor oggi essa serve di comunicazione tra i dotti dei popoli musulmani più vari: la stampa araba redatta nell'antica lingua letteraria, praticamente simile a quella del Corano, collega tutto il mondo arabo e musulmano. La lingua araba Così conserva ancora oggi, e gelosamente, il suo profondo carattere, e solamente lo stile e il vocabolario si rinnovano al contatto della civiltà moderna; s'intende che varî indirizzi si sono formati per quel che concerne il rapporto tra la lingua letteraria e i dialetti, ma la tendenza che è destinata a trionfare è quella della conservazione della letteraria, sia pure con qualche concessione alla vita e ai bisogni di nuove espressioni create dal progresso moderno.
Anche per quel che conceme i dialetti della penisola arabica nel periodo dopo l'Islām, le nostre infomiazioni sono assai scarse: l'Islām produsse una grande rivoluzione nelle condizioni della penisola, e migrazioni e conquiste cambiarono non poco l'aspetto etnico di essa. D'altro canto l'estendersi della comune cultura musulmana e della lingua letteraria che la rispecchia agì senza dubbio sulle parlate delle popolazioni sedentarie e, in grado molto minore, sui dialetti dei Beduini, modificandole ed attenuandone molti primitivi caratteri differenziali. È verisimile che molti dialetti beduini conservino ancora non pochi caratteri antichi, spariti presso i sedentarî. Nell'Arabia meridionale l'Islām ha fatto sempre più indietreggiare i dialetti meridionali, di cui sono rimaste tracce, con varia intensità, in alcuni dialetti; altri sono di tipo settentrionale, altri sembrano infine avere un carattere misto; il paese è naturalmente in maggioranza di lingua araba. Abbiamo qualche descrizione di dialetti odierni d'Arabia e qualche notizia di più antichi: il numero dei parlanti arabo in Arabia può calcolarsi a sette milioni.
La storia dell'arabo nei paesi ove lo portò la conquista non è neanche ben nota; ché non abbiamo fonti molto abbondanti per il tempo più antico (tra di esse sono le più importanti: i monumenti della letteratura arabo-cristiana, che hanno spesso carattere dialettale, trascrizioni di testi in lettere greche o copte, antichi glossarî, dati di autori, ecc.); e per le condizioni attuali non abbiamo descrizioni complete che per qualche regione (che spesso non tengono conto di tutti gli elementi che occorre non trascurare in simili ricerche, e che, come ad es. i diversi tipi di vita, nomade o seminomade o rurale o cittadina, condizionano e mutano i tipi linguistici); mentre per altre regioni abbiamo materiali scarsi o scarsissimi. Occorre tener presenti nello studio dello sviluppo dialettale arabo fuori della penisola alcune circostanze: anzitutto che gli elementi arabi che in origine colonizzarono le singole regioni non furono assai numerosi, e spesso furono costituiti da elementi di tribù diverse; poi che l'apprendimento dell'arabo da parte dei popoli soggetti non avvenne per costrizione e rapidamente, ma per lento adattamento; che il Corano e la lingua letteraria e religiosa esercitarono una funzione attenuatrice delle varietà dialettali nei paesi colti; infine che i popoli sottomessi hanno variamente reagito sulla lingua araba da loro accolta. Nei dialetti moderni di paesi di cultura, ove l'istruzione è diffusa e il giornalismo notevole, la lingua dotta modifica lentamente pronunce e forme speciali, e fa sparire caratteristiche antiche.
In Asia, la conquista arabo-musulmana, com'è noto, impose la lingua araba in Siria, in Palestina e nella Mesopotamia; in Africa, in tutta la regione nordica dall'Egitto al Marocco, e in parte del Sūdān, inoltre in alcune isole dell'Oceano indiano, e a Zanzibar (e il loro influsso linguistico è giunto alle isole Comore e al Madagascar); in Europa, in Sicilia, a Malta, in altre isole, nelle Baleari, nella Spagna. I dialetti attuali (di cui non è possibile dare ancora una classificazione rigorosamente scientifica) sono, oltre a quelli della penisola arabica, il mesopotamico parlato forse da 3.000.000 di persone; il siriano e il palestinese (4.000.000); l'egiziano (14.000.000), a cui si riattaccano alcune parlate del Sūdān. Tutti questi dialetti, che hanno molte varietà assai male conosciute, si distinguono da quelli dell'Africa del Nord, riuniti sotto la denominazione di maghrebini, e che hanno alcune particolarità comuni, non sempre però esclusivamente caratteristiche di essi. I dialetti maghrebini sono il libico (1.000.000), il tunisino (2.000.000), l'algerino (3.500.000), il marocchino (2.400.000), il ḥassānī della Mauritania, che giunge fino a Tinbuktū. Anche questi dialetti hanno loro varietà numerose; e si distinguono in essi parlate di cittadini, di beduini nomadi, di rurali, di giudei, di musulmani. Le reazioni etniche e gli influssi stranieri sono stati e sono assai differenti, nei singoli dialetti arabi, secondo i luoghi e le condizioni, soprattutto (se non esclusivamente) nei lessico: nell'Egitto ad es., fu assai importante l'azione dei parlanti in copto prima, poi l'influsso degl'invasori turchi, e in ultimo quello degl'Italiani e dei Francesi giuntivi al principio del secolo scorso; ora si afferma l'influenza inglese. I dialetti di Sicilia, Spagna e Malta eran simili ai maghrebini; essi sono spariti (tranne a Malta, ove però nella lingua attuale è fortissimo l'influsso italiano), ma hanno lasciato tracce lessicali nei dialetti romanzi (nei quali anche le relazioni marittime con gli Arabi hanno introdotto parole arabe) e nelle lingue letterarie, nelle quali sono anche entrate alcune parole per via dotta, a causa della diffusione delle scienze arabe in Europa e delle relazioni con i paesi arabi.
L'arabo come lingua partecipa del carattere generale delle lingue semitiche, ricche di alcuni mezzi di espressione (come di formazioni nominali e di sfumature del significato fondamentale della radice verbale), ma povere, p. es., di tempi e di modi verbali. A differenza però delle altre lingue semitiche l'arabo ha sviluppato una sintassi assai ricca, che lo mette in grado di esprimere assai efficacemente, nonostante la povertà dei tempi, fini sfumature di significato.
La ricchezza lessicale dell'arabo è dovuta forse, oltre che alla tendenza descrittiva dei Beduini, al fatto che la lingua letteraria ha fuso in una unità varî dialetti, dei quali ognuno ha arricchito con le sue particolarità il patrimonio lessicale. Il lavoro dei filologi arabi ha fatto il resto.
L'arabo è stato accuratamente studiato e codificato nelle scuole filologiche degli Arabi (v. arabi: Letteratura § 45); così il tesoro lessicale è stato raccolto in utilissime compilazioni. Lo studio veramente scientifico dell'arabo è cominciato in Europa nel secolo scorso ed ha fatto in questi ultimi anni grande progresso. Il contributo dei dotti arabi non è ancora assai notevole.
Bibl.: H. L. Fleischer, Beiträge zur arabischen Sprachkunde, in Kleinere Schriften, I, Leipzig 1886-1888; Th. Nöldeke, Beiträge zur semitischen Sprachwissenschaft, Strasburgo 1904 e Neue Beiträge zur semitischen Sprachwissenschaft, ibid. 1910; K. Vollers, Volkssprache und Schriftsprache im alten Arabien, Strasburgo 1906; Th. Nöldeke, Zur Grammatik des classischen Arabisch, Vienna 1896; de Landberg, La langue arabe et ses dialects, Leida 1905. Vedi anche la voce relativa nell'Enciclopedia dell'Islam.
In Europa, salvo il misero tentativo del francese G. Postel nel 1538 o 1539, grammatiche arabe in lingua latina cominciarono ad essere pubblicate soltanto nel sec. XVII: fra gl'italiani notiamo F. Martellotto (1620), F. Guadagnoli (1642), Antonio da Aquila (1650) e Agapito da Val di Fiemme (1687). Celebri furono la Grammatica e i Rudimenti dell'olandese Th. Erpenio (rispettivamente 1613 e 1620, con moltissime ristampe entrambi). La prima grammatica redatta con intendimento scientifico e scostantesi dai modelli grammaticali arabi è quella in 2 voll. di S. de Sacy, Grammaire arabe, Parigi 1810 (2ª ed. rifatta ed ampliata, 1831). A specialisti che vogliano conoscere le teorie e le finezze dei grammatici indigeni si rivolgono i 5 grossi volumi di M. S. Howell, A grammar of the classical Arabic language, Allahabad 1880-1900. Consigliabili per lo studioso provetto sono: W. Wright, Grammar of the Arabic language (3ª ed., Cambridge 1896-1898, voll. 2), ed anche, benché calcato sui modelli indigeni, D. Vernier, Grammaire arabe (Beyrouth 1891-1892, voll. 2). Di dimensioni minori, ma buone, quelle del Caspari (5ª ed. in tedesco, trad. francese), del Périer (francese), del Socin-Brockelmann (tedesco, 10ª ed. 1929). Buona breve grammatica teorica in italiano è quella di L. Buonazia (Roma 1900). A scopi pratici, con l'aggiunta di esercizî, tende la grammatica tedesca dell'Harder, ridotta in italiano da G. Farina (Heidelberg 1912).
Non mancano poi grammatiche sì scientifiche che pratiche (e queste d'assai ineguale valore), per singoli dialetti; p. es. per l'egiziano W. Spitta, J. S. Willmore, C. A. Nallino (2ª ed., Milano 1913, a scopo essenzialmente pratico); per dialetti di Tropoli e di Tunisi le grammatiche di H. Stumme; per alcuni dialetti algerini le grammatiche scientifiche di W. Marçais; per l'arabo dell'‛Oman quella del Reinhard, ecc.
Tra i dizionarî europei citiamo: G. W. Freytag, Lexicon arabico-latinum, Halle 1830-1837, 4 voll., malgrado i difetti indispensabile per la lettura di testi poetici antichi, dato che non è arrivata a compimento la magistrale e colossale opera di E. W. Lane, An Arabic-English Lexicon, Londra 1863-1893, sola guida sicura per la lingua classica. Indispensabile per la lettura di testi postclassici è il Supplément aux dictionnaires arabes di R. Dozy (Leida 1881, 2 voll.); comodo e consigliabile per gli usi comuni è J. B. Belot, Vocabulaire arabe-français à l'usage des étudiants, 12ª ed., Beirut 1924.
Per i testi maghrebini è utile complemento M. Beaussier, Dictionnaire arabe-français de la langue parlée en Algérie, contenant les mots et les formules employés dans les lettres et les actes judiciaires, Algeri 1887; per l'arabo egiziano dialettale, S. Spiro, An Arabic-English vocabulary of the colloquial Arabic of Egypt.., Cairo 1895, 2ª ed.
Per chi voglia tradurre da una lingua europea in arabo sono consigliabili i dizionari del Badger (inglese), del Belot (francese, ed. grande in due volumi), del Harder (tedesco).
III. Letteratura.
1. Introduzione. - Nell'età che precede l'islamismo, ossia anteriore al 630 circa d. C., la letteratura araba è circoscritta all'Arabia centrale e settentrionale. L'Arabia meridionale, nonostante che il Yemen e il Ḥaḍramaut avessero una secolare civiltà assai maggiore di quella del resto della penisola, rimase fuori del movimento letterario prima dell'islamismo a causa della profonda diversità linguistica e del diverso tipo di cultura. Perciò, quando qui parleremo di Arabi nell'età preislamica, intenderemo soltanto gli abitanti delle regioni centrali e settentrionali della penisola. Aggiungiamo subito che i testi letterarî arabi preislamici a noi pervenuti sono esclusivamente poetici e non risalgono oltre il 450-500 d. C.
La maggior parte dell'interno della penisola arabica è composta di deserti quasi privi di vegetazione o di steppe, che solamente in alcune stagioni dell'anno, dopo le piogge primaverili ed autunnali, offrono abbondante pastura alle greggi, e quindi dànno possibilità di sostentamento ai soli nomadi. Tuttavia in alcuni punti l'ambiente permise fin da tempo antico la formazione di centri sedentarî di tipo agricolo; in alcuni altri la postura geografica, in relazione alle vie seguite dal commercio proveniente dalle Indie e dall'Arabia del Sud, favorì il sorgere di nuclei cittadini che ebbero poi una speciale importanza culturale e religiosa. Così Yathrib, chiamata dopo l'emigrazione di Maometto Madīnat an-Nabī "la città del Profeta", e più brevemente al-Madīnah (Medina); così la Mecca, che all'apparire dell'Islām avea raggiunto una grande prosperità per opera dell'intraprendente tribù che la dominava, i Quraish (Coreisciti). Nulla sappiamo di preciso sugli antichi regni formatisi nel Ḥigiāz al nord di Medina, quello dei Thamūd e dei Liḥyān, la cui esistenza è attestata dall'epigrafia, e dei quali si trovano accenni nella tradizione araba e nelle fonti classiche; il regno nabateo, che si estese dal Ḥigiāz alla Siria e dové la sua prosperità al commercio, fu, come è noto, sotto l'influsso della cultura aramaica, sebbene la maggioranza degli abitanti fosse araba. È certo che tutti questi centri sedentarî, con la loro popolazione mista di Arabi, Yemeniti ed Aramei, di Pagani, Giudei e Cristiani (colonie giudee fiorivano nel Ḥigiāz, e il Cristianesimo era diffuso tra tribù nomadi e abitanti sedentarî, specialmente lungo il confine della Siria e della Mesopotamia), eran causa di fruttuosi contatti e preparavano, nei mercati e nelle feste religiose ove convenivano i nomadi del deserto, la fusione di forme religiose e culturali.
All'estremo nord-ovest e nord-est il bisogno di regolare i rapporti con le tribù nomadi, che fin da tempo antico occupavano il deserto siro-arabico e la Mesopotamia, e di difendere le frontiere contro i loro assalti, condussero i due imperi rivali bizantino e persiano alla formazione di due piccoli regni arabi vassalli, quello dei Ghassānidi (v.) lungo il confine siro-palestinese, e quello dei Lakhmidi di al-Ḥīrah (v.), posti rispettivamente agli estremi limiti del grande deserto di Siria, che separava le provincie siriane e mesopotamiche dei due imperi. Di questi due stati conosciamo le vicende fin da due secoli prima dell'ègira; essi possono chiamarsi le più perfette formazioni politiche dell'Arabia preislamica all'infuori del Yemen. Non poca importanza essi ebbero per lo sviluppo della cultura araba, sia per aver maturato e comunicato al mondo arabo influenze bizantine e persiane, sia per aver favorito con la loro organizzazione politica e la vita delle loro corti il fiorire e il diffondersi di forme letterarie nate nel deserto. I due regni erano, poco prima dell'Islām, cristiani, e questa circostanza ha avuto qualche influenza sullo sviluppo della cultura araba. Anche nell'interno dell'Arabia la tendenza delle tribù a confederarsi condusse alla formazione di alcune temporanee unità politiche; vero e proprio regno può chiamarsi la confederazione (a tipo beduino naturalmente) signoreggiata dai Kindah che fiorì nel sec. VI. Anch'esso ebbe indubbiamente gran peso nello sviluppo delle forme letterarie; anzi il Nallino pensa che appunto entro l'unità di questo regno, sotto cui si raggrupparono alcune delle più importanti tribù, fosse possibile il convergere dei dialetti beduini in un tipo uniforme di lingua letteraria, che è comune a tutta la poesia preislamica e si è conservata anche nella età musulmana fino ai nostri giomi.
La grande civiltà arabo-meridionale (e più tardi l'abissina) entrò sicuramente in contatto, da tempo antico, con l'Arabia del Nord, soprattutto per le necessità del commercio: colonie minee esistevano nel Ḥigiāz, e l'alfabeto di alcuni gruppi d'iscrizioni nord-arabiche è sicuramente di origine sudarabica. Ma possiamo affermare che lo sviluppo letterario delle popolazioni settentrionali (o di quelle che, se pur di origine meridionale, hanno trovato ragione di distinguersi dai sedentarî ḥimyariti per il loro costume nomade o dopo le loro migrazioni) è avvenuto in gran parte indipendentemente da influssi yemeniti. Non potrà forse negarsi in alcune tribù di origine sudarabica la presenza di speciali disposizioni o l'eredità di speciali tendenze; ma qui non dobbiamo occuparci che d'influssi più concreti.
Maggioranza dunque di nomadi nell'Arabia settentrionale antica; e le caratteristiche del nomadismo, che così nettamente determinano le formazioni politiche e sociali secondo norme ben note, si rispecchiano fedelmente nell'inizio dello sviluppo letterario. Poi le tribù fissatesi successivamente al terreno, o passate alla vita agricola e sedentaria, o datesi al commercio nei centri ai quali abbiamo accennato qui sopra, provocano, con i contatti con altre civiltà (e specialmente con l'aramaica) e con le religioni monoteistiche diffuse nell'Oriente e in alcuni centri dell'Arabia, l'innestarsi di altri elementi sul tronco della vita letteraria primitiva, la beduina; la civiltà greco-romana e la persiana penetrano attraverso il limes, e soprattutto attraverso i regni dei Ghassān e di al-Ḥīrah; nelle grandi città, negli emporî e nelle feste religiose, questi elementi entrano in più stretta unione e preparano la fusione, avvenuta poi con l'islamismo, della cultura araba con quella dell'Asia anteriore.
Nello studio quindi dello svolgimento della letteratura araba occorre non perdere di vista questo suo carattere ben netto: l'avvicinarsi cioè del puro spirito arabo alle forme religiose e culturali fiorenti nell'Oriente vicino, in fasi successive che culminano nella formazione della cultura araba al tempo dei primi ‛Abbāsidi. Tipica Collaborazione di varî elementi che si fondono in un originale sincretismo, di cui non si mancherà di indicare le varie fasi nella trattazione che segue.
2. La letteratura preislamica. - La poesia. - Se si prescinda dalle iscrizioni che non hanno importanza per la storia letteraria e non debbono essere qui considerate, i più antichi documenti letterarî arabi che ci sono conservati non rimontano oltre il sec. Vl di Cristo, e dànno testimonianza d'una produzione poetica in pieno fiore, in parte già stilizzata in una forma d'arte, la cosiddetta qaṣīdah. L'oscurità delle origini arabe e la scarsezza delle fonti rendono difficile ricostruire la storia di questa antica poesia; ma le analogie degli sviluppi letterarî presso altri popoli semitici e non semitici, alcuni dati offertici da scrittori, le forme stesse della letteratura posteriore ci permettono di fissare alcuni punti essenziali di questo processo, per la prima volta illustrato dal Goldziher nel 1896.
Gli Arabi ebbero fin da tempo antico una loro letteratura popolare che, in rozzi schemi ritmici (in origine in prosa rimata, il cosiddetto saǵ‛, poi in un senario giambico, anch'esso rimato, detto ragiaz), doveva cantare gli eterni motivi della vita umana e più specialmente ispirarsi alle condizioni della vita nomade, che abbiamo veduto prevalere presso gli Arabi e determinarne le forme del viver sociale. Così, forse per la mancanza di grandi imprese nazionali, forse anche per speciali disposizioni delle genti semitiche (sul quale argomento non vogliamo qui intrattenerci, vista la incerta natura di queste ricerche), non troviamo tracce della vera canzone epica, quale fiorì presso tanti altri popoli. Ma dovea trovare espressione in queste forme primitive l'orgoglio delle tribù per i loro successi nelle razzie o nelle guerre o per le gesta dei loro membri; e veri e proprî cantori ne celebravano, in ciascuna di esse, le vicende, come ancor oggi avviene presso alcuni popoli primitivi, come ad esempio, i Galla. Una forma di poesia, ingiuriosa e magica insieme, specie la maledizione del nemico in occasione di guerre o di avversarî nelle contese (higiā') faceva poi l'oggetto dell'attività di veri e proprî "poeti" (shā'ir, plur. shu‛arā'), assistiti, secondo antiche credenze semitiche, dai ginn (v.) o spiriti folletti; questi davan loro, più che l'arte del verso, la potenza di annientare il nemico con la forza soprannaturale delle parole, la quale è sempre oggetto di credenze speciali presso i popoli non civilizzati. Con la maledizione, cerimonia magica con suoi speciali riti (della quale abbiamo un cospicuo esempio nella Bibbia, nel famoso episodio di Bil‛ām), il "poeta" credevasi, poteva provocare la sconfitta dell'avversario, e godeva per questo, nella tribù, di grande autorità e considerazione, sì da essere consultato nelle più gravi contingenze. Shā‛ir, l'antica parola araba che ancor oggi vale "poeta", indica in origine il sapiente, che non solo conosce e canta i fasti della tribù, ma ne è anche in certo modo l'oracolo. Per converso non abbiamo traccia di antichissima poesia religiosa, ché il sentimento del divino non è mai stato assai profondo presso i Beduini; né è escluso che il sopravvento dell'islamismo abbia fatto scomparire ogni reliquia di canti religiosi del paganesimo.
Questo antico divenire della poesia araba e del concetto di poeta si comprende quindi se non si perda di vista il coesistere e l'intrecciarsi, nelle origini di essa, del canto come spontanea espressione dei sentimenti popolari e del carme, arma magica donata dall'ispirazione soprannaturale al poeta. Insensibilmente la qualità di "poeta", di posseduto dai ginn, passava dal mago, che lanciava le sue maledizioni come ben dirette frecce, o dal poeta satirico, che con la forza dei suoi giambi e delle sue invettive annientava l'avversario, al "poeta" nel nostro senso, all'artista, che per l'efficacia del suo dire cominciava a distinguersi tra i cantori popolari. Il contatto con Giudei e Cristiani, e l'opera riformatrice di Maometto, ispirata a forme religiose superiori, modificano poi il concetto d'ispirazione del poeta; la credenza nell'assistenza soprannaturale si affievolisce sempre più, e dopo il I secolo dell'ègira (VII d. C.) non ne resta traccia che in espressioni o simboli che non hanno valore più concreto della nostra metaforica menzione delle Muse. Ma negli atteggiamenti varî dell'opinione pubblica verso i poeti nel I secolo dell'islamismo troviamo ben netto il ricordo delle idee formatesi in questo tempo delle origini: la riverenza e il timore che li hanno sempre circondati si riattaccano, da una parte, alle antiche credenze nel potere magico dei posseduti, mentre, dall'altra, il disprezzo che vediamo qua e là affiorare per il mestiere di poeta va messo in relazione con gli eccessi di impostori, che, è certo. doveano abilmente sfruttare le ingenue credenze nel privilegio della parola. Né alla taccia d'immoralità così spesso attribuita, non solo ad alcuni poeti, ma alla intiera classe di essi, è estraneo il ricordo degli antichi cantori pagani dell'amore e del vino, che nei primi tempi dell'Islām furono centro di resistenza contro i nuovi precetti di Maometto. Questi in un celebre capitolo del Corano, intitolato appunto "dei Poeti", si scaglia contro di essi, come coloro che errano, che folleggiano in ogni valle e dicono quel che non fanno. In qualche altro passo il Profeta respinge sdegnosamente l'epiteto di "poeta" che gli dànno i Quraishiti, ed afferma che egli non è un "poeta", bensì un onorato messaggero, e che Dio non gli ha insegnato "poesia", che a nulla gli gioverebbe. Questi passi, che hanno dato luogo a molte discussioni, sembrano rispecchiare assai bene le condizioni, a cui qui si è accennato; ché Maometto volle certo con quelle parole distinguer sé dai "poeti", e il Corano dai loro vaticinî e dalle loro invettive (con cui alcune parti più antiche del libro avevano, nello stile, non poca somiglianza); e volle insieme difendersi contro gli attacchi e le invettive con le quali i poeti pagani devono averlo assalito. Forse egli allude anche alle licenze dei cantori di amore e di vino, i cui eccessi non potevan certo aver l'approvazione del riformatore, e che furono sicuramente tra i suoi nemici. Checché ne sia, questo giudizio famoso del Profeta ed insieme il favore che egli più tardi concesse ai suoi poeti panegiristi, alla cui arte ricorse volentieri per affermare il suo prestigio (di poesia Maometto non aveva alcuna comprensione), hanno assai influito, più tardi, sulle oscillazioni della pubblica opinione circa i poeti e la loro arte.
Sembra così che la storia della più antica poesia araba debba impostarsi su questi punti essenziali: 1) la credenza nell'ispirazione soprannaturale, attribuita ai poeti del carme d'invettiva (higiā') per la forza magica delle loro parole, si estese in seguito ai poeti del canto popolare; 2) i canti primitivi diedero origine ad una serie di motivi poetici, di veri e proprî generi, che poi si fusero nella unità di una forma d'arte, la qaṣīdah, pur continuando, in parte almeno, ad avere una propria vita; 3) l'uso dei singoli dialetti (tra i quali le differenze non doveano, del resto, essere molto sensibili) cedette gradualmente il passo all'uso di una lingua comune, le cui basi vanno ricercate, secondo il Nallino, nelle parlate del Neǵd, che prevalsero pel maggior prestigio di quelle tribù, e in occasione di periodici incontri di esse con altre della penisola, nelle fiere, nei mercati, nelle solennità religiose, in cui avean luogo recitazioni di poemi e gare poetiche; 4) al più antico metro giambico, usato nei primitivi carmi o nelle più antiche canzoni, si aggiunsero altre forme ritmiche, sempre basate sull'alternanza delle brevi e delle lunghe, alcune derivate dallo stesso metro giambico, altre dall'anapestico, altre dallo ionico, ecc.; superba varietà di forme, che è viva ancor oggi e la cui origine si è voluta ricercare nel ritmo del passo del cammello o in quelli dei singoli lavori dell'uomo, che, adattando la voce ed il canto ad essi, solleva la sua fatica. L'antica poesia araba (come in parte la moderna) non costruisce strofe; l'unità metrica è costituita dalla semplice successione di versi identici, collegati dalla rima e divisi in due emistichi. Questo sviluppo è già compiuto al sec. VI, e culmina nella formazione della già citata qaṣīdah.
3. - La qaṣīdah è un componimento di vario numero di versi (da qualche decina a più di cento), comprendenti ciascuno due emistichi, nel quale un'unica rima lega fra loro i due emistichi del primo verso e il secondo emistichio di tutti gli altri. Sua caratteristica è che in essa, con successione più o meno uniforme, sono riuniti una serie di motivi poetici, più specialmente cari e familiari ai Beduini, e che nessuna diretta connessione hanno con l'argomento principale della poesia, se non in quanto hanno per fine di ben disporre e di preparare, con il fascino di un canto soave per il cuore di ogni Arabo, allo scopo finale che la qaṣīdah stessa si propone. Questo è per lo più l'encomio di re, di capi o di potenti, o la celebrazione di virtù proprie o della tribù, o l'eccitamento al valore ed alla resistenza: argomenti a cui offrivano l'occasione le frequenti guerre fra tribù, le continue razzie e il bisogno della protezione dei potenti, sempre avidi di lode ed adulazione. La parola qaṣīdah è posta in relazione dagli Arabi con il verbo qaṣada, "proporsi qualche scopo".
Alcuni generi nati dal canto popolare (ai quali abbiamo qui sopra accennato) si sottraggono più che altri a questo irrigidimento, quasi filone ininterrotto della poesia viva non costretta in uno schema d'arte così uniforme (sebbene anch'essi, nel successivo sviluppo della poesia, non siano immuni dalla stilizzazione, assai notevole nella poesia araba); e ad essi si riattaccano, nelle posteriori vicende della letteratura, tutte le reazioni all'impero della forma fissa delle qas̄īdah, che regnerà sovrana, per lungo tempo, anche quando non sussisteranno più le condizioni di vita che la avevano creata Tra questi motivi che vediamo affermarsi rigogliosi anche dopo il prevalere della qaṣīdah, notiamo specialmente la satira o invettiva (higiā'), che deriva dall'antica maledizione magica; il canto d'amore, che è assorbito in parte nel cosiddetto nasīb o prologo amoroso della qaṣīdah (di cui parleremo or ora), ma in parte continua a vivere di sua propria vita; la poesia bacchica, che è di origine più tarda; infine il pianto per il morto, il rithā', genere letterario ancor oggi vivo nei paesi di lingua araba e che si riannoda, con ininterrotta tradizione, a queste forme preislamiche. Ma altri motivi più proprî della vita beduina si fondono piuttosto, come abbiamo detto, nella grande unità della qaṣīdah. Questa comincia con il lamento amoroso del poeta, che piange la partenza dell'amata, strappata al suo affetto dalla necessità inesorabile della vita nomade, e interroga i resti dell'accampamento ove essa dimorava, reso irriconoscibile dalle intemperie e dal passare degli anni. Questo motivo profondamente poetico e profondamente sentito dai rozzi Beduini, come in genere ogni canto d'amore, era più che altri atto, per la commozione che sapeva suscitare, a conciliare gli animi al benevolo ascoltare e ad accendere gradualmente quell'entusiasmo per la bella poesia, che è vivissimo ancor oggi anche tra gli Arabi non colti, e su cui tanto calcolava l'abile poeta; così l'inno alla divinità presso popoli di vivo senso religioso, come gli antichi Greci, precedeva la recitazione del carme epico. E per virtù di singoli artisti il nasīb ha raggiunto assai spesso le più alte vette della poesia; senonché la sua uniformità (conseguenza inevitabile dell'esser divenuto prologo d'obbligo di ogni qaṣīdah) e i plagi dei minori poeti lo hanno irrigidito assai spesso in forme convenzionali, prive ormai di ogni valore poetico. Presso i critici arabi esser valenti nel nasīb era tra le più alte qualità che potessero attribuirsi al cantore in quelle dispute e contese sul valore dei poeti, che hanno varcato le soglie dei palazzi califfali e principeschi e hanno appassionato intiere generazioni.
La scrittura maghrebina. - La scrittura cufica, come è detto più sopra, ha dato origine alla scrittura maghrebina, che fu in uso in tutto l'Occidente arabo (al-Maghreb), compresa la Spagna, e lo è ancora in tutta l'Africa del Nord, ad eccezione dell'Egitto. Il tipo più antico di questa scrittura è chiamato nella tradizione la scrittura di al-Qairawān; e in questa città, senza dubbio, maggior centro della vita culturale islamica nel Maghreb, deve essersi formata dai suoi modelli cufici, e sotto la dinastia degli Aghlabidi (184-296 èg., 800-909 d. C.) aver ricevuto la sua forma definitiva. Caratteristiche importanti per la storia e per la cronologia dell'alfabeto maghrebino sono la puntuazione del f e del q (rispettivamente \ARABO\ e \ARABO\), e l'ordinamento delle lettere differente dall'orientale. In Ispagna, che divenne ben presto il centro della vita spirituale del Maghreb, sorge la scrittura andalusa o cordovana, meno rigida di quella di al-Qairawān; secondo Ibn Khaldūn, che nella sua Muqaddimah (v. arabi: Letteratura, § 52) ha un capitolo assai importante sulla scrittura, la scrittura spagnuola soppiantò, in Africa, quella di al-Qairawān venne poi in auge quella detta di Fās (Fez) o marocchina, che forse non merita il giudizio così sfavorevole che ne dà quell'autore. La scrittura maghrebina sino dal sec. XIII si diffuse anche nei paesi islamici dell'Africa centrale, e nel centro culturale di Tinbuktū assunse un suo carattere, distinto specialmente dalla maggiore dimensione e dal maggior spessore delle lettere.
Le scritture maghrebine oggi in uso nell'Africa del nord sono la tunisina, più simile delle altre alla scrittura orientale, l'algerina, assai rigida e di non facile lettura, la marocchina o di Fās, con forme piuttosto arrotondate, e la sudanese grossa e inelegante.
Esempio antico di scrittura maghrebina è nella fig. 21.
Diffusione della scrittura araba. - La scrittura araba non è stata accolta solamente da Persiani e da Turchi, ma anche da altri popoli di lingua differente, che però non l'hanno fatta oggetto di sviluppo calligrafico. Tutti i popoli musulmani vollero adattare alla loro lingua nazionale la scrittura araba, malgrado che questa si presti assai male ad esprimere i suoni, specialmente i vocalici, di lingue non semitiche. Dai Persiani la scrittura araba passò anche ai musulmani indiani, che la usarono per la lingua hindūstānī o urdū; per renderne alcuni speciali suoni (cerebrali) si adottarono i nuovi segni \ARABO\ (scritti anche ponendo un piccolo \ARABO\ sui segni \ARABO\. Analoghi ripieghi furono ideati nel sec. XIX da missionarî protestanti per alcune consonanti proprie della lingua afghana. La scrittura araba fu anche accolta dai musulmani della Malesia e del Madagascar per scrivere rispettivamente il malese ed il malgascio. I Turchi diedero l'alfabeto arabo ai Tartari, a parte degli Armeni, a Slavi musulmani della Bosnia Erzegovina. In Africa la scrittura araba fu adottata dai Berberi (v.) e nei paesi musulmani dell'interno; inoltre nella costa orientale, a Zanzibar e altrove, per il suāḥilī, lingua del gruppo bantu. I cosiddetti Moriscos della Spagna, dopo la fine della dominazione musulmana, usarono scrivere alcuni dialetti spagnoli (ed anche il portoghese) in caratteri arabi muniti di tutti i segni delle vocali; la lingua così scritta si chiamava aljamía (v.). In Cina la scrittura araba, nonostante il grande numero di Musulmani, non ha potuto avere diffusione notevole, a causa della enorme difficoltà di rendere con i caratteri arabi i suoni cinesi.
Bibl.: B. Mortiz, articolo Arabische Schrift, nella Enciclopedia dell'Islām, di cui il presente è, in qualche parte, un riassunto; id., Arabic Palaeography, a collection of Arabic texts from the first century of the Hidjra till the year 1000, Cairo 1905; Ch. Fossey, Notices sur les caractères étrangers anciens et modernes..., Parigi 1927; C. Huart, Les calligraphes et les miniaturistes de l'Orient Musulman, Parigi 1908; M. van Berchem, Matériaux pour un Corpus Inscriptionum Arabicarum, Cairo 1894-1925, continuato da G. Wiet, Cairo 1929; O. Houdas, Essai sur l'écriture maghrébine, Parigi 1886. Cfr. anche la bibliografia in G. Gabrieli, Manuale di bibliografia musulmana, Roma 1916, pp. 185-189. Compendio di scarso valore è Abdel Fattah Ebada, L'écriture arabe, tradotto da T. Sutton, Cairo s. a. (verso il 1918; il testo arabo è del 1915).
V. Musica.
Alcuni autori musulmani fanno risalire le origini della musica alle prime età del mondo e all'espressa volontà di Allāh.
"Quando Dio creò Adamo", dice uno di essi, "ordinò all'anima di entrare nel corpo ad essa destinato e, subito, il polso di Adamo si mise a battere. Poiché Adamo aveva già ricevuto dal Creatore la voce, e poiché i battiti del suo polso presero un movimento regolare, vi fu nel suo corpo suono e ritmo. Ciò gli permise di salmodiare per lodare il Creatore e di cantare ad alta voce le più sublimi melodie" (‛Abd al-Qādir ibn Ghaibī, m. nel 838 èg., 1434-1435 d. C., nel commento al Kitāb al-adwār di Ṣafī ad-Dīn ‛Abd al-Munim 1434 al-Urmawī al-Baghdādī, m. nel 656 èg., 1258 d. C.).
Secondo un'altra leggenda, Dio creò prima l'universo. Poi estrasse dal nulla tutte le anime destinate, fino alla fine dei secoli, ad abitare i corpi dei mortali nascituri; in seguito ordinò ai sette pianeti e agli altri corpi celesti di mettersi in movimento. Le anime udirono allora l'ammirevole armonia prodotta dagli astri con i loro movimenti cadenzati; ma gli spiriti puri che godevano questo concerto planetario non lo gustarono tutti con lo stesso trasporto; vi fu perfino chi rimase insensibile. Così avviene che, fra tanti uomini che odono la musica, vi sono esseri imperfetti e privi di sentimento che essa lascia indifferenti.
Si arriva, perfino, ad attribuire ad origine divina i modi che hanno una parte così importante nella teoria musicale degli Arabi.
Dio avrebbe inventato la musica per distrarsi e si sarebbe dilettato ad insegnarla agli angeli. Fra questi l'arcangelo Arit era diventato il più abile nell'arte. Ma quando Dio dovette scacciare dal Paradiso gli angeli ribelli e li precipitò nell'Abisso delle Tenebre, dimenticò che li aveva iniziati alle meraviglie della Voce Melodiosa. Arit, diventato Iblīs (il diavolo), approfittò della sua scienza musicale per tentare gli uomini e per indurli al peccato. Allāh comprese allora quale potenza miracolosa aveva lasciata ai suoi nemici e risolvette di togliere loro la memoria musicale. Era ormai troppo tardi: Iblīs aveva cominciato ad insegnare agli uomini le prime nozioni del modo Asbein; ma non poté andar oltre, e fu una grande disgrazia perché gli uomini non conobbero mai per intiero questo modo divino.
Queste leggende e spiegazioni mistiche intorno alle origini della musica si ritrovano in tutti i paesi dell'Islām, dei quali è noto l'attaccamento alle tradizioni secolari. In conseguenza di questo attaccamento, si trovano forme identiche nelle melodie di Tangeri, di Algeri, di Tunisi, di Tripoli, del Cairo, di Stambūl, di Ṭeherān, e si stabilisce una stretta parentela fra la musica araba moderna e le melodie di nostra conoscenza attribuite ai musicisti favoriti dei sovrani di Granata, di Cordova, di Baghdād o di Damasco.
Epoca preislamica. - Sulla musica dei tempi preislamici, della Giāhiliyyah cioè "periodo d'ignoranza" del quale parla Maometto, abbiamo soltanto congetture. Senza dubbio i Beduini coltivavano la danza e il canto; avevano fin da quei tempi una musica rudimentale sufficiente ai loro istinti di pastori e di nomadi primitivi. La sostanza musicale era forse autoctona, o forse risentiva l'influenza dei rapporti con gli Ebrei, Assiri ed Egiziani, o quella degli Aramei, venuti dalla Siria. Ma nulla sappiamo della musica di quei tempi così antichi.
Al-Mas‛ūdī, seguendo un racconto che il geografo e letterato Ibn Khurdādhbih avrebbe fatto al califfo al-Mu‛tamid (256-279 dell'ègira, 870-892 d. C.), ci dice che Lamek, figlio di Matūshalaḥ (Matusalemme), pronipote di Caino, figlio di Adamo, fu il primo a sonare il liuto; che Tūbal, figlio di Lamek, inventò iṭubūl (plurale di ṭabl, grosso tamburo); che Dilāh, figlia di Lamek, inventò il mi‛zaf (arpa di forma non ben stabilita); che gli abitanti del Khorāsān accompagnavano i loro canti col sanǵ (istrumento a sette corde?); che il primo canto degli Arabi fu lo ḥidā', creato casualmente da Muḍar, nipote di Ma‛add, il quale, rottasi una mano nel cadere dal cammello, se ne andò gemendo: yā yadāh, yā yadāh (Oh, la mia mano, oh, la mia mano!), e constatò che al suono di quel lamento ritmico i cammelli della carovana camminavano meglio.
Indicazioni relative a questo periodo si trovano nel famoso filosofo Abū Naṣr al-Fārābī od Alfarabio, morto nel 339 dell'ègira (950 d. C.), che lasciò un Kitāb al-mūsīqī (v. Bibl.). I cronisti arabi nominano parecchi autori che vissero e scrissero in epoche anteriori, come al-Khalīl (morto nel 170 dell'ègira, 786 d. C.), Isḥāq ibn Ibrāhīm al-Mawṣilī (150-235 èg.), al-Kindī (morto dopo l'870 d. C.) ed alcuni altri. Ma gli scritti che di tali antichi autori ci sono pervenuti trattano soltanto la storia aneddotica della musica e dei musicisti, senza rivelare niente che ci illumini sulla pratica musicale dei loro contemporanei. Al-Fārābī studiò gli strumenti che erano in uso ai suoi tempi, specialmente con l'intento di opporre alle tradizioni antiche le idee nuove ricevute dagli autori greci. Allorché fissa il posto delle legature del liuto o del ṭunbūr di Baghdād, egli accenna alle legature pagane, parla della scala pagana e delle arie pagane. Se ne arguisce che questi termini si riferiscono alle pratiche musicali dei tempi anteriori all'islamismo. Vi è dunque una testimonianza preziosa per conoscere l'arte dei suoi predecessori.
Secondo al-Fārābī il ṭunbūr di Baghdād sarebbe stato accordato come segue: vi sono due corde; si prende un ottavo della corda e lo si divide in cinque parti eguali, in modo che, se la corda libera è rappresentata dal numero 40, le cinque note ottenute sono rappresentate da 39, 38, 37, 36, 35. Tradotte in frazioni, queste posizioni delle dita sulla corda dànno dei suoni con i seguenti spazî: 1) corda vuota; 2) 40/39, meno un quarto di tono; 3) 40/38 oppure 20/19, semitono vicino alla limma pitagorica, intervallo 256/243 ottenuto sopprimendo due toni maggiori (9/8) della quarta giusta (4/3); 4) 40/37, un 2/3 di tono; 5) 40/36 oppure 10/9, tono minore; 6) 40/35 o 8/7, tono aumentato.
La seconda corda ha il suono a vuoto accordato sul suono 20/19 della prima.
Ecco la prima prova conosciuta della tendenza secolare dei popoli orientali a costruire scale musicali a piccoli intervalli che, all'infuori di un'esperienza sul sonimetro, noi non possiamo esattamente apprezzare. È questa una delle caratteristiche specifiche della musica araba antica e moderna.
Al-Fārābī spiega poi che due scale erano in uso prima del suo tempo e che esse rappresentavano i due modi pagani; esse erano indicate dalle serie:
Non c'è da fare grande affidamento su queste cifre, perché al-Fārābī ritocca evidentemente gl'intervalli secondo le sue idee greche. Si riconoscono tuttavia: il tono maggiore 9/8, il tono aumentato 8/7 più grande del tono maggiore, due piccoli intervalli 28/27 e 49/48, sorprendenti per l'epoca, ma che si ritrovano presso i teorici dei seguenti secoli e che ci è impossibile definire con le risorse della terminologia occidentale moderna.
Un altro autore, Abū 'l-Faraǵ ‛Alī al-Iṣfahānī (v.), 284-356 èg., 897-967 d. C., narra che il celebre musicista negro della Mecca, Ibn Misgiaḥ, dopo aver studiato la musica greca e quella persiana, "adattò parecchie di quelle melodie alla musica araba, ma eliminò certe modulazioni (nabarāt) o fioriture, e certi canti che non erano conformi alla musica araba".
Questa preesisteva dunque; se non ne era fissata la teoria, era stabilita la pratica ed aveva una tradizione, contro la quale i musicisti delle epoche seguenti credevano di dover reagire. Le notizie che esistono sono frammentarie e dubbiose. La vita della penisola araba era allora molto turbata: le tribù nomadi o sedentarie, i Coreisciti, gli Ebrei, gli Aramei, gli Abissini, i Persiani erano in lotta continua, e si suppone che le arti di quei popoli si confondessero o si compenetrassero, senza che si possa affermare quale dominava nella pratica. Non sbaglieremo immaginando una musica adattata ai canti dei cittadini e dei nomadi, forse simile a quella che si sente anche oggi sotto la tenda dei Beduini, ma certo più semplice e più disadorna di quella composta nei secoli seguenti.
I primi secoli dell'Islamismo. - Sotto i califfi di Medina, poi sotto i sovrani di Damasco e di Baghdād, fiorì una civiltà raffinata nella quale la musica ebbe una grande importanza e si sviluppò, codificata da numerosi teorici, nella pratica di parecchi musicisti rimasti celebri. Su codesta epoca esistono documenti abbondanti.
Il Libro della Musica di al-Fārābī rappresenta la teoria; il Kitāb al-aghānī o "Libro dei canti" di Abū 'l-Faraǵ ‛Alī al-Iṣfahạnī invece espone a colori vivacissimi gli usi e la vita dei cantanti di ambo i sessi, che riportavano maggiore successo. Vi si trova il testo delle poesie con qualche vaga indicazione musicale, aneddoti piccanti sulle rivalità fra artisti, sui loro metodi, sui loro ritmi preferiti, sulla lotta fra quelli che potrebbero dirsi i classici ed i romantici del tempo, sulla generosità dei califfi verso i loro musicisti favoriti, e sugli strani modi di manifestare la propria commozione tenuti dai grandi signori davanti ai cantori ed ai suonatori. Si osserva soprattutto che, durante il periodo dei califfi Hārūn ar-Rashīd e al-Ma'mūn, la musica venne coltivata con passione ed ebbe un posto di prim'ordine nella vita del popolo e delle corti.
Per tentare di ricostituire la teoria della musica di quell'epoca bisogna ricorrere ad al-Fārābī, a Ṣafī ad-Dīn ‛Abd al-Mun‛im al-Urmawī già citato ed a Yaḥyà ibn ‛Alī al-Munaggim (v. Bibl.). Dopo qualche discussione sulla natura e sulla definizione del suono, delle sue qualità e delle sue proprietà, questi teorici entrano in particolari interessanti. Yaḥyà dà l'intavolatura del liuto a quattro corde e, opponendosi ai musicisti i quali sostengono che vi sono diciotto suoni nella scala, si riferisce al celebre Isḥāq al-Mawṣilī e spiega che vi sono dieci suoni soli.
Il primo è il suono della corda libera, mathnà (la seconda corda partendo dall'acuto); questo suono si chiama, imād "base", perché su di esso si accordano le altre note. Queste altre note sono quella dell'indice, sabbābah, quella del medio, wusṭà, quella dell'anulare, binṣir, e quella del mignolo, khinṣir; tutte sulla corda mathnà. Poi si accorda la corda alta, la zīr, sulla mathnà. Manca una nota per completare l'ottava, ma non occorre aggiungere una quinta corda: basta toccare il zīr più in là del mignolo, a un intervallo eguale a quello che separa l'indice dall'anulare. Abbiamo dunque dieci suoni. Vi sono anche due corde gravi nel liuto: sono il mithlath (la terza partendo dall'acuto) e il bamm. Queste due corde non fanno che dare le note all'ottava inferiore a quelle delle corde alte. Chi vuole ammettere diciotto suoni conta tutte le note differenti del liuto, senza tener conto della somiglianza fra le ottave.
Yaḥyà aggiunge che le note della scala del liuto erano rappresentate dalle lettere alif, bā, gīm, hā, wāw, zain, ḥā, fā, yā.
L'intavolatura del liuto a quell'epoca si potrebbe riassumere come nella figura qui accanto.
Gli strumenti di quella epoca sono: il liuto (al-‛ūd), dapprima a due corde, come il ṭunbūr persiano, e più tardi a quattro corde; il mizmār, che Yaḥyà nomina senza descriverlo, che è, a quanto pare, un flauto; il mi‛zaf sul genere dell'arpa; il rabāb, violino a una o due corde; infine strumenti a percussione per segnare il ritmo, al quale gli Arabi hanno sempre attribuito una funzione capitale.
Il liuto era dunque accordato per quarte e la sua gamma era una scala pitagorica austeramente diatonica; si potrebbe rappresentare nel modo seguente:
Pare che le otto scale o modi si possanno tradurre così:
I ritmi principali si chiamano:
Le teorie greche. - Il periodo dal X al XIII sec. segna una evoluzione singolare della musica araba. I teorici, soprattutto al-Farābī e Ibn Sīnā (Avicenna, v. Bibl.), e gli autori dei tempi seguenti sono influenzati dalla musica greca e vogliono orientare la loro arte verso l'arte greca, codificarla secondo le teorie elleniche nei suoi intervalli, generi, sistemi, ritmi e strumenti. Ciò non è spiegabile con un'affinità qualunque fra i due popoli, e trae in imbarazzo coloro che credono ad una formazione etnica del senso musicale, obbediente più alle tendenze estetiche di ciascuna razza che all'imperio, immutabile da popolo a popolo, delle leggi acustiche. Ma non sarebbe, d'altra parte, fuor di luogo il riconoscere in tale orientamento dei musicisti arabi un'espressione dell'interesse ed entusiasmo per la cultura e scienza greca che l'Islām in quel tempo venne a conoscere, sebbene parzialmente, e al cui studio si dedicò con ardore.
Bisogna del resto fare subito una distinzione necessaria: vi è la musica, per così dire, astratta, nella quale i fisici musulmani sfoggiano tutte le sottigliezze della matematica, perseguendo intervalli così minuti e così numerosi che ci si domanda se il loro orecchio fosse capace di riconoscerli; vi è poi la musica da eseguirsi praticata e praticabile dai cantori e dai suonatori.
Intervalli. - Vi sono: 1° i grandi (doppia ottava, ottava e quinta, ottava e quarta e ottava); 2° i medî (quinta e quarta); 3° i piccoli, chiamati intervalli di modulazione, i quali sono suddivisi a loro volta in grandi, medî e piccoli. Se certuni sono conosciuti e facili ad essere percepiti e misurati, i piccoli intervalli hanno un valore puramente matematico, che sfugge alla nostra notazione e talvolta perfino alle nostre facoltà uditive.
I grandi intervalli di modulazione sono quelli, che, diminuiti della quarta, lasciano un intervallo il cui rapporto è minore del loro: si trova allora 1 1/4, 1 1/5, 1 1/6. I piccoli intervalli di modulazione darebbero 1 1/7, 1 1/8, 1 1/9; e i grandi fra i piccoli intervalli di modulazione si esprimerebbero con i numeri 1 1/10, 1 1/11, 1 1/12, 1 1/13, 1 1/14, e 1 1/15. Questa manìa del calcolo porta gli Arabi molto lontano. Prendendo alla lettera le indicazioni del già citato scrittore Ṣafī ad-Dīn, la formazione dei modi, cioè la maniera per dividere un tetracordo, disporrebbe di 29 intervalli i cui rapporti sono: 5/4, 6/5, 7/6, 8/7, 9/8, 48/43, 10/9, 21/19, 11/10, 59/54, 12/11, 64/59, 81/75, 13/12, 320/297, 14/13, 15/14, 16/15, 86/81, 256/243, 20/19, 21/20, 22/21, 24/23, 28/27, 31/30, 32/31, 46/45, 49/48.
È possibile riconoscere la terza maggiore 5/4, la terza minore 6/5, il tono maggiore 9/8, il tono minore 10/9, il semitono maggiore 16/15, il limma di Pitagora 256/243; gli altri intervalli sono abbastanza strani, ma i teorici arabi non nascondono che nella pratica molti di essi non si usavano. Ṣafī ad-Dīn ‛Abd al-Mun‛im stesso indica come usuale quella divisione dell'ottava data dalla metà della corda (v. fig.).
Dopo aver indicato i differenti accordi del rabāb a due corde, i quali variano secondo che il suono a vuoto della seconda corda sia la terza minore, la terza maggiore o la quarta aumentata del suono a vuoto della prima, egli torna all'accordo per quarte, onde si forma una scala cromatica che si può considerare completa.
Il ṭunbūr del Khorāsān aveva legature fisse in numero di cinque e legature ausiliarie variabili, le quali davano, fra i suoni delle legature, dei limma e dei comma. A questa complicazione si aggiungono diversi modi di accordare l'istrumento.
Sul ṭunbūr di Baghdād al-Fārābī indica delle legature "pagane" che darebbero su ogni corda la serie seguente.
L'accordo del liuto, che fu un istrumento più classico e più usato, stabilisce i caratteri e la storia degli intervalli nella musica araba. Nel sec. IV dell'ègira (X d. C.) il liuto aveva 4 corde e ne ricevette una quinta più tardi. Ogni corda aveva quattro legature che portavano i nomi delle dita: la sabbābah ad 1/9 della corda dava un tono maggiore, il binṣir un tono maggiore più su, ed il khinṣir, un limma in su, arrivava alla quarta, intervallo considerato allora come fine supremo della musica. Ma fra il suono della corda a vuoto e il tono maggiore della sabbābah, i musicisti dell'epoca pongono un wusṭà, e appunto a proposito di questo intervallo le scuole si separano. In massima la wusṭà era presa a un tono maggiore sotto la quarta del suono a vuoto: era una wusṭà diatonica, e vi furono le arie a binṣir costruite con la terza maggiore, e le arie a wusṭà costruite con la terza minore ma i Persiani trovarono questa divisione insufficiente e, dopo aver attaccato la legatura della wusṭà a metà fra la sabbābah ed il binṣir, crearono la wusṭà persiana. Manṣūr ibn Gia‛far, detto Zalzal, respinse il sistema delle terze maggiori e minori e pose una legatura di wusṭà a metà fra la wusṭà persiana e il binṣir, e cioè a 22/27 della corda intiera: fu la wusṭà di Zalzal. Ciascuna di queste wusṭà ebbe il suo tempo e i suoi partigiani. Anche altre complicazioni furono preconizzate. Fra le due note, corda a vuoto e tono maggiore, furon poste le mugiannab, "vicine" della sabbābah, che davano, invece che terzi di toni eguali, degl'intervalli 256/243, 162/149, 64/69.
Al-Fārābī dà una spiegazione preziosa con la sua definizione del tono: "la differenza fra la quinta e la quarta", e con la definizione del limma: "il residuo della quarta dopo aver tolto due toni". A quelli che pensano che questo residuo debba essere eguale alla metà di un tono, egli fa osservare che è in realtà più piccolo di quella metà. Gli antichi lo chiamavano faêlah o baqiyyah. L'intervallo più piccolo del semitono è per lui il diesis dei Greci. La quarta parte del tono si chiama irkhā'; ma non equivale a un quarto di tono, poiché le divisioni corrispondono a 36/35, 36/34, 36/33, e 36/32.
Avicenna è altrettanto esplicito. Si ride degli artisti della sua epoca che prendono il limma per un semitono matematico e l'irkhā' per un quarto di tono. Sappi, dice, "che la faêlah e l'irkhā' sono intervalli melodici, dei quali alcuni artisti fanno uso indifferentemente. Confondono il tono aumentato 13/12 col tono aumentato 14/13. Gli uni stringono la corda fino a farle dare la wusṭà di Zalzal; altri mettono la wusṭà più alta ed altri più bassa; altri ancora a metà fra la sabbābah e il khinṣir e non discernono la differenza: prendono per una faêlah la differenza fra le due wusṭà. Questi artisti non hanno orecchi né sanno far calcoli".
La scala qui a lato, che rappresenta queste divisioni della quarta su una corda, mostra una volta di più che i musicisti arabi, contrariamente all'opinione di Villoteau Fétis e Kiesewetter (v. Bibl.), non hanno mai diviso il tono né in tre né in quattro intervalli eguali.
Allorché il liuto ricevette una quinta corda, la ḥādd "l'acuta", la relazione delle cinque corde era questa: la totalità di ciascuna rende gli stessi toni che i 3/4 di quella situata al di sopra; la terza vale i 3/4 della grave e così di seguito. La binṣir e la ḥādd completano la doppia ottava, sistema perfetto di quattro tetracordi caro ad al-Fārābī. La sabbābah della quinta corda è la παρανήτη ὑπερβολαιῶν della media fra le acute usate dai Greci; la binṣir dà l'acuta delle acute, la νήτη ὑπερβολαιῶν. L'esame dei flauti, istrumenti a suono fisso, conferma ciò che precede.
Dopo aver dato le cure più meticolose a queste divisioni del tono in intervalli minuscoli, i teorici come Ṣafī ad-Dīn ammettono che bisogna eliminarne la maggior parte e conservare soltanto alcuni suoni realmente pratici. Da tutto ciò risulta la nozione di una scala di carattere prettamente diatonico, con intervalli classici ed un intervallo intermedio fra il tono ed il semitono, e procedente per tetracordi legati; l'ottava si divideva in dieci gradi prima del X sec. e in diciassette gradi nel X sec. Questa scala non ha niente in comune con una specie di temperamento, voluto da alcuni studiosi moderni (Kiesewetter, Villoteau, Fétis, ecc.), che avrebbe diviso il tono in tre parti eguali e che è formalmente confutato dagli scritti dei teorici e dalla precisione indiscutibile dei loro calcoli.
Per avere una fisionomia esatta di questa scala possiamo, riassumendo le opere teoriche di quell'epoca, basarci sull'intavolatura del liuto a cinque corde, nella quale i suoni trascritti in figure nere sono quelli che la notazione moderna non può rappresentare esattamente; soltanto le misurazioni da noi indicate ne fissano l'altezza.
Si vede che al-Fārābī e Ṣafī ad-Dīn designano i nomi dei suoni con i nomi di lettere arabe, o sole o accoppiate. Al-Fārābī, col partito preso di far entrare la teoria della musica araba nella terminologia e nelle regole della musica greca, vuole identificare queste note con le note greche: chiama alif del bamm a vuoto il προσλαμρανόμενος, gīm la ὑπάτη ὑπάτων, dāl il λιχανὸς ὑπάτων, ecc.
I generi. - Come presso i Greci, la prima scala della successione di suoni ha per cornice il tetracordo; tutte le preoccupazioni dei teorici arabi, i quali si curano più delle speculazioni matematiche che della sensibilità musicale, consistono nel porre, fra i suoni estremi e quelli fissi, dei suoni che modifichino la fisionomia interna della quarta. Il genere (gins) è "il seguito di suoni ottenuto dividendo la quarta in tre parti"; le combinazioni così stabilite ed eminentemente variabili sono le specie (Ṣanf). Vi sono diversi generi: dolce, forte, normale, colorito, ordinatore, ecc., distinti dalla posizione degli intervalli e dal rapporto matematico fra uno di essi e la somma degli altri due. Ogni genere ha diverse specie ordinate o no, continue o no, caratterizzate egualmente dalla disposizione interna degl'intervalli. Il giuoco delle permutazioni è spinto all'estremo e il calcolo dei generi non è se non un esercizio di matematica, che consiste anzitutto nel diminuire successivamente della quarta gli intervalli 5/4, 6/5, 7/6, 8/7, 9/8, e nel dividere il residuo in due parti eguali o diseguali; poi nel passare alle permutazioni per ottenere le sei specie di ogni genere e nel calcolare ancora altri generi di raddoppiamento. Quando le forme da ottenersi sono esaurite, si fanno subire le stesse operazioni alla quinta e perfino agl'intervalli più piccoli della quarta; la mania della divisione arriva fino a ricercare ancora altri intervalli, dividendo la quarta in 4 parti e la quinta in 3 0 4 intervalli più piccoli del 4/3 per ottenere i "generi isolati" (mufrad).
Questa teoria implicherebbe una ricchezza inaudita di quarte e di quinte e, siccome il tetracordo ed il pentacordo sono generatori dei modi, le combinazioni possibili sarebbero innumerevoli. Ma gli autori, dopo aver esaurito le loro invenzioni matematichc, sono i primi a confessare che nella pratica il numero dei generi era meno considerevole. Ṣafī ed-Dīn stesso, pure scrivendo: "non si creda che questi generi siano gli unici che si possano comporre: se ne potrebbero citare ancora un'infinità", ci dà la lista dei dieci generi più usitati del suo tempo. Eccoli con i loro rapporti di lunghezza di corda, la loro traduzione relativa e i loro nomi, per la maggior parte di origine persiana e in riferimento a un segno dello Zodiaco:
‛Oshshāq: 1° forte raddoppiato, prima specie: 9/8, 9/8, 256/243.
Nawd: 1° forte raddoppiato, seconda specie: 9/8, 256/243, 9/8.
Abūsalīk: 1° forte raddoppiato, terza specie: 256/243, 9/8, 9/8.
Rāst: 2° interrotto debole, prima specie: 9/8, 59/54, 64/59.
Nawrūz: Separato temperato, terza specie: 11/10, 320/297, 9/8
Irāq: 2° interrotto, seconda specie: 59/54, 9/8, 64/59.
Iṣfahān: 1° isolato: 13/12, 14/13, 15/14, 16/13.
Buzurk: Grande isolato: 14/13, 4/7, 13/12, 14/13, 117/112.
Zīr-afkand: Piccolo isolato: 14/13, 13/12, 36/35.
Rāhawī: Secondo isolato: 13/12, 14/13, 15/14.
I sistemi. - L'organizzazione interna della quarta o della quinta dà soltanto delle porzioni di sistemi; i Greci direbbero sistemi imperfetti. Quando essa è realizzata, i teorici arabi organizzano l'interno degl'intervalli più grandi, "l'intervallo totale" (al-bu‛d dhū 'l-kull) o ottava, e "l'intervallo totale raddoppiato" o doppia ottava (dhū 'l-kull marratayn), che, secondo Avicenna, fu introdotta assai tardi e che costituisce il "sistema assolutamente perfetto (al-giam‛ at-tāmm aw al-kāmil ‛alà 'l-iṭlāq), formato di quattro tetracordi e di due toni "separatori" (al-faṣīlah). Al-Fārābi presenta questo sistema perfetto sotto tre combinazioni:
1° tetracordo, tetracordo, tono - tetracordo, tetracordo, tono.
2° tono, tetracordo, tetracordo - tono, tetracordo, tetracordo.
3° tetracordo, tono, tetracordo - tetracordo, tono, tetracordo.
Poiché si possono variare i generi di ciascun tetracordo o permutare i piccoli intervalli, teoricamente si ottengono dei sistemi numerosi e molto dissimili. Eccone qualcuno, tratto dalla nomenclatura di Ṣafī ad-Dīn e scelto dall'infinità di combinazioni possibili.
Siccome ciascuna delle quarte può avere una composizione differente, i sistemi diventano numerosi e complicati. Restando fisse le quarte, le permutazioni dei piccoli intervalli dànno delle specie (anwā'), il che dà p. es. sette specie del sistema perfetto disgiunto.
Il genere del primo tetracordo è la "radice", aṣl. Il succedersi di quattro suoni quali si siano è un "mare" (baḥr), "perché occupano per così dire una certa regione".
La nozione dei sistemi conduce ad un'altra nozione che eccita la curiosità dei musicisti occidentali, poiché quei sistemi erano semplicemente le scale musicali o i modi offerti alla scelta dei compositori arabi nei secoli passati. Come bene osservano i teorici, ad ogni sistema era propria una serie di toni più o meno dolce, aspra, piacevole, leggera, commovente, imponente, adatta al carattere della melodia o della poesia. Ora anche in questo scorgiamo una delle particolarità della musica araba, che unisce un apparato teorico stupefacente ad una pratica reale molto più semplice. Infatti, a quanto dice Mohammed ibn ‛Abd al-Ḥamīd al-Lādhiqī, che scrisse la sua ar-Risālah al-fatḥiyyah ne sec. IX dell'ègira (XV d. C.), gli antichi praticavano soprattutto sei "mescolanze di dita" o le "sei dita" (al-aṣābis, as-sittah), insomma sei maniere di tasteggiare:
È presumibile che almeno questi tetracordi siano stati realmente praticati e combinati in sistemi, e così formassero le scale modali usate nei secoli X e XI.
Riportandoci soprattutto alle indicazioni abbastanza precise date da Ṣafī ad-Dīn, da Shams ad-Dīn e da certi trattati anonimi dei secoli XV e XVI d. C., si può chiarire questa teoria così intricata.
Prendendo per il primo tetracordo di una gamma uno dei sette generi analizzati dianzi, e per il secondo tetracordo uno degli altri dodici generi indicati, si ottengono 84 gamme che gli Arabi chiamano dā'irāt "cerchi" o "circolazioni", perché usano presentarle sotto forma di cerchi divisi in 17 segmenti. Il numero di queste circolazioni e di quelle che risulterebbero dalla trasposizione delle 84 gamme su ciascuno dei 17 gradi della loro scala ha dato molto da pensare ai musicologi occidentali, e Villoteau (v. Bibl.) parla molto seriamente delle 1428 scale arabe. I teorici arabi vanno un po' meno lontano: ma se, cedendo a quella loro solita mania, enumerano molti modi, si fanno però premura di riportarne il numero alle proporzioni minori imposte dalla pratica strumentale, qualunque sia la finezza d'orecchio che ad essa si eserciti. Con l'applicazione del genere rāst (v. sopra) al primo tetracordo, e aggiungendo diversi generi per il secondo tetracordo, si ottengono le seguenti circolazioni sul liuto:
Abbiamo qui un primo elemento di apprezzamenti per le varietà dei modi realizzabili. Una seconda varietà si ottiene con le cabaqāt, che dànno una serie di scale nelle quali la nota iniziale della cabaqah è la quarta nota del suo primo tetracordo.
In questa molteplicità così intricata Ṣafī ad-Dīn ritiene come usuali 18 modi, i quali portano nomi arabi o persiani; sono rappresentati qui partendo dalla stessa base e con indicazione in note nere per i suoni che non hanno equivalente esatto nella notazione europea.
Senza dubbio alcune melodie scritte ed autentiche di quelle epoche servirebbero meglio all'orientamento che non le scale più o meno teoriche. Bisogna rinunciarvi. I musicisti musulmani non hanno, all'infuori di alcune designazioni alfabetiche, e anche queste variabili, adottato nessuna notazione grafica. Perciò la storia della loro arte si riduce ad un insieme di teorie e di regole che bastano a sé stesse, indipendentemente dalle opere dalle quali emanavano. Certo è che, per un'epoca limitata fra il sec. VII e il IX dell'ègira (XIII-XV d. C.), si verifica l'uso della scala diatonica di 17 gradi per l'ottava con una seconda ottava eguale per arrivare al sistema perfetto. Questa teoria era fissata fino da Ṣafī ad-Dīn; essa è riassunta nella serie seguente data da ‛Abd al-Qādir ibn Ghaibī (v. in principio), alla quale, nella figura schematica della pagina seguente, aggiungiamo la sua rappresentazione possibile nella nostra notazione, con indicazione dei nomi che i suoni portavano generalmente e dei rapporti di lunghezza delle corde.
Il ritmo. - La musica araba, essendo rimasta a una sola dimensione, attribuisce un'importanza considerevole al ritmo; non solo perché "assicura la coesione di ciò che si svolge e che senza il ritmo si perderebbe nel tempo", ma anche perché è un ornamento della melodia. I teorici dànno, a questo proposito, numerose spiegazioni e regole abbondanti, e definiscono questo elemento della loro arte: "la combinazione di accenti forti o deboli, eguali od ineguali, continui o separati, che si succedono seguendo la melodia a periodi identici e le dànno l'appoggio di un accompagnamento autonomo".
L'unità di misura è il "tempo primo" (az-zamān al-awwal), cioè il tempo più breve che possa esistere fra due suoni emessi in modo che fra questi due suoni non se ne possa intercalare un terzo. Questo tempo primo ha dei multipli. Nella sua prima forma è rappresentato dalle sillabe della successione Tana Tana, nella quale le due sillabe aperte sono accentate; questo è il "ritmo pesante" (sabab thaqīl). Il tempo doppio è rappresentato dai Tan Tan, sillabe chiuse, pronunciate le une dopo le altre, e composte da una sillaba accentata ed una muta: questo è il "leggero" (sabab khafīf). Il tempo triplo è rappresentato dai Tanan Tanan, sillabe aperte e sillabe chiuse, due sillabe accentate ed una sillaba muta; questo è il watad maǵmū‛. Il tempo quadruplo è rappresentato dai Tananan Tananan, tre sillabe accentate ed una muta: questo è la faṣīlah qaṣīrah. Il tempo quintuplo è rappresentato dai Tanananan Tanananan, quattro sillabe accentate e una muta: è la faṣīlah kabīrah.
Vi sono i ritmi "uniti" (al-īqā‛ al-muwaṣṣal), i cui accenti sono divisi da tempi eguali fra loro, e i ritmi "disgiunti" (al-īqā al-munfaṣil), i cui accenti formano aggregazioni separate tra loro da una pausa che porta il nome di "separante" (faṣīl): questa separante deve essere più lunga del tempo più lungo del periodo. Come avviene pure per gli intervalli e i modi, i teorici parlano di ritmi antichi inopposizione a quelli usati ai loro tempi; ma pare che le combinazioni abbiano avuto una certa durata e la moltitudine dei ritmi sopravvissuti dimostra una ricchezza innegabile. Queste combinazioni si riferiscono, per un dato ritmo, alla durata dei tempi battuti e all'interposizione delle separanti.
Sicché il ritmo unito chiamato hazaǵ:
si trasforma con le separanti in:
Le combinazioni possono moltiplicarsi, perché ai ritmi classici si aggiungevano degli "abbellimenti", sia con combinazioni nuove di accenti, sia con aggiunte di nuovi accenti, sia aumentando o diminuendo la durata delle pause. Così diventa anche più difficile di raccapezzarvisi, quando gli autori arabi dimostrano di non essere d'accordo fra di loro, e alle volte neppure con sé stessi, sulla composizione dei ritmi più usuali. Soltanto nel confrontare diversi autori si può capire il meccanismo degli accenti battuti a determinate distanze fra loro e la cui successione identica costituisce il sostegno della melodia. Così al-Lādhiqī ci fornisce alcuni elementi cui possiamo dare la seguente figurazione.
Il grande hazaǵ ha dieci tempi primi, ma non si batte che 1, 4, 6, 9. Si scriverebbe oggi:
Il piccolo hazaǵ ha sei tempi primi: peraltro si batte solamente 1 e 5.
Il ramal leggiero ha dieci tempi primi: si batte 1, 3, 6, 8.
Il ramal pesante ha ventiquattro tempi primi: si batte 1, 5, 9, 11, 13, 15, 17, 19, 21.
Questi esempî dimostrano già che la sensibilità ritmica dei musicisti arabi era singolarmente acuta; questa sensibilità è anche più sorprendente quando si osserva, qui sopra, che del ramal pesante il ḍarb al-aṣl "il fondamento" o il "modo di essere" è formato dal primo tempo che è battuto e dall'ottavo che è muto, con delle varianti che battono il primo e il quinto. Queste finezze possono ritenersi caratteristiche della musica musulmana di tutti i tempi.
Ogni ritmo è destinato a un genere di poesia o di argomenti, come pure a qualche ora del giorno o della notte, ciò che, aggiunto ad alcune considerazioni sull'effetto morale e fisiologico dei ritmi e dei modi, porterebbe a pensare che i teorici arabi avessero penetrato i delicati problemi dell'ethos. Non ci possiamo peraltro fermare a questa congettura perché, intenti unicamente a seguire i Greci in tutte le loro teorie, essi si lasciano andare a speculazioni fantastiche che, attraverso i diversi trattati, non hanno alcuna direzione fissa.
Gli strumenti. - Al-Fārābī ne parla così:
"Gli strumenti sono di due specie; gli uni di melodia perfetta e simile a quella che sentiamo nella voce umana; gli altri di melodia imperfetta e così informe che potrebbe chiamarsi burlesca. Le loro forme sono varie e differenti in tutte le specie: gli uni sono come le cetre, altri come le trombe: molti ne abbiamo nelle categorie dei flauti e degli istrumenti a corda, che si distinguono per i loro suoni e per la classe dei versi cantati che accompagnano e per l'uso al quale sono destinati. Vi sono istrumenti per la guerra e per animare il combattimento: hanno dei suoni acuti e squillanti; ve ne sono per i conviti e per le danze, per le liete riunioni e per le feste nuziali. Ve ne sono per i canti d' amore. Vi sono anche alcuni strumenti che emettono suoni tristi e gravi, e infine ve ne sono altri di così diversi generi di suoni che sarebbe difficile enumerarli uno per uno".
Gli autori musulmani che scrivevano in Ispagna, dove la cultura musicale era molto sviluppata grazie alle scuole di Cordova e di Siviglia, hanno discusso a lungo a proposito degl'istrumenti permessi e proibiti; le loro controversie li hanno trascinati a compilare liste che basterebbero per una raccolta copiosissima. Astrazione fatta del loro consueto desiderio di ostentare una grande erudizione e di sfoggiare molti nomi a doppio uso o applicabili a strumenti per noi sconosciuti, si può concludere che gli antichi Arabi adoperarono nei diversi paesi che occupavano:
1. Una classe di strumenti a corda, fra i quali il liuto (al-‛ūd), lo strumento classico per eccellenza dei buoni musicisti e della nobiltà, in principio a quattro, poi a cinque corde, suonato col plettro o con le dita, accordato per quarte giuste e che permetteva, con cinque note, una estensione dal do3 al re bemolle; i ṭunbūr di Baghdād o del Khorāsān, formati da una cassa di risonanza tonda, quadra od ovale, montati su di un piede e muniti di un lungo manico con due corde, la cui lunghezza era divisa da legature fisse o variabili che venivano pizzicate; il rabāb, piccolo violino montato su di un piede, a corde strofinate, con una corda o due e differenti accordature secondo le epoche ed i paesi: do-fa diesis oppure do-mi bemolle oppure do-mi diatonico; il qītār o qītārah, a quattro o cinque corde doppie, assai simile al liuto.
2. Una classe d'istrumenti a fiato, fra i quali: i flauti (mizmār) semplici a nove fori, o doppî a cinque fori, e accordati sui suoni del liuto; il būq (d'onde lo spagnuolo albogue), specie di piffero acuto che gli Arabi della Spagna avrebbero avuto dai Cristiani e che si adoperava negli eserciti; il zamr (in altri luoghi surnā, surnāy), altra specie di piffero ad ancie doppie, che dava suoni assai penetranti.
3. Una classe di strumenti a percussione, fra i quali: il daff o ṭār, tondo o quadro, analogo al nostro tamburello basco; il ṭabl, cassa cilindrica munita di due pelli, talvolta con due corde tese sulla pelle inferiore, che veniva percossa con una o due bacchette; i shawāshil, che sembra fossero un paio di crotali di rame i quali davano deboli suoni metallici.
I caratteri di teoria e di pratica musicale sinora osservati si ritrovano presso tutti i popoli che professarono l'islamismo, dalla formazione della nazione araba e dalla nascita dell'Islām fino al principio della decadenza che ricondusse gli Arabi di Spagna nel Maghreb, dove si spense a poco a poco lo splendore della loro civiltà. Se teorie e pratiche hanno resistito all'opera dei secoli, se esse si ritrovano press'a poco intatte presso i musulmani moderni, è la forza irreducibile della tradizione che ha fatto questo miracolo; è la fedeltà immutabile alla tradizione considerata come una fede, che ha creato l'immobilismo della musica orientale, che pure fu testimone delle formidabili rivoluzioni subite dalla musica occidentale dal Medioevo fino ai nostri giorni e che le conobbe ma non le ammise.
I tempi moderni. - Lo stato attuale della musica araba è caratterizzato da leggi e da usi che sono press'a poco comuni a tutti i popoli musulmani, in Europa, in Asia e in Africa. Leggi ed usi dei quali si trova l'esposizione nelle opere dei siriani Michele Mishāqah (cristiano) e Aḥmed as-Safargialānī, degli egiziani Moḥammed ibn Isma‛īl ‛Omar Shihāb ad-Dīn, Aḥmed Kāmil al-Khula‛ī e Darwīsh Moḥammed, dell'algerino Abū ‛Alī al-Aghwāṭī e del turco Ra'ūf Yekta Bey (v. Bibl.).
Le note. - Vi sono sette note, sette suoni fondamentali (aṣwāt), che prendono il nome maqāmāt quando non sono accompagnate da parole. I loro nomi primitivi sono persiani: yakkāh, dūkāh, sīkāh, ciahārkāh, panǵkāh, shashkāh, haftakāh (sono i sette primi nomi persiani di numeri seguiti dalla desinenza kāh, pronunciata gāh). Gli Arabi cambiano panǵkāh in nawà, shashkāh in husainī e ḥaftkāh in ‛irāq o awǵ. Il yakkāh è spesso sostituito da rāst (in persiano "normale" o "dritto"). L'ottava nota si chiama kurdān, la nona muḥayyar; la decima, che è l'ottava di sīkāh, è detta giawāb sīkāh. Un'ottava è un dīwān.
Gl'intervalli. - Fra due note principali sta una bardah riempita da tre note intercalate: ‛arabah se sono alla metà dell'intervallo nīm ‛arabah o tīk ‛arabah se sono al terzo o al quarto. Siccome la tastiera d'uso ha spesso tre ottave, vi sono nuovi nomi: l'ottava di rāst è la kurdān, quella di dūkāh è muḥayyar, quella di sīkāh è buzurk, quella di ciahārkāh è māhūrān e quella di nawà è ramai tūtī.
La gamma. - Ha 25 gradi e 24 intervalli. Ecco la gamma di Michele Mishāqah, con i nomi delle note e la costruzione matematica ottenuta col postulato della divisione della corda yakkāh in 3456 sezioni, delle quali la metà dà nawà; gli stessi intervalli sono stati ottenuti aggiungendo successivamente 49, 51, 53, 55 fino a 95
Questa gamma, considerata come teorica, è accettata al Cairo, a Damasco, ad Aleppo, a Beirut, ma con qualche variazione di valori, che mette in evidenza una volta di più la difficoltà che hanno i teorici per intendersi, poiché una codificazione formale non è avvenuta e ciascuno è libero di immaginare e di innovare. Questa gamma si avvicina alla gamma antica del liuto, alla quale sono stati aggiunti alcuni piccoli intervalli.
In Turchia la teoria ammette per gl'intervalli due specie di rapporti: i rapporti approssimativi ed i rapporti esatti. Sicché la gamma tipica dà le seguenti cifre:
Nei tomi maggiori 8/9 s'intercalano tre note accidentali, due nei toni minori 9/10, e così pure due nei semitoni maggiori 15/16, in modo che, per scrivere questa gamma nella nostra notazione moderna, bisognerebbe disporre di quattro segni di alterazioni superiori, alzando il suono di un comma pitagorico 524.2881/531.441, d'un limma 243/256, d'un'apotome 2048/2187 e d'un tono minore 59.049/65.536. Bisognerebbe anche disporre di quattro segni di alterazioni inferiori, abbassando il tono di un comma pitagorico, di un intervallo il cui rapporto è 24/25, d'un limma e d'un'apotome.
Si capisce l'impossibilità assoluta di eseguire questa gamma sugli strumenti a temperamento e, possiamo aggiungere, l'impossibilità per gli orecchi occidentali di distinguerla bene e di armonizzarla all'europea.
Né per le gamme antiche, ricchissime di piccoli intervalli, né per quelle moderne, bisogna impressionarsi di fronte ai calcoli teorici e alle divisioni infinitesimali del tono e del semitono. La pratica riconduce gli esecutori, e perfino i cantori, malgrado la docilità dei loro organi vocali e l'acuta sensibilità dei loro orecchi, a sistemi più semplici, che del resto non mancano di originalità né di varietà.
I modi. - Le nozioni del genere che organizza la quarta e la quinta, così care agli antichi, non sono totalmente sparite. Ra'ūf Yekta Bey le ha riprese per la musica turca moderna; riportandosi agli autori citati più sopra e alle loro referenze elleniche. I musicisti musulmani dei diversi paesi che abbiamo potuto consultare, e dei quali alcuni ignoravano perfino i nomi di al-Fārābī e di Ṣafī ad-Dīn, non erano bene informati sulla questione, e la loro pratica della musica vocale e strumentale si basava piuttosto sull'uso empirico delle scale tradizionali che non su Aristotele, Pitagora, Aristosseno ed altri. Soltanto negli usi costanti di ogni paese e nella coordinazione di questi usi bisogna andare a cercare i modi attuali della musica musulmana; tenendo conto del fatto che la nozione del modo è ignorata da molti esecutori, i quali, alla richiesta di un tale sullam o scala, suonano un frammento di melodia.
I Turchi, presso i quali esiste una codificazione abbastanza rigorosa, fissano una trentina di modi, ma aggiungono che ne conoscono novanta, caratterizzati da leggerissime differenze, difficili ad essere percepite dagli occidentali. Il rāst è il nostro sol maggiore con sol tonica e re dominante; il ḥusainī è il minore antico con la sesta ora maggiore, ora minore, e la sensibile nettamente espressa.
L'ewīǵ è col mi sensibile e col fa, di un limma più alto dei fa naturale e facente funzione di tonica:
Il ṣabā è col mi, il si e il la superiore abbassati di un comma, il si superiore elevato di un comma, do dominante e la tonica:
Il nihāwend è dove il si e il mi sono abbassati di un'apotome, il fa alzato di un limma, il sol è tonica, il re dominante.
Il besteh-nighiār è dove il mi e il fa ♯ sono alzati di un limma, il si e il do sono separati da un'apotone, il re è abbassato di un comma. La tonica è fa, la dominante do.
Il shād-arabān è dove il do e il fa sono alzati di un limma, il si, terza linea, è abbassato di un intervallo di 24/25, il si al di sopra del rigo è abbassato di un limma.
In Egitto e in Siria si sono potuti verificare 94 modi, dei quali 4 costruiti sulla tonica yakkāh, 3 su ‛oshairān, 8 su ‛irāq, 9 su rāst, 40 su dūkāh, 12 su sīkāh, 3 su ciahārkāh, 5 su nawà, 1 su ḥusainī, 6 su awǵ, 3 su māhūr. È difficile specificarli, essendo gli stessi nomi comuni a parecchi modi. È altrettanto difficile rappresentarli, a causa dei suoni che sarebbero apprezzabili soltanto col sonimetro e che non hanno equivalenti esatti nella nostra notazione.
Ecco alcuni dei modi più usuali, trascritti usando note nere per i suoni che sono o più alti o più bassi di quelli della scala europea notata.
Presso i cantori e gli strumentisti arabi si trova una raccolta meno copiosa di modi.
I 16 modi che seguono sono realmente usati tanto dal popolo, quanto dagli artisti di professione, e con nomi diversi secondo i varî paesi.
Corrispondono abbastanza esattamente a scale percepibili dal nostro orecchio.
Nel Maghreb gli schemi dei modi sono abbastanza stabili come tipi; subiscono leggiere modificazioni da una regione all'altra. Il Marocco, l'Algeria, la Tunisia hanno una pratica musicale abbastanza simile; i centri musicali come Fez, Rabat, Tlemcen, Algeri, Tunisi continuano le tradizioni antiche apportandovi varianti diverse da luogo a luogo e purtroppo, da qualche tempo, deformazioni nelle scale modali; deformazioni che risultano dall'uso degli strumenti europei e dalle deficienze inevitabili nella trasmissione puramente orale delle melodie. Il ricordo dei musicisti di Granata, Cordova e Damasco non è ancora sparito: lo si ritrova perfino in Egitto. Certe forme di composizione come la nūbah, che abbiamo paragonata per parecchi caratteri alla suite dei clavicembalisti tedeschi, inglesi, francesi ed italiani (v. Bibl.) e che sono adoperate in tutti i paesi musulmani, collegano strettamente la musica araba moderna con quella delle epoche lontane.
I ritmi. - La permanenza dello stesso legame si manifesta nei ritmi, nella loro organizzazione e nell'importanza loro accordata. Ibrāhīm al-Mawşilī diceva: "Uno che sbagli può essere dei nostri uno che aggiunga qualche cosa a una melodia o ne tolga qualche cosa può essere dei nostri. Ma chi si scosti dal ritmo senza rendersene conto non può essere dei nostri".
Le basi (uṣūl) di ogni ritmo sono determinate dall'alternarsi del tempo sordo dum o tum e del tempo chiaro tak o tek, eseguiti con due bacchettine su due piccoli tamburi di forma semisferica, legati insieme da una corda e chiamati noqairah (al plurale noqairāt). Il tamburo dei tum a sinistra è leggermente bagnato; quello dei tek a destra è riscaldato su un braciere affinché i suoni siano ben netti. Difettando i noqairah, il ritmo è battuto su un tamburino quadro (daff o duff), il dum sulla pelle, il tek su un cerchio di legno guarnito talvolta di piatti di rame; oppure battendo il tek sul ginocchio con la mano aperta e il dum con la mano chiusa. Oltre le battute principali vi sono i semi-dum o dim, i semi-tek o tik, la qoflah, formata di un tum e di due dim, il silenzio mazn e il trillo naqr sarī‛.
I musicisti arabi contano fino a 92 ritmi differenti. Ancora una volta si manifesta qui l'esagerazione orientale e l'impossibilità per i teorici stessi d'intendersi sui nomi e sulle identificazioni. Cionondimeno, vi è nei paesi arabi e turchi un certo numero di ritmi usuali e abbastanza bene stabiliti, che forniscono curiose rivelazioni sulla diversità e sottigliezza di una parte così importante della musica musulmana. Una cinquantina di codesti ritmi hanno nomi varianti secondo i paesi, ma conservano una forma definita, che permette di riconoscerli. Indipendentemente dai ritmi popolari si possono citare alcuni ritmi tipici interessanti per la loro varietà da paese a paese e per la loro struttura.
Uno dei caratteri più singolari della ritmica musulmana è la pratica di ritmi componenti periodi molto lunghi scanditi da colpi sordi o chiari di apparenza dispersiva, ma nella quale i suonatori di strumenti a percussione si ritrovano con un'incredibile precisione. Così vi sono i ritmi che potremmo designare con 19/4, 64/4, 31/4, 44/4, 12/1, 16/2, 26/8, 32/4, 48/4, 64/2, 88/4 e che servono da sostegni ritmici alla melodia senza che gli esecutori si trovino mai ad esitare.
Gli strumenti. - 1. Strumenti a corde pizzicate. Il liuto (al-‛ūd) ha goduto e gode il maggior favore presso gli antichi e i moderni. Esso ha cinque o sei corde doppie, che vengono pizzicate con una penna flessibile, possibilmente di aquila. La lunghezza dal basso al capo-tasto è da 75 a 80 cm.; la larghezza è di 35 a 40 cm. I piroli sono inserti nella parte esterna del manico, che è piegata a gomito. Secondo i paesi, l'accordo è: sol1 la1 re2 sol2 do3, o re2 mi2 la2 re3 sol3, o, quando vi sono sei corde: re2 mi2 la2 re sol3 do4. In Turchia, dove l'invenzione del liuto è attribuita a Pitagora o a Platone, esso ha, per sei corde (delle quali la più grave è semplice e le altre doppie), l'accordo: la1 re2 mi2 la2 re9 sol3.
Nei paesi del Maghreb il liuto ha lasciato il posto alla kwītrah, di forma abbastanza simile a quella del liuto, ma con quattro corde sole, così accordate: sol1 mi2 la2 re2. La quarta corda si chiama al-giāwub "quella che risuona". Si usa raramente. Una variante di questo istrumento è la lāwūṭa turca, a quattro corde doppie accordate come quelle del violoncello europeo. In Persia la chitarra detta tār ha la cassa di legno di gelso e cinque corde, due delle quali di fil di ferro e due d'ottone. La cassa è ricoperta con una pelle di feto d'agnello. Questi strumenti, in molte varietà e con nomi differenti, vengono pizzicati col plettro o col dito.
La ṭanbūrah è lo strumento del popolo; è una specie di mandolino che porta i piroli in parte sul manico e in parte sul fianco sinistro. Le due coppie di corde sono di budello o di metallo. Il manico porta 24 legature, e anche sulla tavola ve ne sono due o tre. Vi sono ṭanbūrah a due corde semplici, così accordati: re3 la3 altre a tre coppie di corde accordate re3 la3 si3 oppure re3 mi3 la3. La ṭanbūrah sharqī (cioè ṭanbūrah orientale) ha una lunghezza di 10 cm. La ṭanbūrah buzurk è in gran voga in Siria, Palestina ed Egitto. Le legature non hanno posto fisso.
Dopo il liuto, lo strumento più apprezzato è il qānūn. Questo strumento è fatto di una cassa sonora a forma di trapezio e ricoperta in parte di pelle e in parte di un legno leggiero. Per ciascuna delle 24 note vi sono tre corde, inserte in piroli lignei attaccati su di un pezzo di legno, che è fissato all'esterno. Le 24 note sono dette "suoni intieri". I suoni intermedî si ottengono nel qānūn egiziano per mezzo di tre capotasti mobili per ogni corda; essi possono essere abbassati l'uno dopo l'altro, ciò che dà per la stessa corda un suono a vuoto e tre suoni intermedî. Questa costruzione è resa necessaria dall'uso di alcuni modi, i cui gradi non potrebbero essere ottenuti con i suoni a vuoto. I musicisti del Maghreb che si servono di un qānūn senza capotasti mobili, quando vogliono elevare con qualche alterazione il suono che si avrebbe dalla corda a vuoto, premono fortemente la corda con un dito della mano sinistra per diminuire la lunghezza della parte vibrante. Per non ricorrere a questa manovra incomoda, essi accordano talvolta tutte le corde secondo i gradi del modo da loro scelto. Essendo l'accordo di massima il do, la tastiera del qānūn si estende generalmente dal mi1 al la4 per tre ottave o "case". Lo strumento può essere suonato soltanto da seduti; le corde vengono pizzicate con due stecche di tartaruga o di balena che il musicista fissa al suo indice con un anello di rame.
Il gunbrī (\ARABO\) o ghinībrī (\ARABO\) usato in Africa è una varietà di piccola chitarra a 2 corde, che si può pizzicare con le dita o con un arnese ricavato da una foglia di palma; lo strumento può essere montato su un guscio di testuggine o su metà di una zucca o d'una noce di cocco, oppure sulla metà del gambo d'un grosso bambù ricoperto di pelle di capra. I negri maghrebini e sudanesi tendono le corde, in numero variabile, su una cassa di risonanza di legno ricoperta di pelle di cammello. Questo strumento che è il più popolare e il più semplice, è usato dal Marocco alla Tripolitania nelle campagne, sotto la tenda e fino nel deserto; ma n0n è tenuto in alcun conto presso i musicisti di professione e presso i cittadini.
2. Strumenti a corde battute. In Turchia ed in Persia si trova il sānṭūr, la cui origine pare che rimonti al psanṭērīn degli Ebrei e che si collega al psalterion e al caratteristico cimbalom ungherese.
Le corde, in numero di cinque per ciascuna delle 21 note, vengono battute con due piccoli martelli. Nel sānṭūr alla franca alcune corde sono divise, per mezzo di ponticelli intermedî, in due parti ed altre in tre parti. L'estensione va da do2 a fa4 e comprende una scala cromatica ripartita sulle tre parti risonanti delle corde. Il sānṭūr alla turca ha 32 note, ciascuna delle quali è ottenuta con un gruppo di cinque corde. L'accordo va da re2 a fa4, ma le note sono ricercate secondo la gamma turca, per modo che le quinte giuste mi-si del sānṭūr alla franca, diventano mi-si semi-diesis.
3. Strumenti ad arco. La kamangiah degli antichi, che rimonta al Medioevo, ai trovatori ed ai secoli di splendore dell'Islām, è quasi sparita, fuorché in Persia e in Egitto. Ciò che colpisce nella kamangiah rūmī è la parte dei piroli, veramente enorme; vi fanno capo quattro corde di budello, disposte come nel violino moderno, e quattro corde metalliche, che attraversano il ponticello e passano sotto il tasto per andarsi a fissare all'interno del portapiroli. Si suonava con un arco di legno curvo guarnito di crini. Venne sostituito dal violino europeo, che porta lo stesso nome, si tiene sul ginocchio e si accorda sol2 si2 re3 sol3 oppure la2 re3 sol5 do4 o perfino per quinte come il violino o la viola.
Le donne dei Tuāreg si servono dell'imz′ad, fatto di una zucca tagliata per metà, coperta d'una pelle tesa e munita di uno o due fori. La corda, unica, di crine di cavallo passa su di un ponticello ed è fissata sul manico da un viluppo di corregge di cuoio; l'arco di ferro o di legno duro è munito di un fiocco di crine di cavallo. La nota a vuoto è sempre grave; serve soltanto ad accompagnare il canto.
Il rabāb è uno strumento che ha origini classiche ed illustri ma è ormai molto decaduto. Nei paesi musulmani si usa il rabāb al-mughannī (rabāb del cantore), che ha due corde di crine di cavallo accordate per quarta o per quinta, e il rabāb ash-shā‛r (rabāb del poeta), che ha una corda sola. Questi rabāb si trovano, differenti per forma, presso i Beduini dell'Arabia, nel Sūdān e nelle regioni desertiche dell'Africa. L'arco è più o meno lungo, curvo, e non produce che pochi suoni ad accompagnamento di una salmodia primitiva, che ripete due o tre note all'infinito.
Il rabāb maghrebino diventa ormai sempre più raro. È composto di una cassa di cedro o di noce, in un sol pezzo, di forma ovoidale molto allungata. La parte inferiore della scatola presenta una tacca di circa cm. 10, ricoperta d'una pelle di capra molto tesa, dipinta in verde. Il ponticello, di piccole dimensioni, è fabbricato con la metà di un cilindro di canna; la parte superiore della scatola è ricoperta d'una lastra di rame, molto sottile, con tre o quattro ornamenti formati da piccoli fori disposti a guisa di stelle intrecciate dentro a un cerchio. Il porta-piroli è un pezzo di legno abbastanza grosso, che fa angolo con la cassa di risonanza e reca due piroli. Lo strumento è decorato con piccoli disegni in madreperla o in avorio. L'arco, piccolissimo, è di ferro ed ha fiocco di crine. Vi sono due corde piuttosto grosse e fortemente tese, tali che le dita possano appena premerle sul tasto. I suoni così ottenuti si possono dire molto simili ai suoni armonici dei nostri strumenti ad arco. L'accordo è re2 la2, ma la corda grave si suona poco. Questo singolare strumento sarebbe stato inventato, secondo la leggenda, da un musulmano prigioniero dei cristiani in Andalusia e sarebbe stato introdotto nel Maghreb dai musulmani scacciati dalla Spagna.
4. Strumenti a fiato. Il più conosciuto è il nāy o ney (che in persiano significa "canna"), il semplice flauto di canna noto fin dalle prime epoche dell'umanità; si diffuse poi ovunque, usato dagli umili e dai semplici, che gli affidarono l'espressione dei loro desiderî di consolazione, di preghiera o di divertimento; è tenuto in pregio nei paesi musulmani come simbolo dell'anima che s'innalza verso la divinità. Il nāy consta d'una canna con sei fori nella parte anteriore e con uno nella posteriore. Il bocchino, cui viene applicato un pezzo d' osso o d' avorio, ha la forma di due tronchi di cono saldati alla base. Per suonare lo strumento bisogna applicare la parte superiore di esso un poco al di sopra del labbro inferiore, ottenere un angolo di circa 30° con la verticale, chinare la testa, turando i fori superiori con le dita della mano sinistra e i fori inferiori con quelle della mano destra. Nella costruzione del nāy, condotta secondo metodi alquanto empirici, si seguono le seguenti norme: il foro posteriore si pone a metà della lunghezza totale cioè a metà della distanza tra i due fori anteriori più bassi; la distanza media fra i centri dei fori anteriori è di 1/12 della lunghezza totale. Poiché questa costruzione dà una gamma diatonica fissa, lo stesso nāy non può servire per tutti i modi. Vi sono dunque dei nāy tagliati in tonalità differenti: il nāy in nawà darà la gamma
e, se costruito per l' ‛irāq, darà la gamma
I Turchi hanno sette nāy, di tonalità differenti: il nāy manṣūr ("il vittorioso"); il shāh nāy ("il reale"); il dāwūd nāy ("di Davide"); il bul-āheng nāy ("il molto armonioso"); il qīz nāy (quello "della giovane"); il mustaḥsene nāy ("l'approvato"); il supurdé nāy ("il raccomandato"). I flautisti arabi, che possiedono l'arte di soffiare senza interrompere il suono con forti respirazioni, asseriscono di ottenere con "sei forze di fiato", tre ottave meno un tono. Ottengono nel medesimo foro la quinta e due ottave, e, secondo la posizione delle dita e l'inclinazione della testa, possono far sentire suoni cromatici intercalati tra i fissi. La grandezza dei nāy varia: il normale è di mm. 806. I fabbricanti dividono questa lunghezza in 26 segmenti, con i fori nei punti voluti dalla consuetudine. In Turchia ogni nāy ha il suo niṣf-nāy, la sua metà.
Alla famiglia dei flauti si collegano i qeṣbah o gheṣbah (per qáṣabah) del Maghreb, a cinque, sei o sette fori. Quelli a sette fori (gutwāq o fḥal) sono i più comuni; i più ricercati sono fatti di una tibia d'aquila, perché i loro suoni sono "nobili e meravigliosi". Gli Arabi algerini distinguono ancora varî altri tipi di flauti.
Non si conoscono flauti a zufolo di costruzione araba; quelli che si vedono sono d'importazione europea e tendono a soppiantare lo strumento originale. Lo zamr, che porta anche i nomi di zammūr, mizmār o (in persiano) surnāy e nel Maghreb ghaiṭah, è un piffero la cui doppia ancia, costruita in un pezzo di ciliegio, è lavorata al tornio in forma di cilindro, lungo da cm. 30 a 38, che si allarga a padiglione. Un pezzo tondo di osso permette alle labbra di appoggiarvisi fortemente. Il cilindro ha sette fori nella parte anteriore ed uno nella posteriore, destinato al pollice della mano sinistra, che occupa la parte alta dello strumento. Il posto per i fori è ottenuto, come per il flauto, secondo un sistema empirico, che dà spesso suoni di una precisione alquanto dubbia. Sono in uso zamr di tutte le dimensioni e di tutte le tonalità; strumenti molto striduli, essi sono usati solamente nelle campagne o per le musiche militari. Nel Maghreb è molto in uso nelle feste all'aperto e anche nei balli, nelle regioni confinanti col Sáḥarā, la ghaiṭah (dai Francesi scritta anche r'aita), che si ritrova sotto lo stesso nome in alcune provincie spagnuole. Questa ghaiṭah è una cornamusa con sette fori davanti e uno dietro, con ancia doppia, una rotella in osso che serve d'appoggio per le labbra, una pinza per fissare le ance, un anello di cm. 2 lavorato in un legno più duro di quello dello strumento, che termina in un padiglione di cm. 10 a 15 di diametro con una lunghezza totale di circa cm. 40. In certe ghaiṭah il legno dello strumento è placcato d'argento con ornamenti a rilievo. La ghaitah dei reggimenti di cacciatori ha la seguente estensione:
A Laghouat le ghaiṭahh hanno il più delle volte quest'altra tessitura, dove il mi (prima linea) è ottenuto da una diminuzione di fiato del fa:
quelle dei musicisti algerini dànno la scala:
che permette di suonare in alcune tonalità insieme con le bande dei reggimenti francesi.
In Persia si trova una tromba di vetro (būq), un nefīr (cornetto a bocchino) e la karnā, una tromba di rame della lunghezza di due metri.
Non si trova ormai che raramente, nei paesi musulmani, l'arghūl od arghul, cornamusa ad ance formata di due canne; quella di sinistra provvista di sei fori, quella di destra col suono di un bordone aperto e che si può allungare o raccorciare secondo il bisogno. Sta anche scomparendo la ṣuffārah, cornamusa fatta di pelle di capro, con due tubi di canna a quattro fori accordati all'unisono. Se ne trova qualche esemplare in Persia sotto il nome di nāy anbūn. In Tripolitania si trova ancora la magrūna (cioè maqrūnah "accoppiata"), cornamusa doppia fatta di due canne accoppiate, d'uguale lunghezza e munite di cinque fori. L'esecutore introduce i due tubi in bocca e deve soffiare a pieni polmoni.
5. Strumenti a percussione. La grande importanza che nell'accompagnamento viene data al ritmo, importanza che, presso i popoli rimasti lontani dalla civiltà, arriva fino a ridurre la musica a semplici successioni ritmiche, fa sì che gli strumenti a percussione figurino in qualsiasi esecuzione vocale o strumentale. Essi sono press'a poco gli stessi in tutti i paesi dell'Islām. Le nuqairah o naqqārah sono due piccoli timpani di terra cotta o di legno o di rame, di un diametro da cm. 15 a 20, riuniti da corde, che vengono battuti con due mazzuoli. Il timpano di sinistra, leggermente bagnato, serve per battere i dum, cioè i suoni sordi; quello di destra, riscaldato su un braciere, serve per battere i tak, i suoni chiari.I Turchi chiamano questo istrumento koudoum.
La ṭablah o ṭabl (nella pronunzia algerina ṭböl) o ṭabīlah (che è un diminutivo marocchino) è un tamburo fatto di due pelli di capro montate su un cilindro fatto a strisce di legno, che sono spesso ricoperte di panno. Le pelli sono tese da un congegno di corde e di lacci. Si percuote lo strumento con due bacchette, delle quali l'una è talvolta un vero mazzuolo e l'altra un nudo legno curvo. I dum si ottengono battendo in mezzo alla pelle o in quattro posizioni che vanno dal centro alla periferia e dànno suoni differenti; i tak si ottengono negli orli del cerchio di legno. Il daff (o deff), chiamato ṭār nell'Africa settentrionale, mīzān ("misura") nel Marocco e dā'iré in Persia, è un tamburello che porta sul cerchio di legno alcuni intagli recanti piccoli piatti di rame. Si usa nelle orchestre di strumenti a corda, nei concerti vocali e nelle feste famigliari, dove è suonato tanto da uomini quanto da donne. Esiste nei paesi musulmani un'altra specie di daff, tamburello quadro a due membrane, che non sarebbe altro che il tōph degli Ebrei, affine al tamburello quadro degli Egiziani. Gli Arabi ammettono questa origine ebraica; gl'Israeliti, essi dicono, suonavano il daff ed il mizmār davanti al vitello d'oro (Ibn Iyās, Badā'i ‛az-zuhūr fī waqā'i‛adduhūr). La darabukkah od anche darbūkah (detta dunbak in Persia) è un vaso di terracotta decorato, dal collo largo e più o meno panciuto; il fondo è guarnito di una pelle. Il sonatore o la sonatrice posa l'istrumento, la pelle in avanti, sul ginocchio destro, e batte i dum con le dita della mano destra e i tak più vicino all'orlo, con le dita della mano sinistra. La darabukkah della Palestina è una forma dello stesso strumento, che consta di una mezza sfera ricoperta di pelle e montata su di un piede conico. Lo strumento si tiene davanti al petto e si suona con le due mani per l'alternarsi dei suoni sordi e chiari. Il bandīr o bandair è un cerchio di legno di cm. 17 a 60 di diametro, sul quale è tesa una pelle di capra o di pecora. Sotto la pelle sono poste tre corde di budello di capra. Un ampio foro è aperto nel sostegno, per lasciar passare il pollice sinistro del suonatore. La mano destra ottiene due suoni, secondo che batta nel mezzo o sugli orli della pelle. La mano sinistra batte gli orli della pelle con le dita rimaste libere. Questo strumento è molto usato; serve ad accompagnare il flauto, il piffero, i canti delle confraternite religiose, le danze, ed è altresì lo strumento proprio ai cantastorie e ai domatori di serpenti. Dalle donne è usato un bandīr più piccolo, chiamato shekshak. Il ghellāl (\ARABO\) è un cilindro di terra, lungo cm. 60, il cui diametro misura cm. 15 da un lato e 25 dall'altro. La parte più grossa è ricoperta da una pelle di capra, applicata su due corde di budello. Nel Maghreb si attribuisce allo strumento la virtù di rendere la ragione ad un uomo posseduto da uno spirito. La qeṣ‛ah (pron. gheṣ‛ah) è un timpano usato nei paesi cabili, fatto di un piatto fondo ricoperto d'una pelle di cammello. Si batte con due bacchette di legno di pero; porta anche il nome di kourkotou. Le tchena chek sono dei crotali di ferro battuto che vanno urtati a vicenda con le loro estremità; essi sono usati soprattutto dai negri e fino nel Sūdān. Le qarqabāt o qarāqeb sono castagnette metalliche, lunghe cm. 30, riunite da un gambo rigido; a mezzo di ciascuna si trovano due dischi convessi. Questo strumento viene dal Gūrārah e dal Sūdān e accompagna spesso da solo le danze dei negri. I zīl o znūǵ (al singolare zinǵ) del Maghreb o zinǵ della Persia sono piccoli piatti di rame, che si tengono sulle punte delle dita mediante una correggia; battute l'una contro l'altra, dànno un leggiero suono metallico. In Turchia sono in uso dei piatti di rame di cm. 30 di diametro, detti halilé; in Persia si chiamano zinǵ o zenǵ quando la lastra di rame è arrotondata al centro a guisa di cupola. Assai singolare è poi il qāsheq ("cucchiaio"), strumento d'origine turca che oggi si trova presso i Persiani, fatto di due pezzi di legno concavi sovrapposti, nelle cui cavità sono fissati i sonagli di rame, e che si batte con una hacchetta di legno.
In mancanza di strumenti a percussione il ritmo è battuto con le mani.
Le orchestre. - Secondo che la musica che accompagna i cantori venga eseguita in luoghi pubblici, in campagna aperta, o in casa, per feste religiose o profane, varia la composizione dell'orchestra; ma vi sono sempre uno o parecchi strumenti per la melodia e almeno uno per sostenere il ritmo. L'orchestra tipica delle riunioni musicali un po' distinte e dei buoni dilettanti comprende un liuto o una kwītrah, un qānūn, una kamangiah o violino, un ţār o daff, alle volte una darabukkah e un paio di nuqairāt. L'orchestra che accompagna un solo cantore è più ridotta; suona all'unisono o all'ottava della voce, e semplifica la melodia facendone sentire solamente le note essenziali, senza l'ornamentazione di cui la melodia presso gli Arabi è sì doviziosa. I zamr e le ghaiṭah si accompagnano col ṭabl o col bandīr. Le donne che cantano si accompagnano colla darabukkah o col ṭār. Quanto alle bande militari, esse usano strumenti occidentali con l'aggiunta di ghaiṭah, di ṭabl e di nuqairāt.
Il canto. - La musica araba, nata dal canto dei cammellieri beduini, ha sempre tenuto in gran conto l'arte del canto. Nei racconti storici un posto molto largo è dato ai cantanti di ambo i sessi, che ebbero grande popolarità grazie alla protezione generosissima dei califfi. Nei tempi moderni si può dire che tutto il popolo musulmano nell'Africa settentrionale canti. In istrada si odono canzonette a ritornello, spesso su argomenti d'attualità, brevissime, di tessitura limitatissima, ripetute all'infinito come formule di una litania. Nei concerti delle feste familiari il cantore ha un posto d'onore, egli possiede un repertorio considerevole (Moḥammed ibn ‛Alī Sfingiah d'Algeri conosceva parole e musica di pressoché 1500 arie), e alle volte un'estensione di voce che oltrepassa due ottave. Nelle campagne e presso i musicisti rimasti fedeli alle tradizioni classiche il canto è grave e severo, e si svolge attraverso intervalli melodici non molto ampî, su una linea melodica di breve respiro. Nelle città la mania dell'ostentazione e delle fioriture si è impadronita dei cantori, che sono prodighi di trilli, di brevi accenti gutturali, di passi di velocità, di vocalizzi, di melismi e di epiftegmi, al punto da rendere irriconoscibile la melodia primitiva. Tutta la musica vocale, come anche quella istrumentale, in mancanza di notazione è trasmessa per audizione; cosicché molte arie cominciano presto ad essere alterate e vanno rapidamente perdute. Quanto alle trascrizioni in notazione moderna, esse sono, per la maggior parte, scorrette, per la mancanza di una grafia abbastanza ricca per corrispondere a ciascuna delle note della scala sonora, e anche per l'errore di voler dare un'armonizzazione a melodie le quali, come appunto furono concepite, sono perfette e assolute nella loro semplice linearità.
La musica e la teologia musulmana. - L'atteggiamento prevalente nei teologi e nei giuristi musulmani mostra una netta opposizione alla musica; quindi musica e canto non hanno alcuna parte nella liturgia dell'islamismo, e gli strumenti musicali in tutti i libri di diritto sono classificati fra le cose di cui è illecita la vendita, tranne quelli d'uso militare. La diffusione del ṣūfismo (ascetico-mistico) e delle riunioni dei suoi seguaci trasse un certo numero di teologi ad ammettere come leciti la musica ed il canto su strumenti allo scopo di eccitare il trasporto religioso nelle adunanze dei ṣūfī; ma altri non hanno accettato siffatta transazione, sicché ancor oggi parecchie confraternite pur fondate sul ṣūfismo (fra le quali quella dei Senussi) e tutti i rigoristi (p. es. i Wahhābiti) escludono assolutamente la musica e il canto. Il 19 giugno 1926, il suono delle trombe militari egiziane, usate per trasmettere ordini ai soldati durante le cerimonie del pellegrinaggio presso la Mecca, provocò sanguinosi tumulti, avendo molti Wahhābiti scorto in questo fatto la violazione di un precetto religioso.
Per i musulmani di tutti i paesi la musica è "la benedizione che armonizza i due mondi e porta in sé l'eterna pace" (detto dei Ṣūfī). "È l'aiuto divino che innalza l'anima sulla sua ala invisibile e la trasporta nell'invisibile" (lo stesso). Essa ha cinque aspetti: 1. Ṭarab, che provoca il movimento del corpo; 2. Ragiā', che fa appello all'intelligenza; 3. Qawl, che sveglia il sentimento; 4. Nida, che accompagna le visioni superiori; 5. Ṣawt, che raggiunge l'astratto (messaggio sūfī di Ināyat Khān). Come per molti musulmani le lettere e le parole hanno un potere magico, così anche i musicisti riferiscono ciascuna delle corde del liuto a ciascuno dei quattro elementi e dei quattro umori del corpo; quando il grande artista spagnuolo Ziryāb aggiunse una quinta corda, la chiamò Nafs, perché i quattro umori non potevano esistere senza "anima". I musulmani ammettono il potere della musica sugli animali, i vegetali e gli esseri animati; fissano le ore del giorno e della notte, nelle quali quelle tali melodie, quei tali o tal'altri modi debbono essere eseguiti, e Darwish Moḥammed (v. Bibl.) dà perfino un quadro che il musicista deve consultare per conoscere le melodie da scegliere secondo il pianeta che sia nel firmamento e secondo l'importanza degli uditori.
Caratteri generali. - Non esiste musica propriamente tipica degli Arabi; mentre vi è la musica musulmana, la quale esprime esattamente e totalmente l'anima musulmana, così nel passato come nel presente.
L'arte di cui fin'ora qui si è discorso non è propria di quel popolo che, sconosciuto fino a quel momento, partì un giorno dal deserto arabico, abbatté il trono di Cosroe, sconfisse le legioni del Basso Impero, si riversò sull'Africa, raggiunse la Spagna e stabilì per varî secoli l'islamismo vittorioso dalle rive dell'Ebro alle Indie. È un'arte islamica, che può avere aspetti differenti in differenti paesi, ma che possiede caratteri fondamentali abbastanza comuni e abbastanza determinati nella loro esplicazione per creare una fisionomia ben riconoscibile e per ricondurre ad una specie d'unità quella pluralità apparente; fenomeno, questo, da riaccostare a quello dell'unità religiosa e filosofica che si ritrova presso gli Arabi, i Turchi, gli Egiziani, i Persiani e i musulmani della Russia, delle Indie e della Cina (v. islām).
Uno dei caratteri è l'omofonia. Se tale carattere ha resistito ai contatti e alle reazioni dell'arte occidentale e all'opera dei secoli è evidente che corrisponde a un principio essenziale dell'Islām: l'unità cara ai monoteisti. La polifonia è considerata come un disordine e non si ammette che la concomitanza di due suoni identici. Ma, come l'arte decorativa musulmana parte da linee semplici e da figure geometriche per giungere ad una prodigalità singolare di ornamenti e di motivi accessorî, anche la musica musulmana, fin dai secoli aurei di quella civiltà, si compiace dell'arabesco e di tutte le fioriture che nascondono la semplice linearità della musica sotto la profusione di abbellimenti fantasiosi. Come la scrittura delle epigrafi arabe, così anche la musica musulmana ha "l'orrore del vuoto", e moltiplica le note di passaggio, i tratti rapidi, i trilli, i portamenti di voce, per dar vita alle note lunghe o per celare l'apparente povertà delle linee semplici e severe.
Un'altra espressione della musicalità musulmana è la passione per le litanie. Nelle epoche primitive, come anche ai nostri tempi, la musica musulmana si esprime con frasi brevi in un giro poco sviluppato, ripetute durante ore intiere, e che si svolgono spesso senza conclusione, quasi nell'impossibilità di raggiungere l'infinito del divino. Tale ripetizione incessante dello stesso motivo riconduce lo spirito e il cuore ad un punto identico a quello di partenza, immagine della fatale evoluzione delle cose e degli esseri, sempre riportati alla volontà di Allāh. Per essa, l'anima musulmana, che riconduce ogni ciclo al suo punto di partenza, trova la via del malinconico svago o dell'estasi nel ripiegamento su sé stessa e nella sottomissione cieca a ciò che sta scritto nella "Tavola Custodita" in cielo.
Un altro carattere della musica musulmana è l'uso frequentissimo d' intervalli minuscoli, che rammentano i procedimenti dei miniaturisti e dei decoratori e risalgono alle epoche di raffinata civiltà dei grandi califfi; essi dimostrano una sensibilità uditiva peculiare dei popoli orientali.
E finalmente un carattere proprio della musica musulmana si può additare in quella sua ricchezza di modi e di ritmi che è stata esposta più sopra.
Tranne qualche saggio spagnuolo redatto verso il sec. III dell'ègira (IX d. C.), saggi che del resto non hanno lasciato alcuna traccia, non si conosce notazione musicale di essa musica.
La musica musulmana è un'arte immobile. Sulle basi poste in antico dai pastori, dai carovanieri e dai nomadi, le conquiste e la civiltà hanno impresso tracce straniere. Ma, dopo avere chiesto molto ai Greci e ai Persiani, quest'arte si è ripiegata su sé stessa e non s'è più volta alla musica occidentale, presso la quale ha vissuto almeno fino al sec. XV in Ispagna, e della quale ha ignorato i caratteri e l'evoluzione. Tale immobilità non nasce da insufficiente facoltà di adattamento; è invece un fatto psicologico che si manifesta anche in altri lati della cultura musulmana.
Se la forza davvero sorprendente di una tradizione che lega il passato al presente soltanto per mezzo di trasmissioni orali o uditive ha fatto sì che la musica musulmana sia rimasta uguale a sé stessa nelle sue teorie e nelle sue manifestazioni, se essa è più propensa ai pensieri mistici e amorosi che non ai soggetti tragici ed eroici, ne troviamo la ragione nella sua stessa natura. Essa è rimasta prettamente musulmana: sufficiente a nutrire la malinconia e ad alimentare le fantasticherie di popoli che sentono pesare su di loro un eterno ricominciamento e che subiscono la forza invincibile delle cose e delle leggi dell'eterno destino perché sono nelle mani di Allāh".
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