ARABI (III, p. 820; App. II, 1, p. 225; III, 1, p. 117)
Storia. - Il periodo 1960-75 ha visto accedere all'indipendenza due nuovi stati arabi: la Repubblica Democratica e Popolare d'Algeria (dal 1964), e la Repubblica Popolare e Democratica dello Yemen (dal 1967), o Yemen meridionale, comprendente l'antico protettorato britannico di Aden, il Hadramawt e altri territori della precedente federazione araba meridionale. Così, all'infuori dell'aperto problema palestinese, tutti i popoli arabi sono ora raggruppati in stati indipendenti e sovrani. Ma profondi motivi di squilibrio e dissidio sussistono fra questi stati, in cui la stirpe, la lingua e la fede comune (salve le minoranze cristiane di Libano ed Egitto) non bastano a colmare le grandi differenze economiche e politiche che li dividono. La favolosa ricchezza del petrolio, assurta ad arma di patteggiamento e ricatto mondiale, crea subito una prima divisione tra i paesi arabi che la posseggono (‛Irāq, Arabia saudiana e stati minori del Golfo Persico, Libia, Algeria) e quelli che ne son privi: una differenza tra 'ricchi' e 'poveri' nel campo internazionale, che isolati gesti di sussidio e solidarietà dei primi verso i secondi non bastano certo a cancellare. Anche il tipo di regime interno in questa costellazione di stati, a parole tutti democratici e progressisti, ma assai meno, per alcuni, nei fatti, contrappone il maggior gruppo di quelli sorti da rivoluzioni politico-sociali e reggentisi praticamente con metodi totalitari alle superstiti monarchie paternalistiche (Arabia Saudita, Giordania, Marocco), e a quel paio di stati come il Libano (fino al 1975) e la Tunisia, ove sussiste tuttora qualche parvenza di democrazia, o qualche disposizione alla moderazione e al compromesso in campo internazionale.
Il coro a più voci dei popoli e stati arabi, oggi tutti presenti nelle istituzioni e assise mondiali come l'ONU e l'UNESCO, è dunque tutt'altro che concorde, fuorché nell'affermazione di un intransigente nazionalismo, e nell'opposizione al reale o supposto "neo-colonialismo" occidentale. La Lega araba, nata come il massimo organo di collegamento e coordinamento, e quasi fase preparatoria di più strette unioni e fusioni tra le genti arabe, ha continuato a funzionare in sordina, sostituita di fatto da vertici fra i leaders e i capi di stato, che hanno trattato e non sempre risolto i problemi d'interesse comune, cercando una comune linea d'azione verso l'Europa e l'America.
Nella politica interna, la vita di tutti questi stati è stata agitata e insicura. In taluni (Libia), più o meno incruenti colpi di stato hanno rovesciato il regime monarchico, instaurando una repubblica, cioè il governo personale di un capo e della sua cerchia. In altri ('Irāq, Siria, Algeria), già nati o pervenuti più o meno pacificamente alla forma repubblicana, la direzione dello stato è passata di mano in mano, sempre con colpi di forza militare, che sembra essere l'unica molla dell'evoluzione politica e civile nel Vicino Oriente. Il regime pluripartitico è quasi ovunque abbandonato, per il partito unico (in 'Irāq e Siria il social-nazionalista Ba'th, in Egitto la ("Unione socialista araba") e soprattutto per il carismatico 'capo' unico (in Egitto dal 1970 il successore di Nasser, Sadàt; in Algeria, dopo la defenestrazione nel 1965 del primo leader Ben Bella, l'altro capo della resistenza e lotta di liberazione Bu Medien; in Libia il giovane e dinamico colonnello Gheddafi, e così via). Agli umori e alle ambizioni di questi capi si devono i tentativi più volte abbozzati e falliti di più ampi raggruppamenti interstatali, di fusioni e unioni (Egitto con Siria sotto Nasser, Egitto e Libia sotto Sadàt e Gheddafi, Libia e Tunisia con Gheddafi e Burghiba). Ma alle ambizioni dei singoli, e alla spinta dell'ideologia panaraba, fanno resistenza opposte ambizioni e divergenti interessi settoriali, tendenti a mantenere lo status quo nelle storiche suddivisioni esistenti.
Anche il problema numero uno dell'arabismo contemporaneo, i suoi rapporti con l'intrusa e avversa Israele, ha bensì fruttato agli A. cocenti umiliazioni e rovesci sul piano militare (guerra dei sei giorni nel 1967), solo di recente (1973) compensati da alcuni aspetti favorevoli della guerra del Kippur, che ha permesso all'Egitto un parziale recupero del Sinai: ma, nonostante ogni sforzo d'intesa politico-militare, non si è ancora giunti a una coordinazione e cooperazione piena di tutti gli stati arabi verso il comune nemico, il cui diritto all'esistenza è comunque, per i più, ormai scontato. La stessa grave e pericolosa arma economica del petrolio, che ha pur dato finora agli A. frutti innegabili sul piano politico, ha rivelato tra essi disparità d'interessi e di vedute, che ne attenuano la portata. Un solo risultato politico di alta importanza è ormai qui acquisito, l'esistenza del problema palestinese, il diritto della popolazione araba di Palestina e Giordania a una libera patria (diritto che contrasta sia con l'imperialismo israeliano, sia con l'esistenza stessa della Giordania hashimita, campione e vittima insieme della resistenza a Israele nel Crescente fertile). Questo groviglio di problemi ancor insoluti ha ostacolato e ritardato il pacifico sviluppo materiale e spirituale degli A., dopo le indipendenze così faticosamente conquistate.
Bibl.: F. Gabrieli, Unità e divisione nel mondo arabo, Roma 1968; A. Laroui, L'ideologia araba contemporanea, Milano 1969; P. Minganti, I movimenti politici arabi, Roma 1971; La coscienza dell'altro (colloquio italo-arabo di Firenze), Firenze 1974.