Vedi Arabia Saudita dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
L’ascesa di Mahmud Ahmadinejad in Iran non ha fatto che inasprire le rivalità, evidenziando le diverse modalità attraverso cui i due paesi cercano di affermare e rafforzare la legittimità e l’autorevolezza della loro candidatura a leader regionale. L’Iran, alleato della Siria, appoggia infatti frange armate come Hezbollah e Hamas in chiave anti-israeliana e anti-statunitense, mentre la monarchia saudita, promotrice nel 2007 dell’‘Accordo della Mecca’ per una conciliazione tra Hamas e Fatah nei Territori Palestinesi, fa valere il suo peso in campo diplomatico e auspica che la Lega Araba riesca a mediare una pace duratura tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese. Sempre in ambito regionale è rilevante la riconciliazione con lo Yemen, sancita dal Trattato di Gidda del 2000. Tale accordo ha posto fine alla crisi nata in seguito alla Guerra del Golfo, che aveva causato l’espulsione di migliaia di yemeniti dal territorio saudita e il finanziamento da parte di Riyadh di gruppi separatisti del sud dello Yemen. La presenza della monarchia saudita nel gruppo G20, unico paese arabo nell’organizzazione, è un ulteriore strumento in mano al re Abdullah bin Abdul-Aziz al-Saud per esercitare una certa influenza a livello regionale e globale, in particolare per quanto riguarda la gestione delle esportazioni petrolifere. In questa prospettiva si colloca il complesso rapporto fra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti. Se da una parte il paese arabo ospita sul suo territorio una opinione pubblica e un clero fortemente anti-americani, dall’altra è un alleato fondamentale dal punto di vista strategico, sia per la sua posizione geografica (al centro della penisola arabica) che per le sue dimensioni territoriali e la disponibilità di idrocarburi. A incrinare tale rapporto si è aggiunto il fatto che tra i 19 dirottatori degli attentati alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 figurassero ben 15 sauditi. Dopo quella data le truppe statunitensi hanno abbandonato il suolo saudita per aprire nuove basi nei vicini Bahrain e Qatar. L’alleanza con gli Stati Uniti resta comunque un pilastro fondamentale della politica estera saudita, anche se non più l’unico. La Primavera araba, e specialmente i suoi risvolti in Bahrein, hanno portato alla luce le profonde differenze di visione strategica fra le due potenze. L’Arabia Saudita non ha infatti gradito la retorica americana a favore delle rivolte e ha adottato una politica volta alla conservazione dello status quo, culminata con l’intervento armato in Bahrein e il programma di rafforzamento del Gcc in chiave non solo più anti-iraniana, ma anche come baluardo delle forze conservatrici della regione.
L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta governata dalla famiglia Al Saud, insediatasi nel 1932. Abdullah bin Abdul-Aziz è succeduto al trono nel 2005. Nel sistema politico interno, l’intreccio tra politica e religione è inscindibile, e si rifà ai dettami del wahhabismo; nonostante i poteri statali siano detenuti esclusivamente dalla famiglia reale, l’amministrazione dello stato da parte della monarchia sarebbe problematica senza l’appoggio degli ulema, l’élite religiosa a cui è affidata l’interpretazione dei testi sacri e che esercita la propria influenza su molti aspetti della vita pubblica. Il re confida proprio nell’establishment religioso per dissipare le tensioni sociali, educare le nuove generazioni, contrastare il clero radicale e garantire il rispetto della legge. Il sistema giudiziario è composto da uomini del clero che hanno studiato la Sharia in una delle Università islamiche reali del paese. Nel 2007 è stata inoltre introdotta una riforma in materia di amministrazione della giustizia che prevede la costituzione di due corti specializzate, competenti in materia di diritto commerciale e del lavoro, e di una corte suprema d’appello. Nel paese che ospita Mecca e Medina, luoghi sacri all’Islam, la religione musulmana regola tutti gli aspetti della vita dei suoi abitanti ed è professata ufficialmente dall’intera popolazione. La legge, d’altronde, obbliga i cittadini a praticare la religione musulmana, negando la libertà di culto. La maggior parte dei sauditi è sunnita, mentre il 10-15% è sciita. In generale, sebbene negli ultimi anni siano state garantite maggiori libertà, le minoranze etniche e religiose sono fortemente discriminate: gli sciiti sono decisamente sottorappresentati nelle istituzioni e la libertà religiosa delle minoranze sciite e sufi (ma anche ebraica e cristiana) è fortemente limitata, tanto che nel 2009 è stata vietata la costruzione di moschee sciite. Venendo ai diritti politici, la legge proibisce la costituzione di partiti politici ma ammette l’esistenza di alcuni strumenti di consultazione. Il Majlis al-Shura (Consiglio consultivo) è stato istituito nel 1993, coadiuva il re e il Consiglio dei ministri in materia legislativa ed è composto da 150 membri, compresi uomini d’affari e rappresentanti delle tribù. Di fatto il Majlis ha poteri molto limitati, e ha una funzione principalmente di facciata. Nel 2006 re Abdullah ha istituito il Consiglio di fedeltà, composto dai principi anziani, con l’obiettivo di ridurre i conflitti per la successione all’interno della famiglia Al Saud e di stabilire chiari meccanismi di successione monarchica.
Lo sviluppo economico del paese necessita infatti di manodopera di formazione eterogenea, principalmente di lavoratori poco qualificati, e la popolazione locale non è sufficiente a soddisfare la domanda. Allo stesso tempo, i lavoratori migranti possono essere in genere pagati con un salario inferiore rispetto ai sauditi e sono quindi più richiesti dalle imprese: questo, insieme alla rapida crescita della percentuale di giovani sulla popolazione, contribuisce all’aumento del tasso di disoccupazione (arrivato recentemente a toccare il 10%). A causa della forte immigrazione e delle necessità della struttura produttiva, il governo ha adottato una politica di ‘saudizzazione’ della forza lavoro, stabilendo delle quote di cittadini sauditi che devono essere assunti da ogni impresa operante nel paese e vietando addirittura l’utilizzo di manodopera straniera per alcuni settori.
Per quanto riguarda le condizioni socio-economiche l’Arabia Saudita è al 56° posto nella classifica mondiale di sviluppo umano. A livello regionale essa si situa in una posizione intermedia, restando al di sotto di Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrain, Kuwait e Libia. L’alfabetizzazione si ferma al 86% del totale della popolazione ma raggiunge il 97% tra i giovani di entrambi i sessi. La maggior parte delle istituzioni preposte all’istruzione è amministrata dal governo, anche se il ruolo del settore privato è in aumento. L’istruzione universitaria è inoltre in notevole diffusione, e l’aumento del numero delle università saudite ha ridotto il numero di studenti che si recano all’estero. Nel 2008, inoltre, il 61% dei laureati era costituito da donne. Sono quest’ultime tuttavia ad essere colpite in misura maggiore dalla disoccupazione: se nel 2007 quella maschile era contenuta, stimata attorno al 4% della popolazione attiva, quella femminile risultava tre volte tanto, oltrepassando il 13%. Attualmente il Ministero del Lavoro sta cercando di promuovere l’occupazione femminile, ma il divieto di guidare e le carenze del trasporto pubblico, assieme ad altri fattori di tipo culturale, rappresentano una barriera per l’impiego femminile.
Durante l’attuale regno di Abdullah sono stati registrati alcuni sviluppi relativi ai diritti civili e politici: nel 2005 sono infatti state introdotte le elezioni per i consigli municipali. Il diritto di voto, finora limitato solo agli uomini, sarà esteso anche alle donne a partire dal 2015 grazie a una riforma introdotta nel 2011. Inoltre, per la prima volta nella storia del paese una donna è stata nominata per un incarico di governo, quale viceministro per l’istruzione femminile. In generale, comunque, il wahhabismo rifiuta l’idea che la democrazia abbia valore universale e sia applicabile ovunque nel mondo: per governare in Arabia Saudita è sufficiente il rispetto della legge islamica che secondo la dottrina wahhabita è garantito dall’unione degli ulema (il clero) e degli umara (i governanti). Inoltre la divisione dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario, tipica di una democrazia occidentale, non è mai stata teorizzata ed è dunque fortemente limitata. Anche per questo i partiti restano vietati e la sola opposizione esistente risiede in esilio. Un ulteriore problema sono i gravi limiti imposti alla libertà di espressione e alla libertà di stampa (non tutelata dalla Legge Fondamentale): il governo controlla capillarmente i media nazionali e domina la stampa e la televisione satellitare della regione. Circa il 31% della popolazione aveva accesso a internet nel 2008, ma anche la rete è censurata dal governo. Infine la corruzione è diffusa, ponendo il paese al 57° posto nella classifica sulla corruzione percepita, stilata da Transparency International. Sotto il profilo dei diritti umani, l’Arabia Saudita ha ratificato la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) del 1979, ma il comitato delle Nazioni Unite preposto a vigilare sulla sua attuazione ha rilevato alcuni punti critici: la legislazione nazionale saudita non ha infatti ancora recepito il principio di uguaglianza di genere e la definizione di discriminazione sessuale previsti dalla Convenzione. La legge, inoltre, non prevede nemmeno il crimine di violenza sulle donne. Infine, il concetto di ‘custodia’ della donna (mehrem) è molto diffuso nella società saudita e vieta alle donne l’esercizio di alcuni istituti quali il divorzio, il diritto all’eredità sui beni del compagno e la proprietà privata.
L’economia saudita è sorretta dal petrolio: il paese è infatti il maggiore produttore ed esportatore di greggio al mondo. Le esportazioni petrolifere costituivano nel 2011 circa l’80% delle entrate statali, il 48% del pil della nazione e l’85% delle sue esportazioni. Di qui l’importanza del ruolo saudita nell’Opec, il cartello degli stati produttori di petrolio: essendo il maggiore produttore, il paese può condizionare le politiche dell’organizzazione, soprattutto al fine di far rispettare le quote di produzione dei partecipanti e promuovere la stabilità del mercato petrolifero. La produzione petrolifera è una determinante fondamentale della crescita economica saudita ma, allo stesso tempo, è fonte di incertezza, data la volatilità del prezzo internazionale della materia prima. Il prezzo del petrolio, dopo aver subito una forte contrazione in seguito alla crisi economica del 2009, è ritornato a salire repentinamente nel 2011 a causa delle tensioni derivanti dalla Primavera araba e dal programma nucleare iraniano, facendo registrare prezzi record a oltre 120 dollari al barile e contribuendo alla crescita del pil saudita del 6,8%. Il surplus di entrate causato dai prezzi petroliferi record ha consentito alla monarchia saudita di arginare ogni potenziale forma di dissenso interno con un consistente aumento della spesa pubblica (sussidi, stipendi, nuovi posti statali e programmi abitativi) per un totale di 130 miliardi di dollari. In termini di pil pro capite, infine, l’Arabia Saudita presenta uno dei valori più elevati di tutta la regione mediorientale (24.237 dollari).
Dal punto di vista del controllo delle attività produttive, la produzione di petrolio è monopolizzata dallo stato che la gestisce principalmente attraverso la Saudi Aramco, il più rilevante attore economico del paese. Il governo sta tuttavia attuando delle politiche di privatizzazione, come mostra lo sviluppo del settore privato anche in campo energetico, affiancate da politiche dirette ad attrarre investimenti esteri. Proprio in quest’ottica la monarchia ha creato un’autorità generale per gli investimenti, inoltre dal 2005 l’Arabia Saudita è membro dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), e oggi occupa già la 12° posizione nella classifica mondiale Doing Business. I proventi delle esportazioni di petrolio vengono reinvestiti dal governo anche con l’obiettivo, cruciale, di diversificare l’economia e ridurre la dipendenza del paese dal petrolio stesso, sviluppando infrastrutture e industrie: nel 2010 il settore dei servizi ha contribuito per il 37,8% del pil rispetto al 27,9% del 2008, mentre il settore petrolifero ha prodotto il 48% del pil rispetto al 61% dell’anno precedente.
L’Arabia Saudita possiede le maggiori riserve mondiali di petrolio, che costituiscono circa il 21% del totale (264 miliardi di barili), e può produrre tra i 10 e gli 11 milioni di barili al giorno, la più elevata tra tutti i membri dell’Opec. La Saudi Aramco è la maggiore compagnia petrolifera del paese e del mondo; la sua strategia a breve termine è quella di ampliare la capacità di raffinamento del petrolio e di svilupparsi nel settore del gas naturale. L’Arabia Saudita possiede infatti anche il 4,2% delle riserve mondiali di gas naturale. Per il raggiungimento di tali obiettivi, la compagnia è sempre più spesso affiancata da imprese private, coinvolte nell’esplorazione di nuovi giacimenti di gas, e da joint venture per la raffinazione (come quella tra Saudi Aramco e la francese Total). La crisi economica del 2009 ha comportato un rallentamento di tale processo, e la produzione di gas rimane per il momento orientata all’autoconsumo piuttosto che all’export. I consumi interni sauditi sono costituiti unicamente da petrolio (62% del totale) e gas (38%). Con l’aumento della popolazione e lo sviluppo dell’economia, il paese è arrivato a consumare circa un quarto del petrolio che produce e, come detto, la sua intera produzione di gas.
Oltre a diversificare l’economia, il governo saudita sta cercando di ridurre la dipendenza dal petrolio anche in campo energetico. A tal fine l’Arabia Saudita ha avviato alcuni progetti per lo sviluppo dell’energia nucleare a scopi civili e sta per costruire alcuni impianti in cooperazione con società statunitensi e giapponesi. Tale progetto nel campo del nucleare civile avrebbe anche la finalità di contrastare le aspirazioni iraniane e lo sviluppo di un autonomo programma nucleare da parte di Teheran. Sono inoltre stati lanciati alcuni piani di investimento in energie alternative come quella solare, con lo scopo di distogliere la maggiore quantità possibile di idrocarburi dal consumo interno (in forte crescita) per destinarla primariamente alle esportazioni.
La politica estera dell’Arabia Saudita si può schematizzare, come spesso accade, come una serie di insiemi o cerchi concentrici. Il primo insieme riguarda i paesi confinanti e le minacce dirette alla sicurezza. Negli insiemi successivi abbiamo una struttura più complessa, data dalle molteplici fonti di legittimità e dai fattori di potenza interna e internazionale. Sul piano della legittimità è importante considerare la funzione del re saudita come Khadim al-Haramayn ash-Sharifayn, ovvero custode (letteralmente: servitore) dei due luoghi santi dell’Islam, la Mecca e Medina; sul piano della potenza, l’elemento centrale è la produzione di gas e petrolio, con la conseguente ricchezza finanziaria del paese. Abbiamo quindi altri due insiemi con una grossa intersezione, ma con tematiche non coincidenti: il mondo arabo e la comunità islamica. L’azione dell’Arabia Saudita nel mondo arabo si è usualmente presentata in modo articolato e prudente, avendo come obiettivo primario la conservazione del regime per mezzo dell’appoggio a regimi amici e/o omogenei. Questa azione si estrinseca non solo attraverso la mediazione istituzionale della Lega dei paesi arabi, ma anche per mezzo di una rete abbastanza fitta di incontri bilaterali, che trovano spazio nei mezzi di comunicazione arabi nazionali e regionali (come le televisioni), ma scarsa risonanza nella stampa internazionale. Inoltre l’Arabia Saudita si è spesso proposta come mediatore in conflitti inter-arabi, come il conflitto libanese o il conflitto intra-palestinese. Tuttavia, gli ultimi anni sono stati caratterizzati da contrasti tra sauditi e siriani sulla questione libanese, dibattuta sia nei vertici arabi, sia in sedi bilaterali. Bisogna ricordare che in Libano i musulmani sunniti non sono la comunità maggioritaria, ma hanno costituito a lungo un elemento della coalizione che ha retto il paese. Questo fa sì che il punto di appoggio tradizionale della politica saudita in Libano non sia forte come in altre situazioni. Rispetto al conflitto in Palestina, l’Arabia Saudita si è spesso posta come paladina della causa palestinese, sia nelle relazioni con gli Stati Uniti, sia finanziando l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e le organizzazione umanitarie palestinesi, ma anche organizzando il blocco petrolifero dopo la guerra del 1973. Tuttavia, e nonostante la sua vicinanza al fronte (pochi chilometri separano Arabia Saudita e Israele sul Golfo di Aqaba), l’Arabia Saudita non si è mai posta come stato del fronte. Si è invece attivamente prodigata per una soluzione diplomatica del conflitto israelo-palestinese, fin dal ‘Piano Fahd’, proposto al summit arabo di Fez nel 1981, e per una soluzione ai problemi intra-palestinesi, con l’accordo della Mecca (2007). L’azione dell’Arabia Saudita nella comunità islamica è caratterizzata da prudenza politica, rigidità dottrinale, penetrazione economica attuata mediante la predicazione e la costruzione di moschee e scuole coraniche. L’obiettivo è la diffusione di un islam particolarmente rigido e dottrinario (l’interpretazione wahhabita della scuola hanbalita della giurisprudenza islamica), anche come strumento di influenza e controllo politico. Infine, il cerchio più esterno della politica estera saudita, quello delle relazioni a livello di più ampio sistema internazionale, è caratterizzato da una strana dualità. Infatti, fin dall’incontro tra re Ibn Saud e Roosevelt nel 1945, le relazioni tra Stati Uniti e regno saudita sono state strettissime. Invece le relazioni con l’Europa, partner commerciale più importante dei sauditi come importatore di greggio rispetto agli Stati Uniti, sono state caratterizzate da maggiore ambiguità. Dopo l’unificazione del paese, le relazioni con le potenze europee furono caratterizzate da ostilità o diffidenza: la Gran Bretagna all’inizio sosteneva i nemici della casa di Saud e contribuì a fermare la sua avanzata sia a nord, sia a sud; le relazioni diplomatiche con la Francia furono stabilite solo dopo la fine della Guerra d’Algeria. Il grande cambiamento intervenne con la crisi petrolifera (1973) e con il progressivo mutamento di atteggiamento di molti stati europei rispetto alla questione palestinese. Ciò nonostante, il pilastro fondamentale della politica saudita rimane il rapporto con gli Stati Uniti. La politica estera dell’Arabia saudita si scontra in tutti e tre gli insiemi fin qui considerati con l’Iran: minaccia diretta (o percepita come tale) alla sua sicurezza; elemento di sfida all’azione di controllo nei paesi arabi, soprattutto nell’area del Mashriq; sfida alla leadership religiosa nella comunità islamica, sia dal punto di vista dottrinario che da quello politico; diverso tipo di politica petrolifera. Lo scontro è religioso, tra rigorismo sunnita e attivismo rivoluzionario sciita caratteristico dell’era post-rivoluzionaria, ma riguarda parimenti l’opposizione politica tra un regime autoritario con forti tratti patrimoniali e tradizionali, sostanzialmente caratterizzato da una oligarchia chiusa, e un regime autoritario di mobilitazione, che cerca di legittimarsi anche per mezzo di pratiche pseudo-democratiche (elezioni). Tuttavia, la lettura del sistema regionale in una sorta di bipolarismo saudita-iraniano non deve portarci a sottovalutare lo spazio di manovra che si vogliono creare altri attori, come la Siria. Inoltre, le rivolte scoppiate in molti paesi arabi tra il 2010 e il 2011 ci inducono a non adottare soltanto la lente degli allineamenti tra Arabia Saudita e Iran per comprendere il riflesso regionale del mutamento in atto, in quanto potrebbe anche crearsi una situazione di diminuzione di influenza per ambedue gli attori. Infine, rispetto alle rivolte del 2011 è importante sottolineare che l’Arabia Saudita sembra aver smarrito la sua tradizionale prudenza. La reazione saudita è stata infatti di scetticismo e malcelata ostilità, fino a definire, per bocca dell’allora ministro degli interni Nayef, la rivoluzione in Egitto come risultato di un intervento straniero. Quindi tale avversione sembra una reazione di sopravvivenza, che però potrebbe cambiare di fronte alla prospettiva dell’instaurazione di regimi democratici appoggiati da Europa e Stati Uniti.
La storia dell’Islam prende le mosse nel 7° secolo tra le città di Mecca e Medina. Secondo la religione islamica Maometto fu illuminato dalla rivelazione dell’angelo Gabriele nel 610, mentre si trovava in un ritiro di meditazione sul monte Hira, vicino alla Mecca. Appena tre anni dopo il Profeta iniziò a predicare la fede monoteistica islamica per le strade della sua città, la Mecca. Col tempo, però, Maometto fu sottoposto a violente persecuzioni che lo indussero, nel 622, a lasciare la città natale per insediarsi nell’oasi di Yathrib, a 200 chilometri dalla Mecca, che prese il nome di Medina, “la città illuminata”. L’emigrazione di Maometto con i suoi seguaci, “egira” in arabo, segna la nascita della comunità islamica, la “umma”. Da allora il Profeta condusse una serie di guerre per affermare l’Islam nella regione. Le vittorie accrebbero l’influenza di Medina nella regione arabica e indussero Maometto a modificare la direzione di preghiera dei fedeli: da Gerusalemme, per tradizione ebraica, alla Mecca, in favore dell’umma, considerata la degna custode del messaggio divino. Nel 632 Maometto compì il suo ultimo pellegrinaggio alla Mecca. Lo stesso anno morì. I cinque pilastri della fede islamica sono a tutt’oggi quelli stabiliti dal Profeta quattordici secoli fa: la professione del monoteismo, la preghiera, il digiuno, l’elemosina legale e il pellegrinaggio. Quest’ultimo precetto prevede che i fedeli compiano almeno una volta nella vita un viaggio alla Mecca, che permette la purificazione tramite il pentimento e la celebrazione dei riti. La città santa dell’Islam, in cui è stata edificata la più grande moschea al mondo, la Masjid al-Haram, ospita ogni anno circa tre milioni di fedeli.
Pur possedendo un quinto delle riserve mondiali di petrolio, l’Arabia Saudita è tra i paesi che dispongono delle più scarse risorse idriche al mondo e deve affrontare il problema della desertificazione. La mancanza di acqua non permette di sviluppare la produzione agricola: solo il 2% del territorio è coltivato e questo comporta un problema di sicurezza alimentare. Il paese dipende dalle importazioni di prodotti di base e, di conseguenza, dalla volatilità dei prezzi di tali prodotti sui mercati internazionali. Nel 2009, con un investimento iniziale di 800 milioni di dollari, il governo saudita ha creato un ente pubblico che dovrebbe investire nella produzione di alimenti all’estero in vista di una loro importazione nel paese: lo prova il contratto di locazione stipulato con il governo sudanese allo scopo di produrre grano, verdura e mangimi animali. Di notevole importanza anche i progetti di desalinizzazione, che richiedono ingenti risorse finanziarie: l’Arabia Saudita desalinizza acqua per il 70% del suo consumo totale.
L’Arabia Saudita è membro del Consiglio per la cooperazione del Golfo (Gcc), una zona di integrazione regionale creata nel 1981 con i vicini paesi della Penisola Araba. Riyadh, la maggiore economia del Gcc, ha l’ambizione di sviluppare e promuovere l’integrazione delle economie della regione. Al contempo, l’Arabia Saudita mantiene stretti legami commerciali con gli Stati Uniti, il Giappone, la Corea del Sud, la Cina e l’Unione Europea (Eu), i maggiori destinatari delle sue esportazioni petrolifere. Recentemente la Cina è divenuta il primo importatore di petrolio saudita; ciò consente all’Arabia Saudita di consolidare l’espansione commerciale nel continente asiatico e di diversificare le sue esportazioni, prima fortemente dipendenti dagli Stati Uniti. Viceversa, la Cina è interessata a esportare e investire in Arabia Saudita, principalmente nel settore delle costruzioni. Per quanto concerne infine il rapporto con l’eu, le importazioni del paese (in gran parte macchinari e prodotti chimici) superano le esportazioni.