Vedi Arabia Saudita dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
L’Arabia Saudita è il paese più esteso della Penisola Arabica ed è posto nel cuore dello scacchiere mediorientale. La sua rilevanza geopolitica porta con sé non solo le intense relazioni con i paesi del Golfo, ma anche il coinvolgimento nelle dinamiche più ampie del Medio Oriente e in quelle globali. Da qui la partecipazione al G20 e il ruolo preponderante nell’ambito dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec). Una rilevanza regionale che a seguito delle Primavere arabe del 2011 si è trasformata in leadership politica e morale visto l’attivismo saudita nei principali teatri di crisi medio-rientali, tra i quali spiccano l’Egitto (dove la corona degli al-Saud ha definito fin da subito un deciso sostegno al presidente Abdel Fattah al-Sisi), il Bahrain, la Siria, lo Yemen e la Libia. Nonostante tale protagonismo rimangono ancora numerosi i punti problematici legati sia alla sicurezza domestica e regionale, sia ai rapporti con l’alleato statunitense. Sul piano regionale, le maggiori spine per la diplomazia saudita sono rappresentate dallo scontro tutto interno al Consiglio per la cooperazione del Golfo (Gcc) con il Qatar, dal pericolo jihadista in Medio Oriente e dalla frizione sempre alta con l’Iran. L’Arabia Saudita rappresenta la maggiore economia e potenza politica del Gcc (che comprende Bahrain, Oman, Qatar, Emirati Arabi Uniti (Uae) e Kuwait). Nei confronti dei piccoli paesi del Golfo, compreso il Qatar, l’Arabia Saudita ha sempre tentato di imporre una politica di egemonia, in vista anche di una evoluzione stessa del Gcc in un’Unione del Golfo, un meccanismo molto più vicino a quello attuale esistente nell’Unione Europea. Il Qatar invece ha sempre rigettato un sistema di alleanze del Golfo che mutasse l’attuale status quo e favorisse in modo significativo l’Arabia Saudita. Di qui la scelta di condurre una politica estera più autonoma e slegata dall’egemonia saudita che ha inevitabilmente incrinato i rapporti con Riyadh. Lo strappo si è ufficialmente consumato nel marzo 2014 quando Arabia Saudita, Uae e Kuwait hanno ritirato i propri ambasciatori da Doha. Apparentemente rientrata con una normalizzazione dei rapporti, la crisi si è nuovamente riacutizzata sul finire dell’agosto 2014 quando Doha ha rifiutato di ratificare il Riyadh Agreement, un meccanismo di implementazione del dispositivo di sicurezza del Gcc.
A preoccupare Riyadh vi è inoltre la questione del cosiddetto ‘jihadismo di ritorno’ che potrebbe minacciare direttamente le frontiere saudite ed è in parte collegato al ruolo di contrapposizione del Qatar all’Arabia Saudita. Nel tentativo di dare una risposta concreta alla minaccia fondamentalista del califfo Abu Bakr al-Baghdadi, il governo saudita ha deciso di avviare una serie di operazioni su più fronti: prima di tutto ha varato, nel dicembre 2013, una nuova e più severa legge anti-terrorismo. In secondo luogo, ha aggiornato la lista delle organizzazioni terroristiche, tra le quali figurano Jabhat al-Nusra, Is (Stato islamico) e Ansar Bayt al-Maqdis, ma anche i Fratelli musulmani, Hamas e Hezbollah. Infine, il governo ha autorizzato la guardia nazionale a intensificare i controlli e a dispiegare 30.000 soldati lungo la frontiera con l’Iraq e, allo stesso tempo, ha donato 1 miliardo di dollari all’esercito libanese per combattere il fronte jihadista di Is e Jabhat al-Nusra, ormai asserragliato costantemente nei pressi della città di confine libanese di Arsal. Proprio l’avanzata dell’Is verso l’Iraq ha aperto un nuovo fronte anche nel rapporto complesso tra Arabia Saudita e Iran: infatti la necessità di contrastare i terroristi sunniti di al-Baghdadi ha costretto i due nemici ad una sorta di convergenza strategica – solo formale e non ufficiale – per bloccare il contagio islamista nella regione.
Proprio quest’ultimo aspetto ha rappresentato una novità nel rapporto complesso tra i due giganti del Golfo. L’Iran, ancora impegnato nel negoziato sul proprio programma nucleare con i paesi del ‘5+1’, ha colto l’occasione per un suo riposizionamento sulla scena regionale ma allo stesso tempo non si è negato alle aperture giunte dagli al-Saud. In occasione di un vertice della difesa del Gcc tenuto nel maggio 2014 a Gedda, il ministro degli Esteri saudita, il principe Saud al-Faysal, aveva invitato la sua controparte iraniana nella stessa città in giugno per partecipare al summit dell’Organizzazione per la cooperazione islamica. Un gesto salutato come ‘amichevole’ da Teheran che comunque aveva dovuto declinare all’invito a causa della contemporanea ripresa dei negoziati a Vienna sul nucleare. Tuttavia il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, si è detto disponibile ad incontrare a breve il suo omologo saudita sia a Teheran, sia a Riyadh. Se non si può parlare di disgelo nei rapporti ufficiali, di sicuro la visita del vice ministro degli Esteri iraniano Amir Hussain Abdollahian a Riyadh nell’agosto 2014, ha favorito l’instaurazione di un nuovo corso nelle proprie relazioni bilaterali. Le insidie che potrebbero minare questo clima di avvicinamento rimangono ancora numerose, a cominciare dalle altre questioni strategiche che dividono i due stati, ossia la Siria, il Libano e il Bahrain.
In questa prospettiva si colloca anche il complesso rapporto fra l’Arabia Saudita e gli Usa. Se da un lato l’opinione pubblica saudita e le autorità religiose si professano fortemente anti-americane, dall’altro il governo si è rivelato un alleato strategico fondamentale, per la sua posizione geografica (al centro della Penisola Arabica), le dimensioni territoriali e la disponibilità di idrocarburi. A incrinare il rapporto, però, sono intervenute le divergenze in merito al tentativo di rapprochement tra Usa e Iran sul nucleare iraniano e l’indirizzo di politica estera statunitense in Medio Oriente che, secondo l’Arabia Saudita, avrebbe simpatizzato troppo in favore delle piazze arabe in rivolta dal 2011, a cominciare dal regime change in Egitto ai tempi di Mubarak. Sebbene permangano delle divergenze di fondo nella politica estera, le due amministrazioni hanno provato a rilanciare il dialogo strategico bilaterale invitando a Gedda l’allora segretario alla Difesa statunitense Chuck Hagel al Joint Defense Council del Gcc del maggio 2014. L’alleanza con gli Usa resta, dunque, un pilastro della politica estera e di sicurezza saudita, anche se non è più l’unico.
L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta governata dalla famiglia al-Saud, al potere dal 1932. Salman bin Abdul Aziz al-Saud è salito sul trono nel gennaio 2015, in seguito alla morte del fratello Abdullah. Nel sistema politico interno, l’intreccio tra politica e religione è inscindibile e si rifà ai dettami del wahhabismo. Benché i poteri statali siano concentrati nelle mani della famiglia reale, la monarchia non riuscirebbe a esercitare un saldo controllo sull’amministrazione senza l’appoggio degli ulema, l’élite religiosa a cui è affidata l’interpretazione dei testi sacri e che esercita la propria influenza su molti aspetti della vita pubblica. Il re confida proprio nell’establishment religioso per dissipare le tensioni sociali, educare le nuove generazioni, contrastare il clero radicale e garantire il rispetto della legge. Il sistema giudiziario è affidato a uomini del clero che hanno studiato la sharia in una delle università islamiche reali del paese. Nel 2007 è stata introdotta una riforma in materia di amministrazione della giustizia che prevede la costituzione di due corti specializzate, competenti in materia di diritto commerciale e del lavoro, e di una corte suprema d’appello. Nel regno, che ospita Mecca e Medina, luoghi sacri all’Islam, la religione musulmana regola tutti gli aspetti della vita ed è professata ufficialmente dall’intera popolazione. La legge, d’altronde, obbliga i cittadini a praticare la religione musulmana e nega la libertà di culto.
La maggior parte dei sauditi è sunnita, mentre il 10-15% è sciita. Gli sciiti risiedono nelle province orientali del regno. In generale, sebbene negli ultimi anni siano state garantite maggiori libertà, le minoranze etniche e religiose sono state fortemente discriminate: gli sciiti invocano da tempo una maggiore giustizia e uguaglianza sociale. Sebbene siano tollerati dalle autorità centrali, gli sciiti continuano a rimanere ai margini della società, dell’amministrazione pubblica, della politica. Anche la libertà religiosa non è tollerata nei confronti delle minoranze sciite, sufi, ma anche di quelle ebraiche e cristiane.
Quanto ai diritti politici, la legge proibisce la costituzione di partiti ma ammette l’esistenza di alcuni strumenti di consultazione. Il Majlis al-Shura (Consiglio consultivo) è stato istituito nel 1993: coadiuva il re e il consiglio dei ministri in materia legislativa ed è composto da 150 membri, compresi uomini d’affari e rappresentanti delle tribù. Di fatto il Majlis ha poteri molto limitati e ha un ruolo di facciata. Nel 2006 l’ex re Abdullah ha istituito il Consiglio di fedeltà, composto dai principi anziani, con l’obiettivo di ridurre i conflitti all’interno della famiglia al-Saud e di stabilire chiari meccanismi di successione monarchica.
Per garantire lo sviluppo economico, il regno ha bisogno di manodopera di formazione eterogenea e, principalmente, poco qualificata, poiché non dispone di una popolazione sufficiente a soddisfare la domanda nazionale. In più, i lavoratori migranti sono in genere pagati meno rispetto ai sauditi e sono quindi più richiesti dalle imprese: ciò, assieme alla rapida crescita della percentuale di giovani sulla popolazione, contribuisce all’aumento del tasso di disoccupazione (giunto a toccare il 5,5% su base nazionale e quasi il 30% a livello giovanile). A causa della forte immigrazione e delle necessità della struttura produttiva, il governo ha adottato una politica di ‘saudizzazione’ della forza lavoro, ovvero ha stabilito quote riservate per i cittadini sauditi per ogni impresa che operi nel paese. Ha anche vietato l’utilizzo di manodopera straniera per alcuni settori privati ritenuti di rilevanza strategica. Per quanto riguarda le condizioni socio-economiche l’Arabia Saudita è al 58° posto nella classifica mondiale di sviluppo umano. A livello regionale si situa in una posizione intermedia: resta al di sotto di Uae, Qatar, Bahrain, Kuwait e Libia (pre-rivoluzione). L’alfabetizzazione si attesta al 94% del totale della popolazione, ma raggiunge il 99% tra i giovani di entrambi i sessi. La maggior parte delle istituzioni preposte all’istruzione è amministrata dal governo, anche se il ruolo dei privati è in crescita. L’istruzione universitaria è in sostanzioso sviluppo; l’aumento del numero delle università saudite ha ridotto il numero di studenti che si recano all’estero. Nel 2008, inoltre, il 61% dei laureati era costituito da donne. Le ragazze, però, sono colpite in misura maggiore dalla disoccupazione: se nel 2007 quella maschile era contenuta, stimata attorno al 4% della popolazione attiva, quella femminile risultava tre volte tanto, oltrepassando il 13%. Il ministero del Lavoro sta cercando di promuovere l’occupazione femminile – meno di un quarto della forza lavoro totale –, in particolare nel settore privato dove tra il 2011 e il 2013 si è più che quadruplicata. Tuttavia esistono ancora una nutrita serie di ostacoli che rappresentano una forte barriera all’ingresso e all’uguaglianza uomo-donna almeno sul posto di lavoro.
Durante il regno di Abdullah (2005-15), i diritti civili e politici hanno registrato un’evoluzione: nel 2005, per esempio, sono state introdotte le elezioni per i consigli municipali. Il diritto di voto, finora limitato solo agli uomini, sarà esteso anche alle donne a partire dal 2015 grazie a una riforma introdotta nel 2011. Inoltre, per la prima volta nella storia del paese, una donna è stata nominata al governo, quale viceministro per l’istruzione femminile. In generale, comunque, il wahhabismo rifiuta l’idea che la democrazia abbia valore universale e sia applicabile ovunque nel mondo: per governare in Arabia Saudita è sufficiente il rispetto della legge islamica, che è garantito dall’unione degli ulema (il clero) e degli umara (i governanti). Inoltre la divisione dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario, tipica di una democrazia occidentale, non è mai stata teorizzata ed è dunque piuttosto ignorata. Anche per questo i partiti sono vietati e la sola opposizione esistente è quella che vive in esilio. Gravi limiti sono imposti anche alla libertà di espressione e alla libertà di stampa (non tutelata dalla Legge fondamentale): il governo controlla capillarmente i media nazionali e domina la stampa e la televisione satellitare della regione. Meno della metà della popolazione ha accesso a Internet, ma anche la rete è censurata dal governo.
La corruzione è diffusa: il paese è al 63° posto nella classifica sulla corruzione percepita, stilata da Transparency International. Sotto il profilo dei diritti umani, l’Arabia Saudita è spesso attaccata da Ong internazionali per il suo scarso rispetto dei diritti delle minoranze e delle donne. Ciononostante ha ottenuto un seggio nel Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Unhrc) per il triennio 2014-16 (dopo aver rinunciato a quello in Consiglio di sicurezza per il biennio 2014-15) e ha ratificato la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) del 1979. Ma il comitato delle Nazioni Unite preposto a vigilare sulla sua attuazione ha rilevato serie carenze: la legislazione nazionale saudita non ha ancora recepito il principio di uguaglianza di genere e la definizione di discriminazione sessuale, previsti dalla Convenzione. La legge, inoltre, non prevede il reato di violenza sulle donne. Infine, il concetto di ‘custodia’ della donna (mehrem), ancora diffuso, vieta alle donne l’esercizio di alcuni istituti, quali il divorzio, il diritto all’eredità sui beni del marito, la proprietà privata, la libertà di viaggiare. A tal proposito, l’Arabia Saudita è al centro di critiche per il divieto di guida imposto alle donne.
L’economia saudita si basa sul petrolio: il paese è il maggiore produttore ed esportatore di greggio al mondo. Le esportazioni petrolifere costituiscono l’80-90% delle entrate statali, il 48% del pil della nazione e l’85% dei proventi delle esportazioni. Di qui l’importanza del governo saudita nell’Opec, il cartello degli stati produttori di petrolio: il paese può condizionare le politiche dell’organizzazione, soprattutto per far rispettare le quote di produzione dei partecipanti e promuovere la stabilità del mercato petrolifero. La produzione di petrolio è una determinante fondamentale della crescita economica saudita ma, allo stesso tempo, è fonte di incertezza, data la volatilità del prezzo internazionale della materia prima. Il prezzo del petrolio, dopo aver subito una forte contrazione in seguito alla crisi economica del 2009, è ritornato a salire repentinamente nel 2011, per le tensioni create dalle Primavere arabe e dal programma nucleare iraniano. Ciò ha fatto registrare prezzi record a oltre 120 dollari al barile e ha contribuito alla crescita del pil saudita (con un tasso pari al 3,6% nelle stime 2013).
Il surplus di entrate causato dai prezzi petroliferi ha consentito alla monarchia saudita di arginare il dissenso interno con un consistente aumento della spesa pubblica (sussidi, stipendi, nuovi posti statali e programmi abitativi), per un totale di 130 miliardi di dollari. Tuttavia il calo del prezzo del petrolio a partire dal novembre 2014, potrebbe porre a rischio deficit nel breve periodo il bilancio saudita nel 2018, a meno che il governo non intervenga riducendo le spese già pianificate basate sulle stime degli introiti petroliferi, soprattutto nel settore pubblico. Dal punto di vista del controllo delle attività produttive, la produzione di petrolio è monopolizzata dallo stato che la gestisce principalmente attraverso la Saudi Aramco, il più rilevante attore economico del paese. Il governo sta tuttavia attuando politiche di privatizzazione, come mostra lo sviluppo del settore privato anche in campo energetico, affiancate da provvedimenti per attrarre investimenti esteri. In quest’ottica la monarchia ha creato un’autorità generale per gli investimenti. Inoltre, dal 2005, l’Arabia Saudita è membro dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), e oggi occupa la 26° posizione nella classifica mondiale Doing Business. I proventi delle esportazioni di petrolio vengono reinvestiti dal governo anche con l’obiettivo, cruciale, di diversificare l’economia e ridurre la dipendenza del paese dal petrolio stesso, sviluppando infrastrutture e industrie. Tali investimenti potrebbero permettere una crescita media del pil del 3,5% fino al 2018.
L’Arabia Saudita possiede le maggiori riserve mondiali di petrolio, che costituiscono circa il 21% del totale (267 miliardi di barili), e può produrre oltre 10 milioni di barili al giorno, la quota più elevata tra tutti i membri dell’Opec. La Saudi Aramco è la maggiore compagnia petrolifera del paese e tra le più importanti al mondo; la sua strategia a breve termine è quella di ampliare la capacità di raffinamento del petrolio e di svilupparsi nel settore del gas naturale. L’Arabia Saudita possiede il 4,2% delle riserve mondiali di gas naturale e di recente ha scoperto importanti riserve di idrocarburi non convenzionali (shale gas/oil). Per il raggiungimento di tali obiettivi, la compagnia ha promosso joint venture con imprese private coinvolte nell’esplorazione di nuovi giacimenti di gas e ha pianificato investimenti annuali nell’upstream per 40 miliardi di dollari. La crisi economica del 2009 ha rallentato il processo, e la produzione di gas rimane per il momento orientata all’autoconsumo piuttosto che all’export. I consumi interni sauditi sono costituiti unicamente da petrolio (62% del totale) e gas (38%). Con l’aumento della popolazione (+40% negli ultimi venti anni) e lo sviluppo dell’economia, il paese è arrivato a consumare circa un quarto del petrolio che produce e, come detto, la sua intera produzione di gas.
Oltre a diversificare la sua economia, il governo saudita sta cercando di ridurre la dipendenza dal petrolio anche in campo energetico. A tal fine l’Arabia Saudita ha avviato alcuni progetti per lo sviluppo dell’energia nucleare a scopi civili e intende costruire alcuni impianti in cooperazione con società statunitensi e giapponesi. Lo sviluppo del nucleare civile dovrebbe anche contrastare le aspirazioni iraniane e la crescita del programma nucleare di Teheran. Sono inoltre stati lanciati alcuni piani di investimento in energie alternative, come quella solare, per distogliere la maggiore quantità possibile di idrocarburi dal consumo interno (in forte crescita) e destinarla alle esportazioni.
Una recente priorità della monarchia saudita è investire per migliorare e ampliare l’armamentario bellico attraverso una produzione autonoma. Attualmente la spesa militare è pari a circa il 9% del pil e secondo l’International Institute for Strategic Studies l’Arabia è quarta al mondo per spesa militare. Una corsa al riarmo favorita dal clima di crescente contrapposizione politica sorto nel Golfo nell’arco degli ultimi 10/15 anni. Sebbene dopo il 1999 le importazioni di armi da Francia, Regno Unito e Usa siano drasticamente diminuite, nell’ottobre 2010, dopo tre anni di trattative, è stato ufficializzato un contratto per la vendita di armamenti all’Arabia Saudita da parte degli Usa per un valore di oltre 60 miliardi di dollari, cifra record nella storia di questo settore. Le consegne avverranno nell’arco dei prossimi 15-20 anni e prevedono il rifornimento di 70 elicotteri Apache, un numero imprecisato di Little Birds, elicotteri ultraleggeri progettati per operazioni speciali, 72 Blackhawk, 84 caccia F-15 e l’ammodernamento di 70 F-15 sauditi, assieme a un’ampia gamma di missili e a un sofisticato sistema di allerta radar (Thaad). L’accordo rientra in uno dei grandi disegni di politica estera degli Usa, che hanno siglato diversi accordi di esportazione di armi con altri paesi sunniti strategicamente influenti della regione – come Uae, Bahrain, Qatar e Oman. L’obiettivo è contrastare l’ascesa iraniana e rendere i propri alleati in grado di rispondere in modo più autonomo alle minacce esterne. La fornitura di armi e apparecchiature militari analoghe a quelle utilizzate dal proprio esercito permetterà inoltre al dipartimento della difesa statunitense di coordinarsi in modo più efficiente con i paesi alleati.
La monarchia saudita vede il recente contratto di acquisto come un investimento per ampliare la propria influenza sullo scacchiere mediorientale e controbilanciare così la politica estera iraniana nella regione. In più le nuove forniture dovrebbero permetterle di affrontare la lotta al terrorismo di al-Qaida con maggiore efficacia. Proprio la minaccia terroristica ha fatto avanzare da più parti la possibilità di rivedere la coscrizione nazionale prevedendola obbligatoria. Tuttavia il capo della guardia nazionale, il principe Miteb bin Abdullah, ha finora allontanato l’ipotesi della sua introduzione nel breve periodo.
Sempre con lo scopo di controbilanciare l’influenza dell’Iran nel Golfo, oltre che per timore di una destabilizzazione regionale che possa coinvolgere anche l’Arabia Saudita, nel marzo del 2011, a seguito delle rivolte contro il regime bahrainita, Riyadh ha inviato truppe in Bahrain. Tale operazione, condotta sotto l’egida del Gcc e attraverso il suo apparato militare – la Peninsula Shield Force – ha confermato il ruolo dell’Arabia Saudita quale custode degli equilibri esistenti nel Golfo.
Il 5 marzo 2014, può essere ricordata come una data a suo modo storica perché per la prima volta nella storia del Gcc si è venuta a creare la più importante crisi diplomatica tra le monarchie del Golfo. Riyadh, Abu Dhabi e Kuwait City con una decisione insolita hanno deciso di ritirare i propri rispettivi ambasciatori da Doha a causa del supporto politico e finanziario fornito da quest’ultima ai gruppi islamisti come la Fratellanza musulmana egiziana e al jihadismo militante dilagante nella regione. Una decisione che covava da tempo e che nel dicembre 2013, nel corso del 34° summit del Gcc, era stato scongiurato solo per la mediazione di Kuwait e Oman che hanno evitato un pubblico strappo nell’organizzazione. Oltre alle questioni squisitamente regionali, alla base della decisione delle tre monarchie hanno influito alcuni fattori interni al meccanismo del Gcc, in particolare quelli relativi alla mancata ratifica da parte del Qatar degli accordi di non interferenza negli affari interni dei membri del consesso regionale stabiliti nel corso dello stesso vertice del dicembre 2013. Sebbene nel 2014 si era giunti ad un riavvicinamento tra le parti, la situazione è nuovamente precipitata nel corso di un vertice interministeriale a Gedda quando Doha ha rifiutato nuovamente di ratificare il medesimo accordo. L’effetto più evidente di questo strappo nel Gcc è la conseguente marginalizzazione a cui il Qatar è andato incontro anche in seno ad altre organizzazioni regionali come la Lega araba, dove il paese si è schierato, unico nel consesso, a favore della dirigenza alleata di Hamas durante la crisi di Gaza di luglio-agosto 2014.
Gli sciiti in Arabia Saudita sono circa 2,5 milioni (tra il 10-15% della popolazione totale), di origine araba e in prevalenza di fede duodecimana come gli sciiti iraniani. Questa comunità vive nell’est del paese, nella Provincia orientale, un territorio ricco di risorse petrolifere che si affaccia sul Golfo esattamente di fronte alle coste iraniane. Sebbene tollerati e accettati dalle autorità centrali sunnite, l’atteggiamento nei loro confronti divenne sempre più duro dopo la rivoluzione khomeinista in Iran del 1979, per il timore che gli sciiti locali fossero una sorta di quinta colonna al servizio di Teheran. Una condizione esasperata anche dalle concezioni degli ulema, i quali definiscono gli sciiti sauditi rawafidh (negazionisti), in quanto considerati apostati. Con l’insorgere delle Primavere arabe nel 2011, la condizione di profonda marginalizzazione politica e di disuguaglianza sociale della comunità sciita si acuisce maggiormente tanto da spingere numerosi attivisti a scendere in piazza per denunciare la situazione di ‘discriminazione’ che li ha portati ad essere totalmente avulsi da qualunque ramo della vita pubblica e politica nazionale.
Dinanzi all’aumento delle rivendicazioni della minoranza, il governo centrale ha dapprima dichiarato illegali le manifestazioni di dissenso, poi ha rifiutato il dialogo e, infine, ha represso duramente ogni forma di opposizione inviando 10.000 agenti di sicurezza nella Provincia orientale. Nonostante le campagne internazionali di sensibilizzazione delle principali Ongal mondo sulla condizione di discriminazione vissuta dagli sciiti in Arabia Saudita, le autorità locali non solo non hanno mutato il loro atteggiamento ma hanno imposto ulteriori restrizioni alle libertà d’espressione, associazione e di riunione e attuato una serie di arresti nei confronti dei leader della protesta sciita
Dal 2010, l’Arabia Saudita porta avanti progetti di diversificazione dell’economia e di sviluppo di fonti di approvvigionamento energetico alternative. Per questo lo sviluppo passa oggi anche dalla costruzione delle ‘economic cities’, mega progetti di città integrate con il compito di garantire occupazione, crescita e stabilità all’economia saudita. Le città economiche costeranno oltre 60 miliardi di dollari, verranno costruite con l’utilizzo delle infrastrutture tecnologicamente più avanzate e sorgeranno in posizioni strategiche all’interno del territorio saudita. L’idea di costruire un’intera città gravitante attorno ad uno specifico settore industriale ha avuto fortunati precedenti in Jubail e Yanbu, progetti pilota che hanno permesso il rafforzamento e l’ampliamento di questi piani infrastrutturali. Il programma ambizioso è tuttora in una fase di realizzazione. Delle sei economic cities in via di costruzione, la King Abdulah Economic City, vicino a Gedda, è al momento la più avanzata nei lavori di costruzione.
La posizione dell’Arabia Saudita nell’attuale contesto mediorientale è particolarmente delicata a causa delle numerose minacce esterne. Mentre a nord, attraverso l’Iraq, lo Stato islamico (Is) sembra proseguire la propria avanzata evidenziando le debolezze strutturali dei paesi dell’area, a sud il mancato completamento del processo di transizione politica dello Yemen potrebbe rappresentare un fattore destabilizzante per i confini meridionali sauditi, anche a causa delle rivendicazioni degli Houthi e della proliferazione di fenomeni terroristici legati ad al-Qaida nella Penisola Arabica (Aqap). A tali fattori potrebbero non di meno aggiungersi il pericolo rappresentato dallo jihadismo di ritorno dei mujaheedin sauditi impegnati in Siria, Libano, Iraq e Yemen. Quello che per anni è stato uno strumento di protezione, e prevenzione, dei delicati equilibri interni tra clero sunnita e famiglia reale potrebbe trasformarsi in un’ulteriore sfida alla stabilità del regno.
Per la prima volta dall’inizio delle Primavere arabe, la monarchia saudita si è trovata direttamente esposta alla minaccia jihadista. Un apparente paradosso per un paese che durante il fervore rivoluzionario del 2011 aveva provato ad ergersi come guida politica e morale del mondo arabo-islamico. A seguito di quell’ondata di rivolte gli al-Saud si erano infatti impegnati su più fronti per arginare e contenere una possibile destabilizzazione interna: Siria, Yemen, Bahrain, Egitto, Libia e Iraq sono stati i principali scenari all’interno dei quali la corona e l’intelligence di Riyadh sono stati maggiormente operativi con l’obiettivo di salvaguardare gli interessi sauditi nell’area e la propria stabilità interna. Che fosse il mantenimento dello status quo o che si promuovesse una contro-rivoluzione, l’obiettivo di Riyadh non è mai mutato fino al novembre del 2013, quando il gruppo dei ‘5+1’ e Iran firmarono un accordo ad interim sul programma nucleare di quest’ultimo. Tale intesa, preliminare ad un accordo di più ampia portata, ha segnato un punto di rottura e di cambiamento per l’Arabia Saudita sia in relazione alla percezione del pericolo ma anche al numero delle minacce e degli attori, alcuni tra questi transnazionali, coinvolti. Una situazione che ha portato Riyadh a cambiare registro anche nel suo rapporto diretto e meno assertivo che aveva tenuto in passato con Teheran vista la convergenza di interessi e di opportunità nella lotta al terrorismo jihadista dell’Is in Iraq e in Siria.
La strategia diplomatica e di counterterrorism saudita è dunque mutata, così come alcuni suoi interpreti, a partire da Bandar bin Sultan, membro della famiglia reale già ambasciatore a Washington e, per un breve periodo (settembre 2012-aprile 2014), a capo dell’intelligence saudita. Ufficialmente dimissionato per motivi di salute, a Bandar sarebbero stati imputati due fallimenti: il mancato raggiungimento di un regime change in Siria e l’incapacità di arginare i gruppi salafiti in Iraq, nella stessa Siria e in Yemen in funzione anti-sciita. Per prima cosa, la visita a Mosca dell’agosto 2013, durante la quale Bandar si era spinto a offrire a Putin la cessazione dell’appoggio saudita alle cellule islamiste nel Caucaso in cambio di un allentamento del sostegno russo all’alleato Bashar al-Assad, si è rivelata totalmente infruttuosa. In secondo luogo, il finanziamento economico e militare da parte saudita di tribù, clan e gruppi salafiti sunniti in Yemen, in Siria e in Iraq in funzione anti-sciita è diventato un pericoloso boomerang in quanto queste stesse realtà stanno ora operando più o meno direttamente al fianco di Aqap e di Is minacciando di fatto la stessa stabilità saudita.
Così mentre l’Is ha lanciato la propria offensiva al cuore dello stato iracheno proclamando la nascita del califfato islamico tra le province orientali di quest’ultimo e quelle nord occidentali siriane, dai confini yemeniti è ripresa con maggior vigore l’insurrezione islamista di Aqap nell’Hadramawt, nonché la rivolta, scoppiata nell’Amran, dei ribelli sciiti zayditi Houthi contro il governo di Sana’a. Tutte e tre le azioni, sviluppatesi pressoché contemporaneamente, sono state mirate contro il comune nemico, ossia l’Arabia Saudita.
Sebbene Riyadh sia in grado di contenere anche militarmente le minacce lungo le proprie frontiere – secondo il rapporto Military Balance dell’International Institute for Strategic Studies, l’Arabia Saudita nel 2013 è stato il quarto investitore globale per spesa militare con un bilancio di 60 miliardi di dollari – le insidie esistenti rappresentano un costante e crescente motivo di apprensione per le autorità centrali. È sulla base di ciò che nel dicembre 2013 il governo ha varato una nuova e più severa legge anti-terrorismo che prevede pene detentive più dure per i terroristi e sanzioni per tutti quegli enti, opere caritatevoli e istituti privati, nazionali ed esteri, che sostengono finanziariamente o moralmente le loro attività. In secondo luogo, ha aggiornato la lista delle organizzazioni terroristiche, inserendovi Jabhat al-Nusra, l’Is e gli Houthi. Infine, il governo ha autorizzato la guardia nazionale a intensificare i controlli e a dispiegare i propri soldati lungo i confini con l’Iraq e lo Yemen.
Riyadh si è trovata dunque stretta in una morsa di minacce trasversali nella quale ognuna delle forze in campo è stata impegnata a giocare la propria partita. Così in questo fil rouge di pericoli alla sicurezza saudita, bisognerà capire se la politica del dividi et impera degli al-Saud sia ancora attuale e soprattutto sia ancora sostenibile per la stessa stabilità del regno.