Abstract
Ripercorsa l’evoluzione storica dell’arbitrato del lavoro, vengono esaminate le recenti riforme della disciplina dell'istituto, dedicando particolare attenzione alle diverse opzioni arbitrali irrituali contemplate dal nostro ordinamento, nonché alle delicate questioni interpretative che esse tuttora sollevano.
L’arbitrato costituisce uno strumento di risoluzione delle controversie civili alternativo alla giurisdizione statale e fondato sull’autonomia privata. Nel nostro ordinamento, si distingue tra arbitrato rituale ed arbitrato irrituale o libero. Il primo è previsto e puntualmente regolato dalla legge agli artt. 806 ss. c.p.c. (v. Cavallini, C., Arbitrato rituale. Convenzione arbitrale e arbitri, in Diritto online Treccani, 2012), mentre il secondo, nato per ragioni pratiche ed in origine privo di specifica disciplina normativa, solo di recente ha ricevuto apposita regolamentazione nei suoi tratti essenziali dall’art. 808 ter c.p.c. (Cavallini, C., Arbitrato irrituale, in Diritto online Treccani, 2013).
Questa duplice configurazione dell’istituto ricorre anche in materia di lavoro, sebbene con significative particolarità, dovute al singolare percorso storico che l’arbitrato ha segnato in questo ambito.
Nel periodo tardo-liberale, nell’assenza di una disciplina specifica del rapporto di lavoro, l’arbitrato viene visto con favore, poiché costituisce uno strumento di possibile adeguamento delle regole civilistiche tradizionali alle emergenti esigenze di tutela dei lavoratori. Sulla scorta di esperienze già maturate all’estero, con la l. 15.6.1893, n. 215, viene, dunque, introdotta la magistratura probivirale in materia di rapporti di lavoro nell’industria, ovvero si consente l’istituzione di collegi privati di conciliazione ed arbitrato diretti a risolvere amichevolmente le controversie insorte tra datore e lavoratore.
Le cose cambiano radicalmente con l’impostazione rigidamente pubblicistica ed autoritaria della giurisdizione propria dell’ordinamento corporativo. L’arbitrato, soprattutto in ambito lavoristico, è visto con estremo sfavore, sicché, già abolita la magistratura probivirale, il nuovo codice di procedura civile del 1940 esclude agli artt. 806 e 808 l’arbitrabilità delle controversie in materia di lavoro.
Con l’avvento della Costituzione repubblicana, per una singolare eterogenesi dei fini, rimangono ferme le disposizioni del codice di rito appena menzionate e con esse il bando dell’arbitrato lavoristico. Diverso, però, ne è ora il fondamento, ovvero la natura indisponibile dei diritti del lavoratore.
È proprio all’interno di questa cornice, tuttavia, che riemerge in ambito sindacale il tentativo di dar nuova linfa all’istituto arbitrale ed in particolare all’arbitrato irrituale con gli accordi interconfederali del 1947, del 1950 e del 1965.
Proprio la scommessa sulla natura irrituale dell’arbitrato riesce a sottrarre le nuove clausole contrattuali agli strali della giurisprudenza, che, prendendo atto della matrice negoziale dell’arbitrato irrituale, ritiene inapplicabili i divieti codicistici poc’anzi menzionati.
Nel medesimo solco si inserisce il legislatore, che, con interventi settoriali introduce procedure arbitrali espressamente qualificate dalla legge come irrituali (o ritenute tali dall’opinione prevalente) all’art. 7, l. 15.7.1966, n. 604 in materia di licenziamenti individuali, all’art. 7, co. 6 e 7, l. 20.5.1970, n. 300 in materia di sanzioni disciplinari, all’art. 5, l. 11.5.1990, n. 108 ancora in materia di licenziamento.
La prima riforma a carattere maggiormente sistematico si ottiene solo con la l. 11.8.1973, n. 533 che persegue l’obiettivo di favorire l’accesso all’arbitrato anche in materia di lavoro, sebbene con la previsione di stretti vincoli legali diretti a salvaguardare le specifiche esigenze di tutela della parte debole del rapporto.
In sintesi, i principi di fondo a cui si ispira la riforma sono i seguenti:
- le controversie di lavoro possono essere decise da arbitri solo se ciò è previsto dalla legge o dai contratti o accordi collettivi di lavoro e senza pregiudizio della facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria;
- in ambito rituale, è fatto divieto di decidere secondo equità ed in ogni caso il lodo è sempre impugnabile per violazione di norme di legge o di contratti o accordi collettivi; in ambito irrituale, il lodo che viola le norme inderogabili di legge o di contratto collettivo è invalido ed impugnabile ex art. 2113 c.c.
Sull’assetto normativo appena sommariamente descritto intervengono, poi, ulteriori riforme. La l. 5.1.1994, n. 25 ed il d.lgs. 2.2.2006, n. 40 apportano modifiche alla disciplina generale dell’arbitrato rituale, con alcune ricadute in ambito lavoristico. Ma in questo specifico settore, maggior rilievo assumono i d.lgs. del 31.3.1998, n. 80 e d.lgs. 29.10.1998, n. 387 che per la prima volta introducono nel codice di rito procedure arbitrali irrituali per le controversie di lavoro, e soprattutto la l. 4.11.2010, n. 183 (cd. Collegato lavoro), che opera una profonda rivisitazione della previgente disciplina.
Le premesse da cui muove la menzionata riforma del 2010 sono sostanzialmente due: da un lato, la convinzione che la disciplina normativa del rapporto di lavoro sia eccessivamente rigida rispetto al mutato contesto economico (Santoro Passarelli, G., Flessibilità (dir. lav.), in Diritto online Treccani, 2014), dall’altro, il prendere atto che la crisi della giustizia civile e con essa l’eccessiva lunghezza del contenzioso lavoristico pregiudicano anch’essi l’efficienza del mercato del lavoro.
Si auspica, dunque, un ritorno alle origini, ovvero un ritorno a soluzioni stragiudiziali, che possano garantire decisioni più rapide e maggiormente adattabili al caso concreto rispetto a quelle conseguibili in sede giurisdizionale.
Il risultato è costituito da un nuovo investimento nell’arbitrato irrituale ed al contempo nella possibilità, in precedenza negata, che gli arbitri possano decidere secondo equità laddove le parti lo richiedano.
Più analiticamente, l’art. 31, co. 1-12, l. n. 183/2010 introduce ben cinque diverse modalità di devoluzione in arbitri delle controversie lavoristiche.
Alcune di queste ricevono la loro disciplina all’interno del codice di procedura civile e precisamente:
a) ai sensi dell’art. 412 c.p.c., interamente novellato, le parti del procedimento di conciliazione in sede amministrativa – oramai facoltativo – possano rimettere alla commissione la decisione arbitrale irrituale della controversia;
b) ad una soluzione arbitrale irrituale della lite si può giungere anche mediante un apposito procedimento di conciliazione ed arbitrato previsto dal nuovo art. 412 quater c.p.c.;
c) all’art. 412 ter c.p.c. è altresì previsto che i contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative possano prevedere ulteriori modalità di conciliazione ed arbitrato.
Altre via di accesso all’arbitrato rimangono nel corpo della l. n. 183/2010, ovvero:
a) l’art. 31, co. 10, ammette la pattuizione di clausole compromissorie che rinviino alle modalità arbitrali previste dai menzionati artt. 412 e 412 quater c.p.c.;
b) l’art. 31, co. 12, prevede che gli organi di certificazione ex art. 76 d.lgs. n. 276/2003 possano istituire camere arbitrali a cui rimettere la decisione in forma irrituale delle controversie di lavoro.
Va, d’altro canto, aggiunto che la riforma non incide sulle disposizioni del titolo VIII, libro IV del c.p.c., che regolano l’arbitrato rituale anche con riguardo alle controversie di lavoro, nonché sulle disposizioni che – come già evidenziato – prevedevano e tutt’ora prevedono procedure arbitrali irrituali in disparati ambiti. Inoltre, la riforma prevede l’applicabilità della nuova disciplina anche alle controversie riguardanti il lavoro pubblico privatizzato, con conseguente abrogazione degli artt. 65 e 66 del d.lgs. 30.3.2001, n. 165.
Come evidenziato (cfr. supra, § 2), le controversie di lavoro possono innanzitutto essere risolte mediante arbitrato rituale, ovvero mediante giudizi arbitrali sottoposti alla disciplina dettata dagli artt. 806 ss. c.p.c.
Al riguardo, tuttavia, l’art. 806, co. 2, c.p.c. prevede che dette controversie possano essere decise dagli arbitri «solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro».
Laddove sussista la pre-condizione appena indicata, la convenzione di arbitrato tra datore e lavoratore potrà assumere le forme ordinariamente contemplate dagli artt. 807 e 808 c.p.c., ovvero il compromesso o la clausola compromissoria. In entrambi i casi, la suddetta convenzione dovrà essere stipulata in forma scritta.
La natura rituale dell’arbitrato comporta che la decisione assunta dagli arbitri, ovvero il lodo, abbia gli stessi effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria (art. 824 bis c.p.c.), potendo anche conseguire efficacia esecutiva (art. 825 c.p.c.; Cavallini, C., Arbitrato rituale, in Diritto online Treccani, 2012).
In materia di lavoro sussistono tuttavia particolari regole con riguardo ai motivi di impugnazione per nullità del lodo. L’art. 829, co. 4, n. 1, c.p.c. dispone, infatti, che nelle controversie di lavoro l’impugnazione per violazione della legge applicabile al merito è «sempre ammessa», ovvero anche quando non sia stata espressamente disposta dalle parti. Ciò comporta, secondo una parte della dottrina, l’impossibilità di rimettere agli arbitri una decisione secondo equità. Al contempo, l’art. 829, co. 5, c.p.c. ammette anche impugnazione per violazione dei contratti o accordi collettivi.
Per quanto riguarda l’arbitrato irrituale, come già evidenziato (cfr. supra, § 1 e § 2), la stratificazione normativa avutasi nel tempo determina la coesistenza di numerose e distinte opzioni arbitrali.
Taluni profili comuni consigliano di trattare assieme i procedimenti arbitrali ex lege previsti dagli artt. 412 e 412 quater c.p.c.
Ai sensi dell’art. 412 c.p.c., in qualunque fase del procedimento di conciliazione ex art. 410 c.p.c. le parti possono investire la commissione del potere di decidere in via arbitrale la controversia. Tale accordo, vista la natura irrituale del procedimento, deve avere forma scritta ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c. È, inoltre, previsto che le parti debbano indicare il termine per l’emanazione del lodo, comunque non superiore a 60 gg. dal conferimento del mandato, ed al contempo le norme invocate dalle parti a fondamento delle loro pretese, nonché la richiesta di decidere secondo equità «nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari». L’assenza di tali indicazioni non invalida affatto l’accordo arbitrale, poiché, da un lato, il termine di pronuncia del lodo sarà comunque quello massimo previsto dalla legge e, dall’altro, il lodo sarà reso secondo diritto.
Nell’arbitrato ex art. 412 quater, l’accordo arbitrale si realizza invece «dinamicamente»: una parte notifica all’altra un «ricorso» nel quale: a) dichiara di voler addivenire alla soluzione arbitrale della controversia secondo quanto previsto dalla norma in questione; b) nomina il proprio arbitro (impropriamente definito dalla legge «rappresentante» della parte); c) indica l’oggetto della domanda con le ragioni in fatto ed in diritto su cui si fonda, le prove, il valore della controversia; d) eventualmente richiede di decidere secondo equità «nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari». L’altra parte può accettare la proposta nominando il proprio arbitro, il quale, entro 30 gg. dalla notifica del ricorso, provvede concordemente con l’arbitro nominato dalla controparte alla scelta della sede dell’arbitrato ed alla designazione del presidente del collegio, che deve essere scelto tra i professori universitari in materie giuridiche o tra gli avvocati ammessi al patrocinio davanti alla Corte di cassazione. Laddove non si raggiunga l’accordo sul terzo arbitro, provvederà il presidente del tribunale secondo le modalità previste dalla norma.
Come già anticipato, peraltro, l’art. 31, co. 10, l. n. 183/2010, disposizione tra le più controverse durante l’iter di approvazione della legge, ammette la pattuizione di clausole compromissorie che rinviino alle modalità arbitrali previste dagli artt. 412 e 412 quater c.p.c. In tal caso, dunque, al sorgere della lite le parti saranno già vincolate all’opzione arbitrale, risultando di contro preclusa la tutela delle loro pretese in sede giurisdizionale. Tale possibilità, tuttavia, è ammessa solo al ricorrere di alcuni presupposti, ovvero quando: a) tale opzione sia previamente contemplata dagli accordi interconfederali o dai contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) la clausola compromissoria sia stata, a pena di nullità, certificata dagli organismi previsti dall’art. 76 del d.lgs. n. 276/2003 con l’obiettivo di accertare, all'atto della sottoscrizione della clausola stessa, l’effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le eventuali controversie nascenti dal rapporto di lavoro; c) la clausola compromissoria sia stata pattuita e sottoscritta dopo la conclusione del periodo di prova, se previsto, oppure dopo almeno trenta giorni dalla data di conclusione del contratto. Inoltre, la clausola compromissoria non potrà riguardare le controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro. L’art. 31, co. 11, prevede, inoltre, che, in assenza degli accordi interconfederali o contratti collettivi indicati sub lett. a), trascorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore legge, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali promuova il raggiungimento dell’accordo tra le parti sociali ed in subordine provveda all’individuazione delle modalità di attuazione della disciplina appena esaminata.
Con riferimento all’opzione arbitrale ex art. 412 c.p.c., la disciplina legale del procedimento è assai scarna, limitandosi la norma a disporre con riguardo alle modalità – poc’anzi esaminate – di devoluzione della controversia agli arbitri. D’altro canto, in questa fattispecie, la decisione arbitrale costituisce uno dei possibili sbocchi del procedimento facoltativo di conciliazione previsto dall’art. 410 c.p.c., sicché è alla disciplina ivi prevista che occorre riferirsi per delineare le forme del procedimento (Alvino, I., Conciliazione [dir. lav.], in Diritto online Treccani, 2016).
Al contrario, la procedura ex art. 412 quater c.p.c. riceve dalla legge una disciplina autonoma e dettagliata – che parrebbe inderogabile – in punto di forma degli atti, poteri delle parti e termini entro debbono esercitarsi. Inoltre, nonostante l’ambigua lettera della legge, entrambe le parti dovranno essere difese e rappresentante da un avvocato. L’atto introduttivo del procedimento è il ricorso in precedenza esaminato (cfr. supra, § 4.2). Il convenuto, nel termine di 30 gg. dalla nomina del terzo arbitro, è tenuto a costituirsi nel procedimento mediante il deposito di una memoria difensiva, contenente le sue difese, le eccezioni in fatto e in diritto, le domande riconvenzionali e l’indicazione dei mezzi di prova. Il ricorrente potrà, poi, rispondere alla memoria del convenuto – entro 10 gg. dal deposito della stessa – con una memoria di replica, ma senza modificare il contenuto del ricorso. Spetterà poi nuovamente al convenuto depositare – entro un ulteriore termine di 10 gg. – una memoria di controreplica, anch’essa non modificativa delle difese spese in quella di costituzione.
Terminata la fase introduttiva ora esaminata, il collegio provvederà a fissare l’udienza di discussione secondo le modalità previste dalla legge; udienza nella quale, esperito infruttuosamente il tentativo di conciliazione, verranno interrogate liberamente le parti, ammesse ed assunte le prove, nonché discussa oralmente la causa. Entro 10 gg. dall’udienza, dovrà essere pronunciato il lodo.
Gli artt. 412 e 412 quater c.p.c. disciplinano uniformemente l’efficacia della decisione arbitrale, prescrivendo che il lodo «sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti di cui agli artt. 1372 e 2113, co. 4, c.c.».
Al riguardo, assai singolare ed ambigua è innanzitutto la richiesta di autenticazione. Sul punto, o si ritiene che detta incombenza consista in una mera certificazione rimessa agli arbitri stessi (cfr. artt. 11, co. 3, d.lgs. 4.3.2010, n. 28 e 5, co. 2 e 3, d.l. 12.9.2014, n. 132) o, laddove invece si richieda la formalità prevista dall’art. 2703 c.c., occorrerà anche ritenere che il lodo costituisca titolo esecutivo ex art. 474, co. 2, n. 2, c.p.c. a prescindere dall’exequatur (cfr. infra, § 4.6).
Il rinvio operato dalla legge agli artt. 1372 e 2113, co. 4, c.c. nel determinare l’efficacia attribuita al lodo indica, invece, che – conformemente a quanto previsto dall’art. 808 ter, co. 1, c.p.c. – la decisione arbitrale è assimilata quoad effectum al contratto e non può essere contestata ai sensi dell’art. 2113, co. 2 e 3, c.c. Se ne riceve conferma dal fatto che le norme in questione dettano una specifica disciplina in tema di motivi e giudizio di impugnazione.
Come appena evidenziato, gli artt. 412 e 412 quater c.p.c. dispongono che il lodo sia impugnabile ai sensi dell'articolo 808 ter c.p.c., ovvero – salvo quanto diremo tra breve – per i cinque motivi ivi previsti.
Le disposizioni in questione prevendono, inoltre, una specifica disciplina del procedimento di impugnazione, la cui competenza è rimessa al tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nella cui circoscrizione ha avuto sede l'arbitrato; tribunale, che decide in unico grado con sentenza ricorribile per cassazione.
L’impugnazione va proposta nel termine di termine di trenta giorni dalla notificazione del lodo. In caso di omessa notificazione, è dubbio se sia applicabile analogicamente il termine lungo previsto dall’art. 828, co. 2, c.p.c. o gli ordinari termini di prescrizione e decadenza. La soluzione pare dipendere anche dalla natura che si intende attribuire all’arbitrato irrituale e con essa all’interpretazione del primo comma dell’art. 808 ter c.p.c. nella parte in cui poco chiaramente dispone «altrimenti si applicano le disposizioni del presente titolo».
Come già evidenziato, i motivi di impugnazione sono quelli previsti dall’art. 808 ter c.p.c. o quelli ulteriori ammessi dalla giurisprudenza e dalla dottrina in riferimento al lodo irrituale di diritto comune (Cavallini, C., Arbitrato irrituale, in Diritto online Treccani, 2013), ma al riguardo – soprattutto nello specifico settore del lavoro – è assai controverso se le parti possano censurare la decisione arbitrale per la violazione delle regole di giudizio.
La questione va esaminata distinguendo due distinti profili, ovvero, prima, quello relativo alla determinazione dei vincoli che gli arbitri incontrano nella loro attività di giudizio alla luce del criterio imposto loro dalle parti e, poi, quello riguardante la verifica della possibilità di censurare il lodo laddove detti vincoli non siano stati rispettati. I due quesiti sono ovviamente connessi, ma la soluzione offerta con riguardo al primo non implica necessariamente la risposta da darsi al secondo.
Ciò detto, in sintesi estrema, le parti possono richiedere agli arbitri di decidere secondo diritto o secondo equità, sebbene – come visto – «nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari». In questa seconda ipotesi, il profilo maggiormente problematico riguarda i rapporti tra tali vincoli e le norme inderogabili del rapporto di lavoro, ovvero, semplificando, se la loro osservanza implica anche il rispetto della normativa inderogabile (Cester, C., Inderogabilità [dir. lav.], in Diritto online Treccani, 2016). Sul punto, una prima tesi – preferibile – risolve positivamente il quesito, mentre una seconda opinione si orienta in senso negativo. Chiarito questo profilo, come anticipato, occorre comprendere se la violazione delle regole di giudizio così definite possa essere spesa come motivo di censura del lodo.
La soluzione del quesito dipende innanzitutto dalla natura che si voglia in generale attribuire all’arbitrato irrituale ovvero all’attività posta in essere dagli arbitri in tale sede, cioè se si ritenga che detta attività abbia carattere dispositivo, come pare ancora orientarsi la giurisprudenza (Cass., 7.7.2016, n. 13954; Cass., 22.4.2016, n. 8182) o, come preferibilmente si orienta larga parte della dottrina, di giudizio. Se si segue la seconda opzione, la violazione delle regole di giudizio nei termini poc’anzi definiti potrà essere fatta valere ai sensi dell’art. 808 ter, co. 2, n. 4, c.p.c. Se, invece, si accede alla prima tesi, si aprono altre alternative. Secondo una prima lettura, attribuire natura negoziale al lodo irrituale lascerebbe comunque salva la possibilità di impugnarlo per violazione delle disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi (in questo senso, parrebbe porsi anche Cass., 10.7.2015, n. 14431). Secondo un’altra opzione, invece, tale soluzione sarebbe preclusa dal richiamo dell’art. 2113 c.c. compiuto dagli artt. 412 e 412 quater c.p.c. Stando a questa lettura maggiormente restrittiva, occorrerebbe distinguere tra il caso in cui i diritti in contesa siano già entrati nel patrimonio del lavoratore o al contrario la controversia riguardi diritti futuri. In questa seconda ipotesi, che ad esempio si potrebbe realizzare quando il lavoratore ha optato per la via arbitrale già in sede di clausola compromissoria (cfr. supra, § 4.2), il richiamo dell’art. 2113 c.c. non potrebbe precludere l’impugnazione del lodo per violazione delle norme inderogabili.
Al contrario di quanto previsto dalla legge con riguardo al lodo libero di diritto comune, quello irrituale pronunciato ai sensi degli artt. 412 e 412 quater c.p.c., può acquistare efficacia esecutiva al ricorrere dei seguenti presupposti alternativi: a) è decorso il termine di impugnazione del lodo; b) le parti hanno dichiarato di accettare la decisione arbitrale; c) il tribunale ha respinto l’impugnazione. Al ricorrere di detti presupposti, il lodo può essere depositato presso il tribunale della sede dell’arbitrato, affinché il giudice, accertatane la regolarità formale, lo dichiari esecutivo con decreto.
Si discute se, respinta l’impugnazione da parte del tribunale e proposto ricorso per cassazione, sia possibile ottenere la sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado ai sensi dell’art. 373 c.p.c. E ciò al fine di precludere la concessione dell’exequatur. È, inoltre, dubbio se il lodo esecutivo debba ricondursi – come pare preferibile – agli «altri atti» previsti dall’art. 474, co. 2, n. 1, c.p.c. o se l’efficacia esecutiva da attribuirgli sia quella propria dei titoli esecutivi stragiudiziali ex art. 474, co. 2, n. 2, c.p.c. (Bove, M., Titolo esecutivo [dir. proc. civ.], in Diritto online Treccani, 2017); efficacia, che peraltro dovrebbe già possedere – come visto (cfr. supra, § 4.4) – laddove sia stato autenticato ai sensi e per gli effetti dell’art. 2703 c.c. e dunque a prescindere dall’exequatur e con esso dalla sussistenza dei tre presupposti poc’anzi ricordati.
Gran parte delle considerazioni appena formulate con riguardo ai giudizi arbitrali previsti dagli artt. 412 e 412 quater c.p.c. debbono ritenersi valide in riferimento all’ulteriore ipotesi normativa contemplata dall’art. 31, co. 12, l. 183/2015.
Tale disposizione, infatti, consente l’istituzione di camere arbitrali presso gli organismi di certificazione ex art. 76 d.lgs. n. 276/2003 per la soluzione arbitrale delle controversie di lavoro ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c. ed inoltre aggiunge che ai procedimenti arbitrali in questione sono applicabili i co. 3 e 4 dell’art. 412 c.p.c., che appunto disciplinano l’efficacia vincolante ed esecutiva del lodo, nonché l’impugnazione del medesimo nei termini appena evidenziati (cfr. supra, § 4.4, § 4.5 e § 4.6).
Diverso discorso va fatto con riguardo alle altre procedure arbitrali in materia di lavoro presenti nel nostro ordinamento.
Tali procedure pongono una serie di problemi interpretativi dovuti in gran parte alla caotica e asistematica sovrapposizione di diversi interventi di riforma tra loro non coordinati.
Ancor prima di esaminare analiticamente alcune delle diverse ipotesi, occorre preliminarmente evidenziare un dubbio di ordine più in generale, ovvero comprendere se al regime di efficacia e d’impugnazione del lodo previsto dagli artt. 412, co. 3 e 4, e 412 quater, co. 10, c.p.c. possa essere attribuito un valore generale, cioè se tali previsioni possano applicarsi anche ai lodi pronunciati all’esito di altre procedure arbitrali irrituali nonostante difetti un espresso richiamo da parte della legge delle suddette disposizioni.
Se così fosse, il regime del lodo irrituale del lavoro sarebbe effettivamente uniforme. Nel caso opposto, invece, occorrerebbe di volta in volta esaminare lo specifico contesto giuridico di riferimento, tenendo da conto anche l’art. 808 ter c.p.c., che, come detto, prevede la disciplina comune dell’arbitrato libero nel nostro ordinamento.
Risponde positivamente al quesito in questione una parte, invero minoritaria, della dottrina. Ulteriori argomenti a favore di questa lettura potrebbero essere rinvenuti in alcune pronunce della Cassazione, in cui si ritiene da tempo, ovvero anche con riguardo al previgente art. 412 quater c.p.c., che il regime di impugnazione e di stabilità del lodo ivi previsto valga per tutti i lodi irrituali del lavoro all’esito di procedure ex lege o di matrice collettiva (Cass., 23.2.2006, n. 4025; Cass., 29.10.2010, n. 22173; Cass., 10.7.2015, n. 14431).
Formulati i suddetti rilievi preliminari, una prima ed ulteriore modalità di devoluzione in arbitri delle controversie lavoristiche ricorre all’art. 412 ter c.p.c., che dispone che i contratti collettivi possano contemplare ulteriori procedure di conciliazione ed arbitrato, pur limitando tale opzione a quelli sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative. La norma, poi, non chiarisce la natura – irrituale o anche rituale – dell’arbitrato in questione. Ciò potrebbe significare che, a seguito della riforma operata dalla l. n. 183/2010, tanto l’ammissibilità dell’arbitrato rituale in ambito lavoristico, già prevista dall’art. 806, co. 2, c.p.c., quanto quella dell’arbitrato irrituale, anch’essa da tempo contemplata dall’art. 5 l. n. 533/1973, imponga una previsione collettiva «qualificata», cioè stipulata da associazioni sindacali maggiormente rappresentative.
Con riguardo all’arbitrato irrituale, va inoltre preso atto che la norma non chiarisce: a) se sia ammessa la decisione secondo equità ed entro quali limiti; b) se il lodo possa avere efficacia esecutiva; c) quali siano le modalità di impugnazione. Se si ritiene, dunque, che gli artt. 412, co. 3 e 4, e 412 quater, co. 10, c.p.c. possano comunque riceve applicazione nonostante il silenzio della legge (cfr. supra, § 6.1), anche in questo ambito varranno le considerazioni addietro svolte (cfr. supra, § 4.4, § 4.5 e § 4.6). Diversamente, il procedimento sarà regolato dalla disciplina comune dell’arbitrato libero, ovvero dall’art. 808 ter c.p.c., sicché il lodo non potrà acquistare efficacia esecutiva e potrà essere impugnato secondo le regole ordinarie, ovvero innanzi al tribunale nei termini di prescrizione. Inoltre, per quel che riguarda la decisione secondo equità, nell’assenza di un espresso divieto legale, pare che tale opzione possa essere ammessa laddove ciò sia previsto dalla contrattazione collettiva.
È stato già evidenziato che la l. n. 183/2010 non è intervenuta su alcune preesistenti procedure arbitrali irrituali introdotte negli anni in diversi settori, quali, ad esempio, le procedure previste dagli artt. 7, l. 15.7.1966, n. 604, 7, co. 6 e 7, l. n. 300/1970 e 5, l. n. 108/1990. Va d’altro canto osservato che la prima opzione arbitrale è stata cancellata dalla l. 28.6.2012, n. 92 (cd. legge Fornero) ed attualmente l’art. 6, co. 2, l. n. 604/1966 si riferisce all’arbitrato con una clausola generica di mero rinvio ai procedimenti arbitrali altrove contemplati dall’ordinamento. Rimane ferma, invece, l’opzione arbitrale prevista dall’art. 5, co. 6, l. n. 108/1990 in materia di licenziamenti nelle imprese che occupano meno di 15 dipendenti. L’arbitrato in questione si ritiene comunemente abbia natura irrituale. L’art. 5, co. 6, dispone peraltro espressamente che la decisione arbitrale possa acquistare efficacia esecutiva mediante il deposito previsto dall’art. 411 c.p.c. Tale indice normativo sembrerebbe, dunque, escludere l’applicazione delle regole previste gli artt. 412, co. 3 e 4, e 412 quater, co. 10, c.p.c. (cfr. supra, § 6.1).
Un’ulteriore ipotesi di arbitrato ex lege, anch’essa non toccata dalle recenti riforme, ricorre all’art. 7, co. 6, l. n. 300/1970 in materia di sanzioni disciplinari. Anche questa procedura è da tempo ritenuta irrituale dalla giurisprudenza (Cass., 2.9.2003, n. 12798; Cass., 23.2.2006, n. 4025; Cass., 29.10.2010, n. 22173; Cass., 10.7.2015, n. 14431) ed anche in questo ambito si pongono i problemi interpretativi già evidenziati in precedenza (cfr. supra, § 6.1).
Artt. 412, 412 ter, 412 quater, 806 ss. c.p.c.; art. 7, l. 20.5.1970, n. 300; art. 5, l. 11.8.1973, n. 533; art. 5, l. 11.5.1990, n. 108; art. 31 l. 4.11.2010, n. 183.
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