Abstract
La disciplina italiana dell’arbitrato con elementi di internazionalità si è evoluta nel tempo. All’emersione di una disciplina di tale istituto, prodotta dalla l. n. 25/1994, è seguito il suo riassorbimento, disposto con il d.lgs. n. 40/2006, nella disciplina generale dell’arbitrato (art. 806 ss. c.p.c.). Ciononostante, il mezzo arbitrale per la risoluzione delle controversie nascenti dal commercio internazionale continua ad essere riconosciuto anche nel nostro ordinamento, per effetto, in particolare, di convenzioni internazionali. L’arbitrato internazionale, nella sua declinazione di arbitrato commerciale internazionale, viene dunque esaminato dal punto di vista del complesso quadro normativo ad esso dedicato, risultante dal concorso di regole recate da convenzioni internazionali e di norme interne.
Tra le caratteristiche salienti che hanno contraddistinto la riforma della disciplina italiana dell’arbitrato recata dalla l. 5.1.1994, n. 25 rilievo primario assumeva la introduzione nel c.p.c. di apposita disciplina (artt. 832-838) dedicata all’arbitrato internazionale: attraverso di essa, il legislatore aveva inteso precisare regole speciali, derogative del regime generale, applicabili in presenza di specifici elementi di estraneità (residenza o sede effettiva all’estero di una delle due parti, oppure esecuzione all’estero di parte rilevante delle prestazioni nascenti dal rapporto controverso) (v. anche Arbitrato internazionale - dir. proc. civ.). Si prevedeva, in altre parole, una forma speciale (definita «internazionale») di arbitrato disciplinato dal nostro diritto (e dunque «italiano»). In tal modo, il nostro sistema si allineava al modello “dualistico” (basato sulla compresenza di una disciplina dedicata all’arbitrato meramente interno e di altra relativa all’arbitrato internazionale) già previsto, tra l’altro, nel c.p.c. francese e nel sistema svizzero, per effetto della legge sul diritto internazionale privato del 1987, e favorito dall’apposito testo recato dalla UNCITRAL Model Law on International Commercial Arbitration del 1985.
Altrettanto appariscente, dunque, è risultata l’abrogazione di siffatto regime speciale, disposta dal d.lgs. 2.2.2006, n. 40, ancorché accompagnata, come voleva la legge-delega (l. 14.5.2005, n. 80), dalla tendenziale estensione della relativa disciplina all’arbitrato interno.
Siffatta evoluzione, per quanto segnata dal riassorbimento della figura dell’arbitrato internazionale nel tessuto codicistico dedicato all’arbitrato tout court, non ha comportato, peraltro, l’esclusione di ogni rilievo per l’ordinamento italiano di forme di arbitrato, di afflato internazionale, dei rapporti inter-privati. Queste, affermatesi sul piano delle relazioni commerciali transnazionali, sono state fatte oggetto di regolamentazione da parte di strumenti internazionali vincolanti per l’Italia e dunque hanno finito per essere oggetto di regolamentazione efficace anche nel nostro ordinamento.
A tal proposito deve segnalarsi infatti, e in primo luogo, lo sviluppo della forma arbitrale di composizione delle liti nella prassi del commercio internazionale. E siffatto sviluppo è giunto al punto di innalzare l’arbitrato a meccanismo principale di risoluzione delle controversie che mettano in gioco interessi di siffatto commercio, diventando una sorta di loro “foro naturale”, non necessariamente riferibile agli ordinamenti interni, alla luce dei benefici che ad esso normalmente si ricollegano. Attraverso la conclusione di un patto con il quale istituiscono la competenza di “giudici privati”, le parti infatti conseguono la soluzione della lite transnazionale in un foro predeterminato, neutrale, prossimo alle parti e alla volontà da queste espresse, slegato da meccanismi riferibili ad ordinamenti interni e al loro diritto. In secondo luogo, deve sottolinearsi come il riconoscimento che i sistemi domestici poi ne hanno fatto ha finito per saldarsi con tale prospettiva, garantendo anche dal punto di vista degli ordinamenti degli Stati l’efficacia delle soluzioni attraverso di esso affermate.
Il fenomeno dell’arbitrato internazionale tra privati è dunque oggetto di una duplice prospettiva di valutazione: da un lato, esso è oggetto di regole, anche organizzative, fondate sul’autonomia negoziale esercitata dalle parti e sviluppate nella prassi dei soggetti che concorrono alla sua messa in opera; dall’altro lato, esso costituisce fenomeno preso in considerazione e regolato anche sul piano interno, attraverso previsioni che, ritenute applicabili in forza di collegamento definito dallo stesso diritto interno, mirano a tutelare il patto su cui si fonda e a garantire la possibilità di esecuzione, anche coattiva, della decisione cui mira.
In tale quadro, pertanto, l’analisi del fenomeno dell’arbitrato internazionale dal punto di vista del nostro ordinamento deve passere attraverso un’analisi dell’arbitrato commerciale internazionale, quale peculiare fenomeno dotato di caratteristiche proprie, in primo luogo attraverso l’identificazione e la considerazione delle regole sovranazionali che lo disciplinano, contenute in particolare nelle convenzioni internazionali: soprattutto nella Convenzione di New York del 10 giugno 1958 e nella Convenzione di Ginevra del 21 aprile 1961. In secondo luogo, ai fini di essa è necessario considerare le norme interne, ed in particolare quelle italiane, che tale fenomeno riconoscono come efficace anche sul piano interno.
In via preliminare, peraltro, è opportuno un chiarimento di carattere terminologico. Per arbitrato internazionale si intende, ai fini dei seguenti svolgimenti e come già emerso dalle considerazioni che precedono, solo la forma di soluzione delle liti che insorgono nei rapporti del commercio internazionale. Resta dunque esclusa ogni valutazione relativa all’arbitrato internazionale in senso proprio, quale meccanismo di composizione delle controversie tra enti sovrani, soggetti del diritto internazionale pubblico, in relazione a posizioni giuridiche da queste definite (Villani, U., Arbitrato fra Stati, in Dig. pubbl., I, Torino, 1987, 338 ss.). E allo stesso modo, si tralasceranno considerazioni dedicate all’arbitrato internazionale degli investimenti, sviluppatosi con proprie procedure e secondo principi peculiari sulla base della Convenzione di Washington del 18 marzo 1965 sulla risoluzione di controversie in materia di investimenti tra Stati contraenti e cittadini stranieri (Sacerdoti, G., La convenzione di Washington del 1965 per la soluzione delle controversie tra Stati e nazionali di altri Stati in materia di investimenti, in Riv. dir. int. priv. proc., 1969, 614 ss.; Schreuer, C.H. (ed.), The ICSID Convention: A Commentary, II ed., Cambridge, 2009).
Come già sopra richiamato e sottolineato in dottrina (Luzzatto, R., Arbitrato commerciale internazionale, in Dig. comm., I, Torino, 1987, 192 ss.), la nota caratterizzante dell’arbitrato del commercio internazionale sta nella sua collocazione tipica su di un piano, anche sociale, che non coincide con quello degli ordinamenti nazionali. Come mezzo tipico di soluzione delle controversie relative al commercio internazionale, esso trova la propria disciplina primaria in quelle regole che si sono affermate negli stessi ambienti economici e sociali in cui tale rapporti si svolgono. Per quanto esso non possa, allo stato attuale di sviluppo della “comunità dei mercanti”, definirsi quale specifico istituto giuridico operante in un autonomo ordinamento giuridico da essa espresso, di problematica identificazione (Marrella, F., La nuova Lex Mercatoria. Principi UNIDROIT ed usi dei contratti del commercio internazionale, Padova, 2003, 636 ss.), l’arbitrato commerciale internazionale, per i tratti peculiari e l’importanza che di fatto ha assunto, ha finito per essere oggetto, oltre che di disciplina posta in regolamentazioni private, quali le regole arbitrali di svariate istituzioni, anche di riferimento normativo operato, e dunque di disciplina specifica recata, da strumenti internazionali: ed essi, vincolanti per gli Stati contraenti, finiscono dunque per attribuire a quei tratti peculiari un rilievo anche per gli ordinamenti interni degli Stati.
Il rilievo preminente della disciplina internazionale implica dunque un rovesciamento di impostazione rispetto a quella tradizionalmente riservata alla ricostruzione dei rapporti tra disciplina interna e regolamentazione sovrannazionale: questa, infatti, non si limita a fornire, come normalmente si intende, un diritto speciale, applicabile nell’ambito di suo specifico rilievo, derogativo della disciplina comune interna; essa, al contrario, fornisce il quadro normativo di fondo, sul quale si inseriscono le discipline interne, nella misura in cui esse forniscano, secondo la prospettiva internazionale, elementi di riferimento per il fondamento, lo sviluppo e l’efficacia dell’arbitrato – ovvero solo quando esse siano chiamate a fornirne una valutazione ai fini della messa in opera degli strumenti coercitivi, monopolio statuale.
Le condizioni di applicazione. - L’attuale sviluppo dell’arbitrato commerciale internazionale ha radici abbastanza risalenti.
Esse, infatti, possono essere rinvenute nella disciplina recata dal Protocollo di Ginevra del 24 settembre 1923 sulle clausole arbitrali e nella coeva Convenzione di Ginevra del 26 settembre 1927 sulle sentenze arbitrali straniere, ossia in strumenti che ne imponevano il riconoscimento negli Stati contraenti, per quanto sul presupposto del radicamento originario dell’arbitrato nell’ordinamento di uno di essi.
Lo sviluppo più significativo si è però realizzato con la già ricordata Convenzione di New York del 10 giugno 1958 per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere (ratificata dall’Italia senza riserve e resa esecutiva nel nostro ordinamento con l. 19.1.1968, n. 62; in vigore per l’Italia dal 1° maggio 1969) e con la Convenzione europea sull’arbitrato commerciale internazionale, firmata a Ginevra il 21 aprile 1961 (resa esecutiva in Italia con l. 10.5.1970, n. 418, e in vigore dal 1° novembre 1970). In esse, infatti, l’arbitrato commerciale internazionale viene riconosciuto, e fatto oggetto di regolamentazione, non come prodotto del diritto di uno Stato, ma come fenomeno privato, frutto dell’autonomia contrattuale, sviluppatasi con radici affondate nelle particolarità dell’ambiente commerciale internazionale.
In particolare, nella Convenzione di New York un arbitrato non è più considerato come necessariamente ed originariamente radicato in un ordinamento giuridico nazionale per poter essere oggetto della disciplina (vertente sull’efficacia delle convenzioni arbitrali e sulla circolazione internazionali dei lodi) da essa recata. Essa infatti si applica (salvo una possibilità di riserva, che comunque non intacca il principio di fondo) anche ai lodi che non sono considerati come nazionali nello Stato in cui sono invocati (e dunque agli accordi arbitrali che alla loro pronuncia mirino), a prescindere dal collegamento con un altro Stato (art. I, par. 1), e che solo per tale aspetto possono definirsi esteri rispetto allo Stato del riconoscimento.
Lo sviluppo si completa poi con la Convenzione di Ginevra. In essa, infatti, si pone direttamente una regolamentazione dell’arbitrato commerciale internazionale, inteso, secondo la norma che ne definisce il suo ambito di applicazione (art. I, par. 1), come mezzo di risoluzione delle controversie relative ad operazioni del commercio internazionale (ed insorte, ai fini dell’applicazione dello strumento convenzionale, tra soggetti appartenenti a Stati contraenti differenti). E dunque si stabiliscono in tale ambito, tra l’altro, regole sulla capacità delle persone di diritto pubblico di compromettere in arbitri (art. II), sulla capacità degli stranieri di essere arbitri (art. III), sull’organizzazione dell’arbitrato (art. IV), sui poteri degli arbitri di decidere sulla propria giurisdizione (art. V), sul diritto applicabile al merito della controversia (art. VII), sulla motivazione del lodo (art. VIII).
Sulla base di esse dunque, come si è rilevato (Luzzatto, R., Arbitrato, cit., 196), la disciplina dello svolgimento delle procedure arbitrali internazionali rimane affidata essenzialmente alla autonoma regolamentazione privata, con effetti riconosciuti anche per gli ordinamenti degli Stati contraenti.
La prima direzione in cui questo riconoscimento si compie attiene alla fonte stessa sulla quale si basa il potere di decisione degli arbitri: ossia in relazione alla convenzione arbitrale, declinata nella sua forma di clausola compromissoria, quale pattuizione che accede ad un più ampio negozio per deferire ad arbitrato le controversie dallo stesso nascenti, ovvero di compromesso, tipo contrattuale specifico inteso a rimettere ad arbitrato la soluzione di una controversia già insorta.
La Convenzione di New York, in particolare, al suo art. II, afferma i caratteri salienti del patto, impeditivo dell’esercizio della giurisdizione ordinaria e attributivo del potere di giudizio agli arbitri, stabilendo a tal fine i requisiti ai quali la sua validità, e dunque la produzione di siffatti effetti, è subordinata. Se da un lato, infatti, il suo art. II par. 1 prevede l’obbligo per gli Stati contraenti di riconoscere (con le modalità stabilite dal diritto interno) la clausola arbitrale per arbitrato estero (ossia per arbitrato non regolato dal diritto dello Stato nel quale essa è invocata), che abbia la forma scritta e riguardi una controversia suscettibile di essere risolta in via arbitrale, allo stesso tempo, la Convenzione di New York impone agli Stati contraenti anche il riconoscimento dell’idoneità della clausola a fondare la competenza dell’arbitro e i suo potere di giudizio, stabilendo regole rivolte all’arbitro stesso.
Rilievo determinante è dunque dato alla forma del patto arbitrale, che la Convenzione di New York vuole scritta (art. II, par. 1), allo scopo di garantire la esistenza e la genuinità del consenso. Con la precisazione, poi (art. II, par. 2), che per accordo scritto si intende la pattuizione inserita in un contratto firmato dalle parti o contenuta in uno scambio di lettere o telegrammi. Si stabilisce dunque una regola uniforme, idonea ad applicarsi in tutti gli Stati contraenti, al di là di regole più restrittive altrimenti applicabili. Per effetto di essa, dunque, in Italia per la validità formale del patto per arbitrato estero non è necessaria la sua specifica approvazione per iscritto, ai sensi degli art. 1341 o 1342 c.c., quand’anche la clausola sia contenuta in condizioni generali di contratto o in moduli o formulari (sul punto si è ormai allineata la giurisprudenza italiana dopo un’iniziale resistenza: cfr. ex plurimis Cass., S.U., 22.5.1995, n. 5601; Cass., S.U., 15.10.1992, n. 11261; Cass., S.U., 19.11.1987, n. 8499; Cass., 15.3.1986, n. 1765; Cass., 7.10.1980, n. 5378).
Allo stesso modo, condizione di validità della clausola (e dunque dell’obbligo dei giudici degli Stati contraenti di riconoscere l’efficacia dell’accordo arbitrale, nonché del potere degli arbitri di giudicare) è la circostanza che essa intervenga su materia «arbitrabile», e ciò in corrispondenza alla circostanza che il diritto interno degli Stati riserva, in misura varia da uno Stato all’altro, ai giudici togati il potere di decidere su determinate materie, sottratte alla disponibilità delle parti. Tale requisito, nel silenzio della Convenzione di New York, valendo quale condizione di efficacia della deroga ad una giurisdizione nazionale, dovrà essere valutata, dal giudice al quale la clausola sia opposta, ai sensi della legge la cui giurisdizione essa intenda derogare, ferma restando per il giudice adito, ma soprattutto per l’arbitro, la possibilità di valutare l’arbitrabilità della controversia anche in base a legge diversa, nel quadro del giudizio sulla idoneità dell’accordo a produrre i suoi effetti.
L’art. II, par. 3, della Convenzione di New York infatti prevede che questa venga meno – e quindi il giudice non sia obbligato a rimettere le parti all’arbitrato e, di converso, dunque, l’arbitro non abbia un potere di giudizio – quando l’accordo sia invalido, inoperante o insuscettibile di essere applicato, ossia in tutte le situazioni in cui il procedimento arbitrale non possa validamente svolgersi e condurre alla pronuncia di un lodo idoneo a risolvere la controversia. In assenza di specifiche, complessive indicazioni fornite dalla Convenzione di New York, si è ritenuto che queste condizioni debbano valutarsi secondo la lex arbitri, ossia secondo la legge in base alla quale la decisione dovrà produrre i suoi effetti (Briguglio, A., L’arbitrato estero. Il sistema delle convenzioni internazionali, Padova, 1999, 154), ovvero in riferimento alla legge applicabile all’accordo arbitrale (van den Berg, A.J., The New York Arbitration Convention of 1958, Deventer, 1981, 154 s.). Tale elemento risulta confermato dall’art. V, par. 1, lett. a), della stessa Convenzione, a mente del quale la validità (sostanziale) della clausola dovrà essere valutata (dal giudice del riconoscimento del lodo, ma sulla base di una regola uniforme, rilevante anche di fonte al giudice cui sia opposta la clausola, nonché di fronte all’arbitro) in riferimento alla legge cui le parti la hanno sottoposta, o, in difetto di scelta, alla legge del luogo di svolgimento dell’arbitrato (in cui il lodo sarà reso).
A tali regole si aggiungono, in funzione complementare, quelle stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 1961, soprattutto in funzione della disciplina dell’effetto attributivo di un potere di giudizio in capo all’organo arbitrale prodotto dalla clausola arbitrale rientrante nel suo ambito di applicazione. In tale quadro, degne di segnalazione sono soprattutto le previsioni recate dagli artt. V e VI, intese a coordinare l’esercizio della competenza ordinaria ed arbitrale sul punto del rilievo dell’esistenza di un patto di arbitrato, assicurando una sorta di “priorità” ad un giudizio da parte dell’arbitro (principio della Kompetenz-Kompetenz).
Il riconoscimento del ruolo preminente dell’esercizio dell’autonomia privata quale fonte di regolamentazione dell’arbitrato commerciale internazionale trova la sua espressione più piena nella disciplina dello svolgimento della procedura arbitrale.
A tal riguardo deve in primo luogo rilevarsi come nel panorama internazionale si siano affermati, sul piano globale, regionale e nazionale, importanti centri di arbitrato, organismi permanenti fornitori di servizi di amministrazione della procedura arbitrale secondo modelli organizzativi e procedimentali offerti dalle previsioni recate da appositi regolamenti dagli stessi curati. Tra di essi, sul piano globale, deve segnalarsi per il ruolo centrale svolto la Camera di Commercio Internazionale (CCI) e la sua Corte Internazionale di Arbitrato, con sede in Parigi, istituzione creata nel 1919 e attiva nel mondo dell’arbitrato dal 1923, operante oggi sulla base di regole di arbitrato in vigore dal 1° gennaio 2012. Ad essa può aggiungersi il riferimento alla London Court of International Arbitration (LCIA), all’Arbitration Institute della Stockholm Chamber of Commerce (SCC), all’International Centre for Dispute Resolution dell’American Arbitration Association (ICDR), al Singapore International Arbitration Centre (SIAC), al China International Economic and Trade Arbitration Commission (CIETAC), al Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS), e, nel mondo italiano, alla Camera Arbitrale di Milano (CAM). A siffatti centri di arbitrato, e alle regole contenute negli strumenti da essi adottati, le parti possono affidarsi per l’organizzazione (es., nomina dell’arbitro, giudizio sulla ricusazione, determinazione dei compensi) e la disciplina dello svolgimento del procedimento arbitrale: siffatte regole (di fonte privata) finiscono per essere applicabili nei rapporti tra le parti in virtù di sorta di recezione negoziale per relationem, e comunque sulla base e per effetto dell’esercizio di autonomia privata.
L’autonomia di organizzazione della procedura arbitrale in capo alle parti è riconosciuta anche dalle convenzioni internazionali, ed in primis dalla Convenzione di New York. In siffatto strumento, tale circostanza si manifesta in almeno due direzioni.
In primo luogo, deve segnalarsi che l’art. I, par. 2, precisa che per lodo arbitrale si intende non solo la pronuncia di arbitri designati direttamente dalle parti, ma anche la decisione resa da organi arbitrali permanenti ai quali le parti si siano sottoposte (punto confermato anche dall’art. IV della Convenzione di Ginevra).
In secondo luogo, ma soprattutto, deve indicarsi che l’art. V, par. 1, lett. d), stabilisce che il riconoscimento e l’esecuzione del lodo possano essere negati se la parte contro la quale esso è invocato fornisce la prova che la composizione dell’organo arbitrale o la procedura di arbitrato non sono stati conformi all’accordo delle parti o, in mancanza di esso, alla legge dello Stato in cui l’arbitrato ha avuto luogo. Dunque, le regole adottate dalle parti finiscono per essere unico riferimento della regolarità procedurale dell’arbitrato: non si richiede l’applicazione di una legge statale, relegata a ruolo meramente sussidiario; si esclude che la violazione della norma interna conduca al diniego di efficacia del lodo estero, se questo è stato reso all’esito di procedura svolta nel rispetto delle regole concordate tra le parti.
Le regole procedurali “private”, poi, si sono spinte a coprire ampi spazi del giudizio arbitrale. Ad es., assai ampio riconoscimento è ormai assegnato, in materia di istruzione probatoria, alle Rules on the Taking of Evidence in International Arbitration adottate dall’International Bar Association (IBA) nel 1999 e aggiornate nel 2010 (Ricci, E.F., La prova nell’arbitrato internazionale tra principio di flessibilità e regole di correttezza: una pietra miliare verso l’armonizzazione di tradizioni diverse, in Riv. arb., 2008, 311 ss.).
La disciplina procedurale dell’«arbitrato commerciale internazionale», dunque, si stacca dagli ordinamenti nazionali, per collocarsi compiutamente in una dimensione propriamente privata.
La delocalizzazione dell’arbitrato si manifesta anche in un’altra direzione, assai rilevante al momento della pronuncia del lodo, ossia in riferimento alla identificazione della legge applicabile al merito della controversia. Il rilievo della libera organizzazione dell’arbitrato, e del ruolo in tale ambito lasciato alla volontà delle parti, non più costretta al rispetto dei limiti posti dal diritto internazionale privato dello Stato, induce infatti a ritenere sussistente la possibilità per l’organo arbitrale di identificare appropriate norme di conflitto (art. VII della Convenzione di Ginevra del 1961), e, per effetto di esse, di giungere a “delocalizzare” la disciplina sostanziale di un rapporto contrattuale internazionale, sottraendolo, in tutto o in parte, alla regolamentazione statale, per sottoporlo a regole (quali la lex mercatoria, gli usi del commercio internazionale, i principi generali del diritto) con essa non direttamente identificabili.
In tale quadro, si rileva la preminenza attribuita al criterio della volontà delle parti anche ai fini della individuazione della disciplina sostanziale applicabile alla controversia. Peraltro, essa corrisponde allo scopo perseguito con la sottoposizione di una controversia commerciale internazionale ad arbitrato, che è quello di superare il conflitto tra i vari sistemi di collegamento degli ordinamenti statali ed evitare l’incertezza circa la legge da applicare alla valutazione della fattispecie controversa. Inoltre, la possibilità, attribuita alle parti, di indicare all’arbitro il diritto in base al quale valutare la controversia non è che una particolare conseguenza del carattere volontario dell’arbitrato, un modo di regolamentare specificamente l’esplicazione di quel potere di decisione che viene attribuito all’arbitro dalle stesse parti.
Sul piano di uno sviluppo ulteriore, ancorché nella stessa direzione, si pongono poi le regole stabilite da regolamenti delle istituzioni arbitrali. In particolare, significativa appare la disciplina offerta nel sistema CCI: l’art. 21, infatti, conferisce alle parti e agli arbitri la facoltà di scegliere le rules of law (regole di diritto e dunque non necessariamente una legge) applicabili al merito della controversia, e prevede che al fine di individuarle il tribunale arbitrale non sia tenuto a passare attraverso la preventiva definizione di una regola di conflitto appropriata: più semplicemente, l’organo arbitrale può individuare in via diretta le norme che ritiene appropriate. Tali aspetti realizzano uno sganciamento dell’arbitrato dal tradizionale metodo conflittualistico, con il rinvio che esso altrimenti comporta a normative sostanziali di origine statuale, e segnalano l’avvenuto riconoscimento agli arbitri di peculiari strumenti di individuazione delle norme applicabili al merito della controversia.
E tale libertà si salda con il rilievo che la Convenzione di New York non permette il riesame del merito della controversia decisa dall’arbitro. Dunque, la scelta della legge applicabile al merito della controversia finisce per essere non censurabile al momento in cui il lodo venga valutato anche dal punto di vista degli Stati contraenti, quando esso miri a conseguire efficacia (esecutiva) all’interno di essi.
I meccanismi recati dalla Convenzione di New York, uniti a quelli stabiliti dalla Convenzione di Ginevra, come detto, consentono all’arbitrato commerciale internazionale di essere riconosciuto negli Stati contraenti (e dunque anche in Italia), e ciò non solo sul piano dei concetti, portati dall’attuazione della normativa che li esprime, ma anche sul piano concreto dell’efficacia.
Oggetto principale della Convenzione di New York infatti è quello di garantire una circolazione internazionale dei lodi arbitrali, che rientrino nel suo ambito di applicazione. Dunque, la Convenzione di New York persegue uno scopo essenziale, tenuto conto del monopolio statale dei mezzi di coercizione e dell’aspettativa delle parti di ottenere attraverso l’arbitrato un giudizio concretamente efficace (Benedettelli, M., “Pensiero debole” nell’arbitrato commerciale internazionale e comunitarizzazione del diritto dell’arbitrato, in Dir. comm. int., 2012, 306). E tale scopo è perseguito con una disciplina, intesa a facilitarne la recezione negli ordinamenti interni, concentrata sulla identificazione dei motivi che la impediscano, da valutare in un quadro procedurale la cui definizione è lasciata agli Stati contraenti (art. III).
In particolare, il meccanismo introdotto dalla Convenzione di New York distingue due gruppi di circostanze ostative del riconoscimento e dell’esecuzione del lodo: nel primo rientrano quelle che sono invocabili solo dalla parte che si oppone (art. V, par. 1); al secondo sono assegnati quelli il cui ricorrere può essere rilevato d’ufficio (art. V, par. 2). Viene comunque fatta salva la possibilità di riconoscimento o esecuzione sulla base di disposizioni nazionali più favorevoli (art. VII).
Pertanto, il riconoscimento o l’esecuzione del lodo straniero sono rifiutati se la parte contro la quale il lodo è invocato prova che le parti della convenzione arbitrale erano incapaci in base alla legge ad esse applicabile oppure la convenzione arbitrale non era valida secondo la legge alla quale le parti l’hanno sottoposta o, in mancanza di indicazione a tale proposito, secondo la legge dello Stato in cui il lodo è stato pronunciato (art. V, par. 1, lett. a), o che la parte nei cui confronti il lodo è invocato non è stata informata della designazione dell’arbitro o del procedimento arbitrale o comunque è stata nell’impossibilità di far valere la propria difesa nel procedimento stesso (art. V, par. 1, lett. b), o che il lodo ha pronunciato su una controversia non contemplata nel compromesso o nella clausola compromissoria, oppure fuori dei limiti del compromesso o della clausola compromissoria (tuttavia, se le statuizioni del lodo che concernono questioni sottoposte ad arbitrato possono essere separate da quelle che riguardano questioni non sottoposte ad arbitrato, le prime possono essere riconosciute e dichiarate esecutive) (art. V, par. 1, lett. c), o che la costituzione del collegio arbitrale o il procedimento arbitrale non sono stati conformi all’accordo delle parti o, in mancanza di tale accordo, alla legge del luogo di svolgimento dell’arbitrato (art. V, par. 1, lett. d), o che il lodo non è ancora divenuto vincolante per le parti o è stato annullato o sospeso da un’autorità competente dello Stato nel quale, o secondo la legge del quale, è stato reso (art. V, par. 1, lett. e).
Il riconoscimento o l’esecuzione del lodo straniero sono altresì rifiutati allorché l’autorità competente dello Stato in cui il lodo è invocato accerta che la controversia non poteva formare oggetto di compromesso secondo la legge di questo Stato (art. V, par. 2, lett. a), o quando il riconoscimento o l’esecuzione sono contrari all’ordine pubblico (art. V, par. 2, lett. b).
La Convenzione di Ginevra interviene in tale quadro, per facilitare ulteriormente la circolazione internazionale del lodo. Il suo art. IX è particolarmente significativo, laddove incide sull’applicazione dell’art. V, par. 1, lett. e), della Convenzione di New York per rendere possibile l’exequatur del lodo annullato nello Stato di origine, quando l’annullamento risulta dovuto a motivo diverso da quelli ivi indicati. E la circostanza poi che un lodo possa essere oggetto di riconoscimento in uno Stato quand’anche sia stato annullato nello Stato nel quale, o secondo la legge del quale, è stato pronunciato (altrimenti inspiegabile, ma oggi accettata, pur sulla base di motivi differenti, in più Stati: Vallar, G., Il riconoscimento di lodi annullati nel Paese d’origine: l’approccio dei Paesi Bassi, in Riv. arb., 2012, 101 ss.) suona come ulteriore conferma dell’assunto per cui nel sistema convenzionale internazionale oggetto di considerazione è la pronuncia arbitrale in sé, a prescindere da un suo radicamento, non necessario, in un ordinamento statale.
Le esposizioni che precedono danno conto del rilievo per l’ordinamento italiano di una forma (veramente) internazionale di arbitrato (l’arbitrato commerciale internazionale): essa vive ed opera nel nostro ordinamento attraverso le convenzioni internazionali, in vigore per l’Italia e recepite nel nostro sistema, nonostante l’abrogazione della forma speciale di arbitrato (che si era definito «internazionale» ) operata con il d.lgs. n. 40/2006.
A tale indicazione si aggiungono peraltro ulteriori rilievi che mostrano come il nostro tessuto codicistico, nonostante la contro-riforma del 2006, conservi regole che direttamente o indirettamente danno conto delle peculiarità e comunque corrispondono alle aspettative delle parti di un arbitrato che presenti elementi di internazionalità.
In primo luogo, deve segnalarsi la previsione dell’art. 830, co. 2, c.p.c. in tema di esito dell’accoglimento dell’impugnazione per nullità: individuati i casi in cui, successivamente all’annullamento del lodo, la corte d’appello decide nel merito, si precisa che tuttavia, se una delle parti, alla data di sottoscrizione della convenzione di arbitrato, risiede o ha la propria sede effettiva all’estero, la corte d’appello decide la controversia nel merito solo se le parti hanno così stabilito nella convenzione di arbitrato o ne fanno concorde richiesta. In altre parole, si ritiene che, ricorrendo le menzionate circostanze di estraneità, corrisponda alle aspettative delle parti perpetuare la competenza arbitrale di merito anche successivamente all’accoglimento dell’impugnazione (ovviamente per motivi diversi da quello della nullità del patto di arbitrato).
In secondo luogo, ma in termini più generali, deve segnalarsi l’ampio spazio lasciato dal c.p.c. alla volontà delle parti nell’organizzazione della procedura, fatto ovviamente salvo l’indeclinabile rispetto del principio del contraddittorio (art. 816 bis), esercitabile anche mediante rinvio ad un regolamento arbitrale precostituito (art. 832). Essa può estendersi alla identificazione della lingua dell’arbitrato e, si ritiene, alla scelta della legge applicabile al merito.
Ne risulta pertanto un quadro in cui le particolari esigenze di organizzazione dell’arbitrato internazionale trovano una risposta in larga misura soddisfacente.
La disciplina italiana prende in considerazione l’arbitrato commerciale internazionale agli art. 839 e 840 c.p.c., che recano la disciplina procedurale dell’exequatur del lodo non italiano (ossia reso in esito ad un arbitrato non avente sede in Italia).
La procedura introdotta può essere definita a contraddittorio differito ed eventuale, e si articola in due fasi, alle quali corrispondono i due articoli: l’efficacia del lodo è dichiarata su ricorso di parte senza alcun contraddittorio, previa verifica dell’assenza di alcune condizioni ostative rilevabili d’ufficio (art. 839 c.p.c.); la parte contro la quale il lodo è invocato può proporre opposizione entro un termine di decadenza decorrente dalla notificazione della dichiarazione di efficacia del lodo, per far valere nel contraddittorio l’esistenza di circostanze che impediscono il riconoscimento o l’esecuzione (art. 840 c.p.c.). Sia le circostanze che possono essere valutate d’ufficio, sia quelle che possono essere sollevate solo dalla parte corrispondono letteralmente a quelle stabilite dalla Convenzione di New York, che viene così completata dal punto di vista procedurale: il meccanismo individuato, corrisponde in modo soddisfacente alle esigenze di corretta applicazione della Convenzione di New York ed in particolare alla presunzione di riconoscibilità del lodo su cui questa si basa; facendo salvo il controllo dei requisiti accertabili d’ufficio, impone alla parte contro la quale il lodo è invocato l’onere di attivarsi per eccepire l’esistenza delle condizioni impeditive di cui deve fornire la prova.
Della Convenzione di New York si è mantenuta anche la distinzione tra riconoscimento ed esecuzione del lodo straniero. In realtà la distinzione, importante nei casi in cui sono previsti meccanismi differenti per il conseguimento dei due effetti, è di scarsa utilità in riferimento ai lodi stranieri nel sistema della Convenzione di New York, poiché sia il riconoscimento che l’esecuzione sono disciplinati allo stesso modo: l’attribuzione di efficacia al lodo straniero in esito alla procedura introdotta dagli artt. 839 e 840 c.p.c. copre entrambi gli effetti, che risultano perciò anche sotto tale profilo indistinguibili.
Lo stretto legame con la Convenzione di New York, dimostrato persino dal punto terminologico dagli artt. 839 e 840 c.p.c., rileva anche sotto il profilo interpretativo. Questi, infatti, hanno inteso dare piena attuazione alla disciplina convenzionale: definendo la procedura, per renderla con essa compatibile, si sono confermate le condizioni cui l’attribuzione di efficacia è subordinata. La loro recezione letterale nella norma interna non deve tuttavia far dimenticare la loro origine internazionale: risultano perciò applicabili le norme internazionali relative all’interpretazione delle convenzioni di diritto uniforme ed in particolare il divieto di interpretazioni “unilateralistiche” che privilegino il ricorso a concetti definiti dalla lex fori per chiarire il senso della norma di adattamento alla convenzione internazionale. Applicando il diritto interno ai fini interpretativi, vi sarebbe altrimenti il rischio di trascurare la Convenzione di New York da cui quelle condizioni per l’esecuzione del lodo sono tratte, rinunciando a ricercare il significato unico ed obiettivo delle norme convenzionali che le pongono. Poiché i requisiti convenzionali non possono assumere significati differenti a seconda degli Stati in cui vengano di volta in volta in rilievo, particolare attenzione dovrà essere prestata, per l’interpretazione degli artt. 839 e 840 c.p.c. che li hanno recepiti, oltre che al significato risultante dal sistema convenzionale complessivo, alla luce del suo scopo e del suo oggetto, anche alla prassi applicativa, in primis giurisprudenziale, straniera.
Art. 839-840 c.p.c.; Convenzione per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, firmata a New York il 10 giugno 1958; Convenzione europea sull’arbitrato commerciale internazionale, firmata a Ginevra il 21 aprile 1961.
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