Abstract
L’arbitrato irrituale ha recentemente trovato un’espressa previsione nel quadro normativo del codice di rito. Nonostante la perdurante incertezza in merito all’inquadramento dogmatico di uno strumento, tout court negoziale, comunque preordinato a dare attuazione (e, quindi, tutela) ai diritti patrimoniali, la nuova disciplina tenta di comporre le pur ontologiche differenze con l’arbitrato rituale, innanzi tutto riconoscendo che la composizione degli interessi in conflitto per il tramite dell’arbitrato irrituale avvenga mediante un processo vero e proprio.
Diversa rimane la «natura» del lodo e gli effetti che da questo derivano, come effetti voluti dagli stessi compromittenti: in quanto «contratto», il lodo irrituale, ad esempio, non può essere omologato e riconosciuto all’estero ai sensi della Convenzione di New York del 1958.
Il legislatore della novella del 2006 (attuata con il d.lgs. 2.2.2006, n. 40, seppur con l’accusa di un eccesso di delega) ha dettato sub art. 808 ter c.p.c., perseguendo finalità sistematiche, una norma ad hoc in tema di arbitrato cd. «irrituale o improprio o libero» che, in passato privo di regolazione normativa, deve le sue origini a una remota decisione della Corte di Cassazione di Torino (Cass. Torino, 27.12.1904, in Riv. dir. comm., 1905, II, 45). La legge attribuisce ora alle parti di un rapporto giuridico, la facoltà di optare, espressamente e con forma scritta ad substantiam, per la risoluzione informale di controversie presenti o future in via alternativa, ancorché non sostitutiva – come invece accade con l’arbitrato rituale – rispetto a un giudizio ordinario. In altri termini, le parti stabiliscono, con convenzione esplicita, che le liti tra esse insorte, o che possono in futuro nascere in relazione a determinati rapporti giuridici, vengano decise da un arbitro, quale terzo giudicante, unico o collegiale, senza (necessariamente) attenersi alla regole di procedura scritte nel codice di rito, con una pronuncia, racchiusa nel lodo, avente gli stessi effetti di una determinazione contrattuale, che le parti medesime, già con la stipula del patto compromissorio, si impegnano ad accettare come espressione della propria volontà. Il risultato finale dell’arbitrato irrituale è quindi un lodo con effetto di contratto tra le parti, il che comporta, a monte, la compromettibilità dei soli conflitti che permettano una regolamentazione contrattuale ai sensi dell’art. 1321 c.c.
Alla giurisdizionalità dell’arbitrato rituale si contrappone quindi la negoziabilità di quello irrituale, espressione di una specifica opzione pattizia, in punto sia d’origine che di effetti, ché, «altrimenti» (lex dixit), in mancanza di una volontà di parte inequivoca, la fattispecie sarà regolata – esattamente al contrario di quanto interpretativamente in passato sostenuto – dalla disciplina legale dell’arbitrato rituale, senza dunque che si possa invocare la nullità, per indeterminatezza dell’oggetto, della clausola ambigua (contra: App. Firenze, 14.4.2008, in Riv. arbitrato, 2008, 376). La natura dell’istituto squisitamente sostanziale (Cass., 19.10.1963, n. 2784, in Giust. civ., 1964, I, 87), anziché processuale, ben si coglie nella circostanza che l’arbitro è qui investito del (mero) compito di stipulare, su incarico delle parti, un contratto attraverso il quale risolvere la questione controversa, analogamente a quanto le parti stesse sarebbero legittimate direttamente fare. Tanto che, soprattutto in tempi remoti, non si è mancato di argomentare come la determinazione arbitrale de qua possa anche confluire nella forma del cd. «biancosegno», ricorrente quando i compromittenti consegnino all’arbitro un documento sottoscritto in bianco, con l’autorizzazione a effettuarne il riempimento, di modo che la scrittura così completata si presenti come negozio stipulato dagli stessi interessati (Cass., 8.8.1990, in Foro it. Rep., 1990, voce Arbitrato, n. 9). La fungibilità del volere degli arbitri con quello dei compromittenti trova inoltre conferma ulteriore nella tesi che ancora riconduce l’arbitrato irrituale allo schema del «negozio per relationem», per cui la decisione degli arbitri integrerebbe la volontà delle parti, ovvero a quello del «negozio di secondo grado» – il cui concetto risale agli studi bettiani –, nel qual caso la pronuncia arbitrale si sostituirebbe alla medesima. Proprio sulla scorta di tale ultima teoria continua peraltro ad affermarsi l’inapplicabilità del principio di autonomia della clausola compromissoria nel caso di arbitrato irrituale, la quale trarrebbe quindi la sua ragion d’essere (esclusivamente) nel negozio in cui è inserita, non sopravvivendo così alle cause di nullità dello stesso (Cass., 9.4.2008, n. 9230, in Guida dir., 2008, fasc. 21, 43).
Sulla base delle elaborazioni interpretative nel tempo sviluppatesi, nonché del dato normativo attualmente in vigore, può oggi, con maggiore certezza, affermarsi che la convenzione d’arbitrato (anche) irrituale è un «un contratto che determina la nascita in capo alle parti contraenti di una situazione complessa, di carattere strumentale, finalizzata alla tutela dei diritti», mediante il quale, dunque, non si risolve alcun conflitto, predisponendosi semmai il modo per risolverlo. In particolare, l’arbitrato libero presuppone, alla stregua della nozione di cui all’art. 1703 c.c., un mandato, senza necessità di rappresentanza, conferito congiuntamente da una pluralità di parti (minimo due) a uno o più arbitri(Cass., 5.7.2012, n. 11270, in Foro it. Rep., 2012, voce Arbitrato, n. 64) e preordinato alla stipula di un accordo contrattuale, il cui oggetto può essere avvicinato a una composizione amichevole, conciliativo-transattiva della lite o a un negozio di accertamento (Cass., 1.4.2011, n. 7574, in Foro it. Mass., 2011, 286). E, in quest’ultima ipotesi, la possibilità di porre in essere una dichiarazione ricognitiva o enunciativa della situazione giuridica preesistente si fonderebbe sul principio dell’autonomia privata sancito dall’art. 1322 c.c. La disponibilità, da parte dell’arbitro irrituale, del diritto da accertare incontra pertanto i medesimi confini imposti dall’ordinamento alla libertà dei singoli, posto che il potere (appunto) dispositivo arbitrale, nei limiti del mandato conferito, è identico a quello spettante alle parti. Il predetto avvicinamento (o astratta assimilazione) non significa però una perfetta identificazione, posto che l’arbitrato irrituale può non limitarsi a cristallizzare, come il negozio di accertamento, una situazione già in essere, comportando piuttosto addizioni alla fattispecie giuridica compromessa. Escludendosi inoltre, da un lato, che l’arbitrato irrituale, alla stregua di una composizione amichevole, importi l’accoglimento di tutte le pretese di una sola parte e, dall’altro, che il medesimo obblighi sempre a procedere a un aliquid datum, aliquid retentum, come invece vorrebbe implicare una soluzione transattiva, la definizione preferibile, qualificante l’arbitrato libero (che, per quanto ex lege previsto, ancora fatica a trovare tipizzazione), è quella di mandato congiunto a comporre la controversia insorta, mediante un negozio compositivo, da porre in essere nel termine stabilito dalle parti, pena l’estinzione del mandato per scadenza del termine ex art. 1722, n. 1, c.c. (Cass., 3.1.2001, n. 58, in Nuova giur. civ. comm., 2002, I, 6), oppure, in difetto di previsione pattizia, entro il tempo stabilito dal giudice ai sensi dell’art. 1183, co. 1, c.c. (Cass., 27.9.1997, n. 9509, in Foro it., 1997, I, 3447), ove non si voglia ritenere applicabile la disciplina dettata dall’art. 820 c.p.c. per l’arbitrato rituale – da reputarsi invero maggiormente coerente e di più facile impiego. In ogni caso, per la pronuncia del lodo-negozio non si applicherà la sospensione feriale del termine.
Il primordiale intendimento degli arbitri quali «amichevoli compositori» ex bono et aequo deve oggi ritenersi superato, sull’evidenza che gli stessi, (pur) traendo la propria legittimazione da una convenzione d’arbitrato irrituale, (nondimeno) giudicano sulle contrapposte pretese delle parti, applicando, di regola – ove sia mancata una scelta delle parti a decidere secondo equità – norme di diritto, (anche) senza le formalità di legge. In ciò, del resto, può altresì consistere l’autonomia privata, dovendosi quindi superare quell’orientamento – comunque minoritario – per il quale la decisione secondo diritto sarebbe (addirittura) incompatibile con l’arbitrato irrituale, essendo prevista dall’art. 822 c.p.c. per il solo arbitrato rituale. Pertanto, al pari di quello rituale, pure l’arbitrato irrituale comporta, chiaramente, una deroga all’esercizio giurisdizionale da parte dell’autorità giudiziaria statale, il che implica, come corollario, l’applicabilità degli artt. 1341 e 1342 c.c. alla clausola contenente il relativo patto compromissorio (contra: Collegio arbitrato Milano, 2.9.2009, in Riv. arbitrato, 2010, 375), nonché la soggezione di quest’ultimo al regime di vessatorietà ex artt. 35 e 36 c. cons., quando interviene tra professionista e consumatore. Si è dunque di fronte a giudizio tutto privato. “Tutto” perché ne è investito anche lo status delle parti compromittenti, data la preclusione alla pubblica amministrazione della possibilità di avvalersi, per la risoluzione di controversie derivanti da contratti conclusi con privati, dello strumento arbitrale in commento (Cass., S.U., 16.4.2009, n. 8987, in Riv. dir. proc., 2010, 215).
Proprio il carattere di «giudizio privato» consente di meglio distinguere l’arbitrato libero da altri istituti solo apparentemente affini, quali l’arbitraggio, per mezzo del quale le parti conferiscono al terzo arbitratore il compito di determinare, di regola con equo apprezzamento, uno degli elementi del contratto in formazione, risolvendo così un mero conflitto di interessi, senza invece che ad esso venga attribuito alcun potere decisorio su questioni controverse; ovvero la perizia contrattuale, che si risolve in constatazioni o accertamenti su questioni tecniche e non già giuridiche, svolti dal terzo in base alla propria capacità e accettati preventivamente dalle parti che si impegnano a rispettare il nuovo assetto di interessi determinato dal perito; o ancora la mediazione o conciliazione, le quali compongono sì un conflitto, ma senza l’instaurazione di un giudizio.
La natura contrattuale dell’arbitrato irrituale – attivabile da qualunque atto di parte, purché recettizio e inequivoco, trascrivibile ai sensi dell’art. 2645 bis c.c. alla stregua di un contratto preliminare e avente effetto interruttivo della prescrizione ex art. 2943, co. 4, c.c. – non esclude quindi, alla luce di quanto sopra scritto, che la composizione degli interessi in conflitto avvenga proprio attraverso un processo, implicante una cognizione degli elementi di fatto e di diritto della controversia dedotta, nel rispetto delle regole del giusto procedimento, culminante, previa attività istruttoria, in una decisione adottata da un terzo imparziale. Da qui, allora, la reductio ad unum del fenomeno processuale d’arbitrato, raggruppante le due tipologie, rituale e irrituale – species dunque dell’unico genus –, accomunate dalla medesima causa di risoluzione della lite, da una procedimentalizzazione sempre presente, ancorché con gradi diversi che ne accentuano o meno il rigore, nonché dalla tipizzazione dei motivi di impugnativa del lodo. Il vero distinguo deve dunque ravvisarsi esclusivamente nell’essenza degli effetti voluti dalle parti che, a sua volta, si riflette sull’efficacia stessa del lodo (Cass., S.U., 5.12.2000, n. 1251, in Giust. civ., 2002, I, 339).
È subito a dirsi che la natura del lodo d’arbitrato irrituale non si discosta affatto da quella propria di una pronuncia d’arbitrato rituale, risolvendosi infatti, in entrambi i casi, nella medesima forza di legge che compete a tutti i contratti stipulati dalle parti ai sensi dell’art. 1372 c.c. Tuttavia, solo il lodo reso in ossequio alla regole del rito – e non già alla libera determinazione privata –, in quanto l’unico ad avere funzione giurisdizionale, può ottenere l’esecutorietà attraverso l’omologazione. La scelta dell’arbitrato irrituale comporta infatti, per volere stesso di legge, una deroga all’art. 824 bis e, conseguentemente, al successivo art. 825 c.p.c., palesandosi con essa l’intenzione pattizia di escludere quell’efficacia di sentenza divenuta ex lege propria del dictum degli arbitri rituali, suscettibile di essere reso esecutivo e trascrivibile. Tanto sono diversi gli effetti perseguiti dai compromittenti, che neppure l’erronea esecutorietà concessa al lodo irrituale vale ad originare un lodo rituale. L’applicazione delle regole proprie del lodo-sentenza è quindi inequivocabilmente esclusa per il lodo-contratto, con la conseguenza che la possibilità di attuare il diritto (in un qual senso) «giudicato» dall’arbitro irrituale è rimessa esclusivamente al buon comportamento delle parti, occasionando diversamente una nuova controversia sull’esecuzione della determinazione arbitrale rimasta inadempiuta, come se una delle parti venisse contra factum proprium. Quale ulteriore corollario discende altresì che il lodo contrattuale non può essere riconosciuto all’estero nelle forme della Convenzione di New York del 1958, risultando piuttosto destinato a circolare come semplice atto negoziale. Non è infatti possibile che il medesimo acquisti in un ordinamento diverso da quello d’origine un’efficacia maggiore di quella che gli è per sua natura attribuita, a fortiori se si pensa che le regole pattizie sono prive della forza di trasformare il lodo in un comando di coercibilità pari a una sentenza.
L’ontologica distinzione tra le due figure di arbitrato processuale, basata sull’assolvimento o meno di una funzione giurisdizionale, incide anche sul tipo di eccezione eventualmente sollevabile, in pendenza di giudizio arbitrale, davanti all’autorità giudiziaria ordinaria. Questa, infatti, nel caso di arbitrato irrituale non potrà essere di incompetenza, come per quello rituale, bensì di improcedibilità della domanda giudizialmente proposta. In quanto (comunque) preordinata alla deduzione dell’esistenza di un presupposto processuale negativo, si tratterà di un’eccezione di rito, da far valere in ogni momento – ferme le possibili preclusioni nascenti dalla incompatibilità con la volontà di avvalersi del patto compromissorio –, nonostante si sia tradizionalmente sostenuto che l’eccezione con la quale si ponga in dubbio l’estensione, se non l’esistenza stessa, di una clausola compromissoria per arbitrato irrituale, contestando la proponibilità della domanda giudiziale – per aver i contraenti scelto la risoluzione negoziale della controversia con rinuncia alla tutela giurisdizionale –, non avrebbe natura processuale, bensì sostanziale e introdurrebbe quindi una questione preliminare di merito, non rilevabile d’ufficio (Cass., 27.3.2007, n. 7525, in Foro it. Mass., 2007, 753). È in ogni caso a dirsi che il giudice ordinario dovrà essere adito, con contestuale arresto del procedimento arbitrale, in ordine al contenuto e agli effetti del patto compromissorio da cui discendono i poteri dell’arbitro irrituale, essendo a questo inibito – a differenza di quanto è affermabile nel contesto dell’arbitrato rituale – di pronunciarsi sulla propria «competenza», e ciò in ragione della qualità di mandatario che lo caratterizza (contra: App. Torino, 2.7.2010, in Foro pad., 2011, I, 82, secondo cui gli arbitri irrituali avrebbero il potere di esaminare anche la validità ed efficacia della clausola compromissoria dalla quale trae origine l’arbitrato irrituale). Un dubbio può semmai porsi sulla necessarietà della contemporanea deduzione della controversia sostanziale davanti al giudice statale, ai fini dimostrativi dell’interesse ad agire.
La funzione non giurisdizionale dell’arbitrato irrituale esplica inoltre riflessi pure sulla struttura stessa del processo, la quale, a dispetto di quella di rito, non si configura necessariamente di stampo giudiziale, risultando piuttosto rimessa alla scelta delle parti la determinazione dei caratteri relativi, all’unica e imprescindibile condizione, però, che sia sempre garantito il rispetto del principio del contraddittorio. Pertanto, il procedimento deve svilupparsi nelle forme vincolanti declinate nel patto d’arbitrato o, eventualmente, in quelle che il giudicante reputa maggiormente confacenti alla fattispecie, purché mai non manchi la garanzia della parità dei poteri esplicativi del diritto di difesa, implicante la possibilità di rappresentare la propria posizione e di conoscere compiutamente quella altrui, ancorché al di fuori del rigore di fasi progressive, non imbrigliante in tempi e modi determinati l’attività assertiva e deduttiva di parte (Cass., 8.9.2004, 18049, in Foro it., 2005, I, 1768). Nel rispetto di tali prerogative non sussistono peraltro neppure ostacoli per il tanto discusso accesso alla tutela cautelare proprio in presenza di un arbitrato irrituale, tanto che l’art. 669 quinquies c.p.c. ne dà espressamente conferma (sulla scia di quanto implicitamente già affermato da C. cost., 5.7.2002, n. 320, in Dir. giust., 2002, fasc. 32, 58), restando tuttavia aperta la questione se, perlomeno dinanzi al silenzio delle parti, debbano (in quanto possano) trovare applicazione le norme del codice di rito per il procedersi del giudizio. Al riguardo viene infatti evidenziato un difetto di coordinamento tra la concessione della tutela cautelare e, per tacer altro, le fasi del procedimento arbitrale, specialmente per ciò che concerne la sorte del provvedimento cautelare conservativo al momento dell’emanazione del lodo che, in quanto libero, è inidoneo ad acquistare efficacia esecutiva. Da qui, la tendenza dottrinale, seppur da taluno tacciata, a sostenere l’applicabilità all’arbitrato irrituale della sola tutela cautelare anticipatoria, in quanto l’unica a poter essere svincolata da un giudizio di merito. In effetti, a discolpa delle critiche inferte a tale pensiero, non si può non prender atto che norme quali gli artt. 669 quinquies c.p.c. e 35 d.lgs. 17.1.2003, n. 5 (in tema di arbitrato societario) siano state formulate proprio per supplire alla carenza in capo agli arbitri irrituali del potere di concedere sequestri, di talché estromettere la cautela conservativa sarebbe quasi contra legem.
Appare dunque innegabile la progressiva procedimentalizzazione cui è sottoposto l’arbitrato irrituale, diventato forse meno libero di quel che si predica e differenziandosi da quello rituale più per l’epilogo del procedimento che per lo svolgersi di esso (Cass., 12.10.2009, n. 21585, in Foro pad., 2010, I, 227), tant’è che è apparso più corretto parlare in termini di «arbitrato contrattuale» per via degli effetti che il lodo produce. L’irritualità non risulta infatti più un tratto distintivo dell’istituto e, in tale prospettiva, viene quasi (se non del tutto) a sfumare la persistente assimilazione dell’atto del terzo (i.e. arbitro) ad atto di volontà dei compromittenti, piuttosto funzionalmente riconducibile a un atto decisorio, produttivo di effetti giuridici conformi (non già al volere di chi lo pone in essere, bensì) allo scopo istituzionalmente attribuitogli, ovverosia la definizione della controversia su posizioni giuridiche sostanziali tramite un giudizio ricognitivo delle ragioni delle parti. Anche l’arbitrato improprio, quindi, diviene, sotto più di un profilo, «ritualizzato», e non solo al fine di assolvere quelle garanzie processuali minime, condensate nell’invocato principio del contraddittorio (anche qui di applicazione necessaria) e prescritte per legge a pena di «annullamento» del lodo. Non stupisce allora, nonostante più voci dissonanti, che le norme sul procedimento dettate per l’arbitrato rituale siano reputate tendenzialmente estendibili anche a quello irrituale, ad eccezione delle disposizioni ontologicamente incompatibili ed espressamente derogate dalle parti. Non si tratterebbe in particolare di una trasposizione indiscriminata, ma di un’applicazione (analogica), previa singola e accorta valutazione.
Per fare qualche esempio, basti pensare che, ove sia mancata la designazione dell’arbitro ad opera di parte, trova spazio la nomina giudiziale prevista dall’art. 810 c.p.c. per l’arbitrato rituale (Cass., S.U., 3.7.1989, n. 3189, in Giust. civ., 1990, I, 1180). Anche il lodo-contratto, poi, non può sottrarsi alla duplice regola di validità sancita dall’art. 823 c.p.c., richiedente, da un lato, la redazione in forma scritta (anche qui) ad substantiam – già peraltro da reputarsi, eventualmente, necessaria ai sensi dell’art. 1350 c.c., cui si aggiunge anche la disciplina del seguente art. 1352 sulle forme convenzionalmente stabilite – e, dall’altro, la sottoscrizione a cura della maggioranza degli arbitri decidenti. Ancora, indubbia è l’imparzialità pure dell’arbitro irrituale, frutto di un’equidistanza sostanziale e formale rispetto alle parti compromittenti. Ma è la stessa lettera di legge contenuta nell’art. 808 ter c.p.c., quando parla espressamente di «procedimento arbitrale», «contraddittorio», «eccezione», «conclusioni», «definizione della controversia» e «pronuncia», che, deponendo nel senso di una (quasi) perfetta sovrapposizione tra la struttura dell’arbitrato libero e quella dell’arbitrato rituale, in entrambi i casi di carattere processuale, legittima l’interprete ad invocare, ove non diversamente previsto, pure nel contesto de quo, il contenuto espressonelle norme codicistiche.
L’atteggiarsi a vero e proprio giudizio dell’arbitrato irrituale è altresì palesato dalla necessità – e non già mera opportunità – di motivazione della decisione arbitrale. L’enunciazione delle ragioni sottese alla pronuncia del lodo-contratto, seppur non sempre e univocamente supportata, deve infatti reputarsi indispensabile, in quanto, se dal punto di vista sostanziale (anche in virtù dell’art. 1374 c.c.), consente alle parti di verificare la diligenza spiegata dal mandatario nell’esecuzione dell’incarico, sotto il profilo processuale, permette la ricostruzione dell’iter logico-giuridico seguito nella composizione (rectius, definizione) della controversia, cosicché l’assenza assoluta di motivazione del lodo irrituale sarà in grado di inficiarne proprio la validità. Anche qui allora si è invocato il rispetto dei requisiti stabiliti dall’art. 829 c.p.c., in mancanza di prescrizione di parte, in quanto compatibili con la natura e la struttura dell’arbitrato irrituale (Cass., 29.1.1996, n. 655, in Riv. arbitrato, 1996, 289).
Attualmente, è comunque lo stesso l’art. 808 ter, co. 2, c.p.c. che si preoccupa di esplicitare i casi di invalidità del lodo contrattuale. In particolare l’esito del procedimento d’arbitrato irrituale risulta ex lege annullabile, nel solito termine prescrizionale di cinque anni (prevedendosi motivi di stretto annullamento e non già di nullità) per: vizi del patto compromissorio; mancato rispetto dei limiti oggettivi di esso, a cui non è estranea neppure la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, tradotta nel vizio di ultrapetizione, purché l’esorbitanza del lodo rispetto alle conclusioni delle parti sia sollevata nel corso del procedimento arbitrale e, conseguentemente, oggetto di pronuncia, di talché la mancata eccezione sana il vizio del lodo ex ante; violazione delle forme e dei modi di nomina degli arbitri stabiliti convenzionalmente dalle parti, nella quale non sembrerebbe però rientrare la mancanza di imparzialità dell’arbitro che può rilevare solo in caso di tempestiva ricusazione, qui da tradursi come revoca del mandato; incapacità legale di agire di chi ha ricevuto il mandato ad arbitrare (da intendersi al momento della pronuncia del lodo); disattenzione da parte degli arbitri delle regole pattizie imposte come condizione di validità del lodo, così di fatto ampliandosi in modo indefinito lo spettro dei motivi di impugnazione del lodo contrattuale; da ultimo, per qualsiasi tipo di negazione, purché concreta, del principio costituzionale del contraddittorio che abbia avuto effettive ripercussioni sul diritto di difesa della parte e, quindi, sull’esito della decisione. La violazione di detto principio pare quindi ora rilevare come vizio del procedimento e non già quale inosservanza del contratto di mandato, tale – comunque – da inficiare la determinazione arbitrale ai sensi dell’art. 1429 c.c., così come in passato sostenuto (Cass., 9.8.2004, n. 15353, in Giust. civ., 2004, I, 2557).
I menzionati motivi di impugnativa, a quanto pare limitati alle sole ipotesi di annullabilità, che pure – già di per loro – riecheggiano talune previsioni di cui all’art. 829 c.p.c. sulla nullità del lodo rituale, lasciano però il dubbio in merito all’esaustività degli stessi, da risolversi, qui si ritiene, negativamente, alla luce dell’asserita natura negoziale del lodo. La peculiarità è infatti che l’oggetto d’impugnazione, in quanto contratto, è sindacabile, secondo le ordinarie regole di prescrizione, davanti al giudice competente di primo grado in ossequio alle disposizioni del libro I del codice di rito – risultando invece inammissibile il ricorso straordinario in Cassazione ex art. 111 Cost., non integrando il lodo irrituale, neppure sostanzialmente, un provvedimento giurisdizionale – in primis per i vizi tipici degli atti negoziali. All’uopo occorre ovviamente tener presente che la pronuncia dell’arbitro irrituale è il risultato di una fattispecie complessa costituita da un negozio-fonte (il mandato) e da una determinazione arbitrale, rappresentante l’adempimento del mandato ricevuto. Di talché, saranno esperibili impugnative che riguardino entrambi i menzionati elementi costitutivi, con l’avvertenza che l’invalidità o la violazione del patto compromissorio avrà implicitamente un effetto caducante sulla determinazione contrattuale raggiunta per via arbitrale. In particolare, risulta ascrivibile all’inosservanza del negozio-fonte (anche) ogni ipotesi in vario modo riconducibile all’«eccesso di mandato», da distinguersi peraltro dall’abuso relativo, concretandosi quest’ultimo nel scorretto impiego del diritto applicabile e, come tale, non costituente errore sindacabile, inficiante la riferibilità ai compromittenti della determinazione arbitrale, ma fonte esclusiva di responsabilità degli arbitri (Cass., 13.12.2009, n. 3637, in Giust. civ., 2010, I, 1228). Quanto ai vizi incidenti sulla manifestazione di volontà negoziale degli arbitri, nonostante l’attuale previsione dell’art. 808 ter c.p.c., non contemplandone l’ipotesi, sembri (ma solo) apparentemente escluderla, per limitare l’attenzione all’«errore» quale causa di annullamento del lodo, è da reputarsi «rilevante» non solo quello di fatto revocatorio, che ricorre in presenza di una falsa rappresentazione della realtà, attinente agli elementi della controversia da comporre, i quali dunque possono essere stati, se presenti, trascurati o, in caso contrario, supposti esistenti, ovvero considerati pacifici ove invece contestati o viceversa, con conseguente stravolgimento della deliberazione arbitrale. Dovrebbe infatti trovare margini di sindacabilità pure l’errore di giudizio, considerata la struttura processuale, seppur de-formalizzata, propria dell’arbitrato anche libero. Pertanto, il lodo irrituale – così definito esclusivamente alla luce degli effetti perseguiti dai compromittenti, e quindi a prescindere dalla qualificazione ad esso attribuita dall’arbitro che lo pronuncia –, in quanto espressione di un giudizio privato, motivato, diviene suscettibile di impugnazione anche per vizi logici, ferma la responsabilità dell’arbitro mandatario per il (mancato) diligente adempimento delle proprie obbligazioni, da commisurare rispetto alla particolare natura dell’incarico conferito. Resta invece ancora di dubbia interpretazione la sindacabilità del lodo irrituale per errore di diritto, ammessa dalla giurisprudenza solamente nella misura in cui si traduca in una scorretta valutazione circa l’esistenza o meno di una norma giuridica (Cass., 14.7.2004, n. 13114, in Giur. it., 2005, 783). Trattasi invero di un motivo di annullamento affatto trascurabile (non solo, ma soprattutto) laddove i compromittenti abbiano vincolato gli arbitri a pronunciarsi secondo l’applicazione di un dato complesso normativo, indi per cui l’error in iudicando rileverà, se non in quanto tale, certamente quale violazione di un espresso mandato delle parti. Non può infine tacersi la possibilità indiscussa del terzo, estraneo al patto compromissorio – e impossibilitato ad intervenire in assenza di un accordo unanime delle parti volto a modificare la struttura del mandato –, ma pregiudicato dalla determinazione contrattuale del lodo, di attivare un’azione giudiziale di accertamento negativo preordinata al travolgimento degli effetti della pronuncia. Ecco allora che si trova conferma per ammettersi, già a monte su un piano generale, una revisione di sostanza del lodo, non limitata dunque soltanto agli aspetti formali, da parte del giudice di merito. Ciò chiaramente non significa una riscrittura del lodo-contratto ad opera dell’a.g.o., ma una caducazione, integrale o parziale, dei suoi effetti, a seguito della quale le parti, se lo ritengono, dovranno dar luogo a un nuovo arbitrato, fatta salva l’ipotesi di nullità radicale del lodo per non compromettibilità della materia. Nel qual caso, su espressa domanda di parte, il giudice ben potrà scendere all’esame anche del merito.
Si deve altresì prender atto della frammentazione dell’arbitrato irrituale in distinti modelli, ciascuno assoggettato a una propria disciplina, implicante pure differenti e peculiari regimi impugnatori. Urge pertanto un coordinamento tra la norma generale di cui all’art. 808 ter c.p.c. e le rilevanti disposizioni settoriali, delle quali è sufficiente, a titolo esemplificativo, menzionare quelle in materia societaria e di lavoro, soprattutto, nel secondo caso, alla luce delle modifiche introdotte dalla l. 4.11.2010, n. 183, sub artt. 412 e 412 quater c.p.c. È stato infatti previsto che, in qualunque fase del tentativo di conciliazione ovvero nel caso in cui questo si concluda negativamente, le parti possono indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano e rilasciare mandato alla commissione di conciliazione affinché sia essa a risolvere in via arbitrale la controversia laburistica. Inoltre, ferma restando la facoltà di ciascuna delle parti di adire l’autorità giudiziaria e di avvalersi delle procedure di conciliazione e di arbitrato previste dalla legge, è stabilito che le controversie di cui all’art. 409 c.p.c. possano essere altresì proposte innanzi a un collegio di conciliazione e arbitrato irrituale, in ossequio alle previsioni a riguardo dettate, benché forzanti oltremodo proprio il carattere irrituale dell’arbitrato libero invocato.
Va evidenziato come, in entrambe le ipotesi, la legge non ha mancato poi di esplicitare che il lodo, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti di cui all’art. 1372 c.c., ossia gli effetti del contratto, che ha tra esse forza di legge e non può essere sciolto se non per mutuo consenso o per cause tipicamente ammesse, nonché le conseguenze disciplinate dall’art. 2113, co. 4, c.c., dal quale deriva, in particolare, l’esclusione dell’impugnabilità del lodo-contratto qualora abbia comportato rinunce e transazioni da parte del lavoratore a diritti derivanti da disposizioni inderogabili di legge, contratti o accordi collettivi e afferenti al rapporto individuale di lavoro. Al di fuori di detta ipotesi, il lodo è sindacabile ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c. da parte del tribunale nella cui circoscrizione ha sede l’arbitrato, in unico grado e in funzione di giudice del lavoro. Decorso il termine perentorio per presentare ricorso o se le parti hanno dichiarato di accettare la decisione arbitrale oppure se il ricorso stesso è stato respinto, il lodo è depositato nella cancelleria del predetto tribunale affinché il giudice, su istanza di parte, accertatane la regolarità formale, lo dichiari con proprio decreto esecutivo.
È allora evidente che, ferme le tutt’ora innegabili distinzioni sul piano dogmatico tra l’arbitrato rituale e (anche) questo arbitrato irrituale, i risvolti pratici che le nuove norme originano paiono proprio rifiutare un’etichetta già da tempo in discussione, ormai non più coerente con ciò che rappresenta, riconducendo i differenti modelli arbitrali tipizzati ad una sola specie di arbitrato rituale.
Artt. 412, 412 quater c.p.c.; artt. 808 ter, 822, 823, 824 bis, 825, 829 c.p.c.; art. 669 quinquies c.p.c.; artt. 1183, 1321, 1322, 1350, 1352, 1372, 1374, 1429, 1703, 1722, 2113, 2645 bis, 2943 c.c.; art. 35 d.lgs. 17.1.2003, n. 5; artt. 35, 36 d.lgs. 6.9.2005, n. 206 (c. cons.); Convenzione di New York del 1958 per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere.
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