Arbitrato. La clausola compromissoria nel 'collegato lavoro'
La l. 4.11.2010, n. 183 (cd. collegato lavoro) ha introdotto, fra l’altro, la possibilità che, a determinate condizioni, venga inserita nel contratto individuale di lavoro una clausola compromissoria per arbitrato irrituale. Partendo dai rilievi mossi dal Presidente della Repubblica nel suo messaggio di rinvio alle Camere del 31.3.2010 alla prima stesura della disposizione, vengono in questa sede esaminati i diversi profili critici, anche di rilevanza costituzionale, che l’applicazione di questa disposizione fa emergere con riferimento alla «riduzione dei diritti» del lavoratore dipendente. Tanto più se si considera l’utilizzabilità nel contratto individuale anche di clausole compromissorie di equità. Peraltro, la circostanza che la clausola compromissoria non sia utilizzabile per le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro indirettamente dimostra che per lo stesso legislatore la «giustizia privata» offre al lavoratore dipendente minori garanzie rispetto a quella ordinaria.
Vogliamo seguire l’ammonimento spinoziano, anche se ci rendiamo conto che molto spesso, e sicuramente in questo caso, intelligere è arduo. Una corretta comprensione del significato complessivo della recente l. 4.11.2010, n. 183 (cd. collegato lavoro) nella sua parte di maggior rilievo, costituita dalla modifica della disciplina dell’arbitrato «irrituale», esige l’inserimento in un contesto di fatti più vasto. Mi riferisco all’atteggiamento di forte critica dell’attuale classe dirigente del nostro Paese nei confronti della Costituzione vigente. Non si tratta soltanto delle dichiarazioni di importanti esponenti politici che in numerose occasioni hanno tacciato la Carta fondamentale di essere «sovietica», nel suo proclamare la Repubblica fondata sul lavoro, anziché sull’impresa. Manifestazioni di folclore istituzionale, comunque di notevole interesse, perché sintomo di un clima. Si tratta anche di iniziative precise. A cominciare dalla riforma costituzionale della giustizia che, per come è stata pensata, avrebbe un influsso indiretto, ma importante, anche sulla giustizia del lavoro. E a finire con le proposte, sinergicamente connesse, di riforma di due capisaldi della prima parte della costituzione, come l’art 1. e l’art. 41. La prima proposta tende a sopprimere i contrappesi che impediscono la «tirannide della maggioranza» che, come insegnano gli studiosi della democrazia, costituisce l’anticamera del nuovo dispotismo basato sul consenso1. La seconda va nella direzione di lasciare briglia sciolta agli «spiriti animali» dell’iniziativa privata, indebolendo il vincolo dell’utilità sociale all’attività d’impresa. Fin troppo ovvio che ci troviamo di fronte a manifestazioni dell’ideologia neoliberista che ormai da quasi vent’anni anima in molti settori (non in tutti, ad esempio non nel settore delle professioni) l’azione di governo e le sue iniziative legislative2. Accompagnata da profonde venature populiste3. Tuttavia, come ben sappiamo, le procedure di modifica della Costituzione sono complicate, di esito incerto e richiedono il referendum popolare confermativo se non viene raggiunta in Parlamento la maggioranza dei due terzi. Ecco allora che il legislatore ordinario cerca sempre più spesso strade indirette e a volte tortuose per affermare la sua visione della società4, nell’intento di evitare uno scontro immediato e palese con alcuni principi fondamentali affermati dalla Costituzione, e in particolare con l’art. 3, co. 2, che addita allo Stato il compito di attivarsi per superare le disuguaglianze sostanziali tra i cittadini. Il collegato lavoro si inserisce in modo alquanto equivoco in questo indirizzo. Ma prima di tentarne la dimostrazione vogliamo sottolineare che, di fronte a questi, che sono fatti, vediamo confrontarsi opposti giudizi di valore. Secondo una certa prospettiva, il giudizio non può che essere positivo, poiché il fenomeno della globalizzazione esige di tener realisticamente conto che tutta una serie di diritti (anche tra quelli cd. indisponibili) dei lavoratori, che hanno trovato la loro consacrazione soprattutto nella legislazione di sostegno degli anni Settanta dello scorso secolo, debbono venir ridotti e in qualche caso soppressi, senza tener conto delle implicite garanzie costituzionali, allo scopo di mantenere nel Paese produzioni che altrimenti, seguendo la legge del profitto, verrebbero trasferite altrove, soprattutto in Paesi in via di sviluppo a bassi salari e poca o inesistente protezione. Con inevitabile perdita di posti di lavoro, risultato finale di un’accanita e «conservatrice» resistenza volta a salvaguardare l’esistente5. Secondo l’altra prospettiva, invece, occorre «ribadire il principio della legalità costituzionale e nel suo ambito la piena assunzione dei valori del lavoro, in tutte le sue forme ed espressioni»6, allo scopo di contrastare l’attuale deriva, indirizzata ad aggravare sempre più lo squilibrio tra poteri imprenditoriali e diritti individuali e collettivi dei lavoratori. Senza per questo temere una destrutturazione o peggio un collasso dell’economia, difendibile perseguendo l’aumento della produttività e l’eccellenza della produzione7. Il contrasto tra queste due posizioni si è recentemente manifestato con notevole chiarezza con riguardo al contratto aziendale imposto ai lavoratori della più importante azienda automobilistica italiana, determinando una frattura nei tre maggiori sindacati dei lavoratori metalmeccanici. Questa chiarezza è mancata nel collegato lavoro. Come appena anticipato, è nostra intenzione dimostrare che gli aspetti più rilevanti della disciplina si collocano all’interno della prima posizione. Ma in modo seminascosto e, diciamolo pure, alquanto ipocrita. Cosa ben presente allo stesso Presidente della Repubblica, che nel suo messaggio di rinvio alle Camere della prima stesura del testo sottolineava il 31.3.2010 che il collegato non esplicita e precisa l’intento riformatore grazie a «una discutibile linea di intervento, basato sugli istituti processuali, piuttosto e prima di quelli sostanziali». Peraltro, una spia delle intenzioni perseguite emerge già nei commenti di un autorevole giuslavorista, che è anche per qualche aspetto uno dei padri del collegato: «bisogna privilegiare conciliazione e arbitrato, in una prospettiva di arretramento dello Stato dalle questioni del lavoro (corsivo aggiunto) per lasciare spazio, in un’ottica sussidiaria e partecipativa, alle libere dinamiche della contrattazione collettiva e del bilateralismo e, dove adeguatamente sostenuta, anche alla stessa contrattazione individuale tra lavoratore e datore di lavoro»8. Insomma, come è stato ben sottolineato, la deflazione del contenzioso del lavoro, che viene affermata nella relazione come lo scopo della legge9, viene perseguita individuando il problema nella norma inderogabile e nei diritti da essa riconosciuti10. Non nella mancanza di mezzi e strutture oltre che di veloci riti alternativi per controversie come quelle relative alla risoluzione del rapporto11.
Diverse le questioni che vengono in rilievo.
L’aspetto fondamentale, sul quale occorre qui concentrare l’attenzione per convincersi che in realtà lo scopo obliquamente perseguito consiste nella «riduzione dei diritti»12, riguarda la disciplina della clausola compromissoria nel contratto individuale, ai sensi dell’art. 31, co. 10, l. n. 183/2010. Il compromesso avrà infatti scarsissima o nulla applicazione, poiché, insorta la lite, sarà ben difficile che il lavoratore scelga il ricorso all’arbitrato invece che all’autorità giudiziaria ordinaria, per lui più conveniente sotto molteplici aspetti13, non solo con riferimento alle sezioni lavoro delle grandi aree industriali, che amministrano la giustizia obbedendo al comando di celerità impartito dalla legge. Basti qui ricordare che il lodo (incomprensibilmente e forse con violazione del principio di uguaglianza), a differenza di quel che accade per le altre tipologie di controversie arbitrabili e per le sentenze, non è immediatamente esecutivo. Lo diventa solo se accettato, se è decorso il termine di impugnazione e, se impugnato, solo all’esito del giudizio di impugnazione, secondo quanto prevede l’art. 31, co. 5 (nuovo art. 412, co. 3, c.p.c.). Insomma, i numerosi problemi interpretativi posti dal compromesso come disciplinato nel collegato lavoro rappresentano un ottimo campo di esercizio per gli eleganti giochi combinatori che tanto piacciono ai giuristi. Ma è pura perdita di tempo occuparsene dal punto di vista degli interessi in gioco14. Al proposito, va anche ricordato che la diffidenza tradizionalmente concepita dal legislatore nei confronti dell’arbitrato in materia di lavoro, fino alle prime aperture del 199815, nasceva dalla consapevolezza della disparità di posizione delle parti nel contratto. Ma il lavoratore è parte debole all’atto della stipulazione della clausola compromissoria, non all’atto della stipulazione del compromesso16: a lite insorta, le parti si trovano in una posizione di parità17 quanto alle scelte da operare per la relativa soluzione. Tant’è vero che il rinvio alle Camere del collegato è stato determinato dallo squilibrio nella posizione sociale delle parti inerente alla possibilità di certificare il contratto contenente la clausola compromissoria stipulato al momento dell’assunzione, nonché dalla previsione che la clausola potesse demandare agli arbitri di decidere secondo equità con una pronuncia impugnabile solo per violazione dei principi generali dell’ordinamento, problematizzando la tutela dei cd. diritti indisponibili del lavoratore, anche grazie alla possibilità della certificazione in deroga a quanto previsto dalla legge e dai contratti collettivi, secondo una interpretazione dell’art. 30, co. 2, piuttosto diffusa in dottrina. Dobbiamo chiederci se le modifiche apportate dal Parlamento sono soddisfacenti nei confronti dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati nel messaggio del Presidente. In confronto alla primitiva previsione, ora l’art. 31, co. 10, stabilisce che «la clausola compromissoria non può essere pattuita e sottoscritta prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto, ovvero se non siano trascorsi almeno trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro, in tutti gli altri casi» e che non può riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro; inoltre l’art. 31, co. 5, in materia di compromesso stipulato in sede di tentativo di conciliazione (ma è indubitabile che la norma vada applicata anche alla clausola compromissoria) stabilisce che il lodo secondo equità deve essere pronunciato, oltre che nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, nel rispetto «dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari ». Certamente, ci troviamo di fronte ad un grande miglioramento del testo, sotto il profilo delle garanzie costituzionali, soprattutto grazie alla sottrazione delle controversie in tema di licenziamento dalla compromettibilità per clausola. Non tutti gli interpreti si sono peraltro dichiarati soddisfatti18. Forse a ragione. Vediamo da vicino. Conviene intanto sottolineare che nella stragrande maggioranza dei casi − visto che avremo una clausola d’iniziativa del datore di lavoro − gli arbitri saranno chiamati a decidere secondo equità. Lasciando da parte le notissime difficoltà relative alla comprensione di che cosa sia l’equità, certo è che gli arbitri non saranno obbligati ad applicare le norme di diritto, che in questo settore sono generalmente norme di protezione del lavoratore. È vero, lo abbiamo appena visto, che la modifica apportata a seguito del messaggio del Presidente della Repubblica chiede anche il rispetto dei principi regolatori della materia, formula certo più precisa di quella riferita ai principi generali dell’ordinamento. Ma a parte i diritti del lavoratore dichiarati irrinunciabili in Costituzione (si pensi alla «retribuzione sufficiente» e all’«irrinunciabilità delle ferie») la formula non garantisce di per sé la tutela degli altri diritti del lavoratore cd. indisponibili. È probabile che l’elasticità del tessuto normativo lascerà aperto il campo alle interpretazioni contrapposte. Qualcuno potrebbe pensare che l’arbitrato di equità è soggetto non solo al vincolo delle norme costituzionali e comunitarie, ma anche delle disposizioni inderogabili di legge, giocando sulla natura contrattuale dell’arbitrato irrituale e sul fatto che un atto negoziale è sempre soggetto, ai sensi dell’art. 1418 c.c., al rispetto delle norme imperative. Ma si scontrerebbe subito con l’applicabilità al lodo dell’art. 2113, co. 4, c.c., sancita dall’art. 31, co. 5 (nuovo art. 412, co. 3, n. 2, c.p.c.). Con la conseguenza di veder attribuito al lodo il medesimo effetto dispositivo qui riconosciuto alle conciliazioni, anche con riguardo a disposizioni inderogabili. A meno di non arrivare a sostenere, con intelligente audacia, che il significato del rinvio all’art. 2113 c.c. non è quello di attribuire agli arbitri un potere dispositivo in materia di norme inderogabili (per ragioni di equità a dire il vero alquanto difficili da cogliere, pur nella insopprimibile individualità dei casi concreti), ma solo quello di indicare che il lodo «non è impugnabile nei modi indicati negli altri commi della medesima norma», bensì unicamente con l’azione in unico grado davanti al tribunale19. Senza contare poi l’inapplicabilità dell’art. 2213 alle cause in cui si controverte su diritti futuri, in applicazione della giurisprudenza che non ammette rinunce o transazioni o conciliazioni e neppure decisioni per queste ipotesi20.
Dobbiamo ora domandarci se il rischio di approfittamento della debolezza contrattuale, tipica della stragrande maggioranza dei lavoratori subordinati, con l’eccezione dei pochi dotati di competenze professionali difficilmente fungibili, venga meno perché la formale stipulazione della clausola compromissoria va situata dopo un breve lasso di tempo dalla conclusione del contratto di lavoro, nonché per la necessità di certificazione della clausola medesima. Con riguardo al secondo profilo, non ci sembra che la procedura cd. di derogabilità assistita davanti agli organi di certificazione sia sufficiente a mettere su un piede di parità i contraenti. Gli organi devono, ai sensi dell’art. 31, co. 10, accertare «all’atto della sottoscrizione la effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le eventuali controversie nascenti dal rapporto di lavoro». Tuttavia, poiché non sono certamente dotati di capacità di introspezione psicologica, gli organi non potranno far altro che accontentarsi delle dichiarazioni offerte e magari insistite delle parti. Detto in rapida sintesi, a mio giudizio la complicata procedura di certificazione accompagna una derogabilità fintamente assistita, sia per la clausola compromissoria, sia per le clausole sostanziali eventualmente in deroga ai diritti derivanti da norme cd. indisponibili dei lavoratori. Con riguardo ai tempi della stipulazione dobbiamo domandarci se la breve dilazione collochi davvero il lavoratore in una posizione di libertà. Il che equivale a chiederci se egli viene messo nella condizione di operare una scelta per lui più conveniente in confronto all’esercizio del diritto di azione. Difficile dare una risposta positiva. Intanto va detto che, a parte il momento della stipulazione formale, è assai probabile, anche per elementari ragioni di correttezza, che il datore di lavoro informi il lavoratore già all’atto dell’assunzione della sua intenzione di inserire nel contratto la clausola compromissoria. A prescindere da questo banale rilievo, bisognerà tener conto delle diverse tipologie di contratti di lavoro. Con riferimento alla pressoché infinita miriade di contratti senza stabilità, l’obbedienza pronta, cieca e assoluta ai desiderata del datore sarà potentemente indotta nel precario dalla speranza di ottenere in futuro il rinnovo del contratto e magari l’assunzione a tempo indeterminato. Con riferimento ai contratti a stabilità obbligatoria, la facilità con cui si può licenziare, senza diritto alla reintegra e a costi limitati indurrà ugualmente il lavoratore ad accettare la clausola. Ma, a pensarci bene, anche con riferimento ai contratti a stabilità reale, forse con l’eccezione delle grandi realtà produttive, è probabile che il lavoratore non se la senta di rifiutare la proposta del datore, mettendosi così in cattiva luce ed esponendosi a future ritorsioni, segnalandosi come un piantagrane fin dall’inizio del rapporto21. La prospettiva che va emergendo con una certa chiarezza risulta poi confermata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di arbitrato obbligatorio. Nella sentenza 127/197722 la Corte rileva l’esigenza, per il giudizio arbitrale, che le parti si trovino in una posizione di equilibrio23 e ha più volte sottolineato, in successive numerose sentenze sulla medesima materia, che «il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera (corsivo aggiunto) scelta delle parti, in mancanza della quale non è consentita la deroga al diritto di azione di cui all’art. 24 comma 1° Cost.». D’altronde, last but not least, il fatto stesso che l’arbitrato a seguito di clausola compromissoria (dopo le modifiche al testo intervenute a seguito del messaggio del Presidente della Repubblica) non sia consentito per le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro la dice lunga sulle intenzioni del legislatore nel mantenere la clausola compromissoria per tutte le altre controversie. Con l’introduzione di questa eccezione non fa che riconoscere implicitamente che la giustizia privata offre al lavoratore minori garanzie rispetto a quella ordinaria. Insomma, ci sembra di poter a questo punto sottolineare che se è vero, come abbiamo ricordato più sopra, che il procedimento di revisione costituzionale per rendere coerente la Costituzione con la visione neoliberista della società è di difficile percorribilità, oltre che di esito incerto, è altrettanto vero che, a Costituzione e a controlli di costituzionalità invariati, intervenire con la legislazione ordinaria sottopone quest’ultima alla spada di Damocle delle declaratorie di illegittimità.
Qualcuno potrebbe obiettare che la clausola compromissoria è circondata non solo dalle cautele relative al tempo della stipulazione e alla necessità della certificazione a pena di nullità, di cui abbiamo cercato di svalutare l’idoneità a garantire la libertà contrattuale del lavoratore. Esiste una condizione ulteriore. L’art. 31, co. 10, precisa che la pattuizione della clausola deve essere prevista da «accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale». Sennonché, se guardiamo all’esperienza della contrattazione aziendale Fiat sopra ricordata, possiamo a buon diritto pensare che la tendenza a delocalizzare le liti presso il giudice privato potrà essere ben vista da alcuni dei sindacati maggiormente rappresentativi in un contesto di favore per quell’evoluzione verso una sempre maggiore flessibilità nei rapporti di lavoro anche nel momento della patologia contenziosa, che ha visto la sua origine nel famoso libro bianco di Marco Biagi, che, infatti, auspicava già nel 2001 una politica promozionale «piuttosto forte» a favore dell’arbitrato in una lettera all’allora ministro del welfare Maroni24. Senza contare poi che, a testimoniare l’importanza pour cause attribuita dal legislatore alla clausola compromissoria, l’art. 31, co. 11, stabilisce che in assenza di accordi confederali o contratti collettivi, dopo dodici mesi dall’entrata in vigore della legge il Ministro del lavoro convoca le parti per promuovere l’accordo e in caso di insuccesso provvede con proprio decreto ad individuare «in via sperimentale ... le modalità di attuazione e di operatività delle disposizioni» in materia di clausola compromissoria.
L’esperienza dirà se l’obiettivo di ottenere una forte diminuzione del contenzioso del lavoro presso il giudice ordinario sarà raggiunto. Certo è, a nostro giudizio, che tutto dipenderà dalle scelte dei datori di lavoro, per i motivi che dovrebbero emergere dall’indagine sin qui svolta. Successo assicurato se essi si orienteranno in massa nel senso di far certificare i contratti e di proporre (rectius, imporre) la clausola compromissoria di equità. Ma affinché ciò si verifichi occorrerà che prevalga in giurisprudenza l’orientamento per cui l’equità, assieme ad un’interpretazione espansiva delle possibilità di certificazione in deroga, consente di non applicare nel caso concreto le norme inderogabili di protezione del lavoratore. Ma che questa condizione si verifichi non è sicuro, soprattutto se prevarranno le interpretazioni costituzionalmente orientate del nuovo assetto normativo25. Senza contare poi il gran numero di questioni poste da una legge estremamente complicata che naviga in direzione contraria a quanto il legislatore va cercando di ottenere con il decreto legislativo sulla cd. semplificazione dei riti (d.lgs. 1.9.2011, n. 150). Basti confrontarla con i previgenti artt. 412 ter e 412 quater c.p.c., che disciplinavano l’arbitrato previsto dai contratti collettivi, l’unico consentito a norma dell’art. 808 c.p.c., visto che fino al presente collegato la legge non era intervenuta, se non marginalmente26. Oggi abbiamo quattro diverse forme di arbitrato (in sede di commissioni provinciali del lavoro, sommariamente regolato quanto ai termini e alle attività di parte: art. 31, co. 5, nuovo art. 412 c.p.c.; in sede sindacale, non regolato: art. 31, co. 6, nuovo art. 412 ter c.p.c; ad hoc, definito irrituale come gli altri, ma ritualizzato con un impressionante furore analitico e nello stesso tempo con scarsa precisione, fonte, oltre che di numerosi problemi interpretativi, di problemi di coordinamento con le altre forme previste: art. 31, co. 8, nuovo art. 412 quater c.p.c.; infine in sede di organi di certificazione, regolato con un ambiguo rinvio sottoposto alla clausola di compatibilità ai soli co. 3 e 4 del nuovo art. 412 c.p.c.: art. 31, co. 12. Come giustamente rilevato27, alla linearità neoliberista degli obiettivi di politica del diritto perseguiti «non corrisponde un’analoga lucidità nella strumentazione tecnica, sin troppo astratta e a volte barocca, tant’è che molti ne presagiscono una sostanziale impraticabilità». Bisognerà forse concludere: much ado about nothing?
1 Cfr., da ultimo, Ciliberto, La democrazia dispotica, Bari, 2011, 128 ss.; Ferrajoli, Poteri selvaggi, La crisi della democrazia italiana, Bari, 2011, 41 ss.
2 Per un’analisi accurata degli attacchi nei confronti della Costituzione, non solo formale, cfr., dal punto di vista di una strenua difesa della Carta del 1948, Ainis, L’assedio, la Costituzione e i suoi nemici, Milano, 2011, passim.
3 Cfr., al riguardo, gli approfondimenti di Gliozzi, Legalità e populismo, i limiti delle concezioni scettiche del diritto e della democrazia, Milano, 2011, 5 ss.
4 Ne troviamo una limpida manifestazione nel recente art. 614 bis c.p.c., che nell’introdurre misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili le esclude per le controversie di lavoro, con una disposizione peraltro di dubbia costituzionalità, non essendo evidenti i criteri di ragionevolezza capaci di giustificare la disuguaglianza di trattamento.
5 È la prospettiva chiaramente enunciata nella relazione al d.d.l. costituzionale di modifica dell’art. 41 Cost. e fatta propria da AA.VV. La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro, Commentario alla legge 4 novembre 2010 (c.d. collegato lavoro) con un’introduzione del Ministro del lavoro Maurizio Sacconi, in Le nuove leggi civili, Milano, 2011.
6 Così Mattone, Introduzione (inedita) al Convegno in memoria di Massimo Roccella, su Sfida dei diritti e della democrazia, Torino, 5.4.2011.
7 È la prospettiva difesa in AA.VV., La controriforma della giustizia del lavoro, a cura di Amato- Mattone, Milano, 2011.
8 Tiraboschi, Giustizia del lavoro: la riforma nel Collegato, in I supplementi di Guida al lavoro - Collegato lavoro, Il Sole 24 Ore, Milano, 2010, 8.
9 Dato e non concesso che venga raggiunto. Molti dei primi commenti hanno manifestato perplessità. Cfr., da ultimo, con riferimento al tentativo di conciliazione, Nascosi, Un ritorno al passato: il collegato lavoro ripristina la facoltatività del tentativo di conciliazione per le controversie di lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 226.
10 Speziale, I limiti alla giustiziabilità dei diritti nella riforma del lavoro, in Riv. giur. lav., 2011, 26.
11 Cfr., al riguardo, gli analitici suggerimenti di Amato-Mattone, Il «collegato lavoro»: ancora una legge per la riduzione dei diritti, in AA.VV., La controriforma della giustizia del lavoro, cit., 11 s.
12 Speziale, I limiti alla giustiziabilità, loc. cit.
13 Cfr., al riguardo, i rilievi di Speziale, I limiti alla giustiziabilità, cit., 60 ss.
14 Qualcuno può obiettare che un notevole utilizzo del compromesso sarebbe suscettibile di derivare dal nuovo testo dell’art. 412 c.p.c. che troviamo al co. 5 dell’art. 31 del collegato lavoro. Si prevede ora che in caso di fallimento del tentativo di conciliazione presso le Camere provinciali del lavoro e della massima occupazione, le parti possano conferire mandato per un successivo arbitrato presso i medesimi organi. Non crediamo che ciò avverrà con frequenza, poiché le parti si trovano di fronte la proposta, obbligatoriamente formulata dalla Commissione, che hanno ritenuto di non accettare e ciò crea un’atmosfera assai poco favorevole ad affidare la decisione della lite al medesimo organo, sia pure incaricando persone diverse da quelle che hanno seguito il tentativo di conciliazione. Meglio (ri)tentare la sorte con l’autorità giudiziaria, senza che, crediamo, abbia grande efficacia dissuasiva la misteriosa (e inefficace) formula secondo cui «delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non accettata senza adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio» (nuovo secondo co. dell’art. 411, ex art. 31, co. 3).
15 Cfr., in proposito, Canale, Arbitrato e «collegato lavoro», in Riv. dir. proc., 2011, 566, con ivi, nota 1, ulteriori riferimenti.
16 Di questa differenza è perfettamente consapevole lo stesso legislatore, nel momento in cui vieta la clausola compromissoria per le controversie relative alla risoluzione del rapporto e lascia, invece, aperta la strada al compromesso per le controversie suddette.
17 Ci riferiamo ovviamente alla soluzione contenziosa. Non a quella transattiva o conciliativa. Sulle transazioni o conciliazioni inique dovute alla differente forza economica delle parti v., se vuoi, Chiarloni, Prime riflessioni sullo schema di decreto legislativo di attuazione della delega in materia di mediazione ex art. 60 legge 69/2009, in Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 196 s.
18 Cfr., ad esempio, la dura critica di Ferraro, La composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro. Profili generali, in AA.VV., Il contenzioso del lavoro nella legge 4 novembre 2010, n . 183 (collegato lavoro), a cura di Cinelli- Ferraro, Torino, 2011, 57 s. V. anche Zoppoli, Certificazione del contratto di lavoro e arbitrato: les liaisons dangereuses, in Working Paper C.S.D.L.E Massimo D’Antona, IT, 2010, n. 102.
19 Così Bove, Conciliazione e arbitrato nel collegato lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 150, nota 34.
20 Cass., 7.3.2005, n. 4822; Cass., 26.5.2006, n. 12561; in dottrina, per giustificare il divieto di arbitrato obbligatorio come una forma di rinuncia preventiva al diritto alla tutela giurisdizionale, Luiso, Diritto processuale civile, vol. IV, V ed., Milano, 2009, 356.
21 Cfr., per analoghi rilievi, Speziale, I limiti alla giustiziabilità, cit., 64.
22 C. cost., 14.7.1977, n. 127.
23 Tra i motivi della declaratoria di illegittimità per il caso sottoposto all’esame della Corte, essa rileva che il rapporto giuridico, che dà occasione all’arbitrato obbligatorio, corre tra due soggetti di forza economica assai diversa. «Mentre, come è noto, la giustizia per arbitri dà risultati particolarmente soddisfacenti quando le parti si trovino in posizione di relativo equilibrio».
24 Ricordata da Chiariello, L’arbitrato nel collegato lavoro 183/2010, in www.diritto.it. Cfr. altresì Donzelli, La risoluzione arbitrale delle controversie di lavoro, in Il contenzioso del lavoro, a cura di Cinelli-Ferraro, cit., 109, nota 8.
25 Cfr., per un’interpretazione in generale delle norme del collegato che non consente di disapplicare norme inderogabili di favore per il lavoratore, Speziale, I limiti alla giustiziabilità, cit., 51 ss.
26 Ricordiamo l’art. 7, co. 5, l. n. 604/1966 in materia di licenziamenti individuali; l’art. 7, co. 6 e 7, dello Statuto dei lavoratori in materia di sanzioni disciplinari; l’art. 4, co. 5, l. n. 91/1981 in materia di rapporti di lavoro sportivo.
27 Cinelli-Ferraro, Introduzione, in Il contenzioso del lavoro, a cura di Cinelli-Ferraro, cit., XIX. Un dubbio analogo viene manifestato da Punzi, L’arbitrato per la soluzione delle controversie di lavoro, in Riv. dir. proc., 2011, 14.