ARCHEOLOGIA (dal gr. ἀρχαιολογία; da ἀρχαῖος "antico" e λόγος "discorso")
È, in generale, la scienza dell'antichità, quando per antichità s'intenda non il patrimonio letterario di un determinato popolo antico, non la sua storia, ma la sua documentazione monumentale, data essenzialmente dalle opere artistiche, dai prodotti industriali, dalle iscrizioni. Perciò mediante l'archeologia si ricostruisce la vita di un popolo antico nelle sue istituzioni pubbliche e private, nelle sue credenze religiose, nelle sue leggende (e in questi ultimi due casi appoggiandosi anche alle fonti letterarie) e, specialmente e principalmente, nella sua arte, nell'arte che dà, insieme alla letteratura, la caratteristica saliente a una determinata stirpe. L'archeologia si distingue così in singoli rami, a seconda della particolare civiltà che si propone di studiare.
L'archeologia preistorica.
L'archeologia preistorica, detta anche, e soprattutto dai Francesi, preistoria semplicemente, ovvero paletnologia secondo l'uso degl'Italiani, è una scienza di formazione assai recente, poiché soltanto nella prima metà del sec. XIX, insieme alla ricerca dei documenti comprovanti l'alta antichità dell'uomo, se ne gettarono le basi. La definizione finora più comunemente accettata, per cui l'archeologia preistorica sarebbe "lo studio delle antichità umane anteriori ad ogni più antico documento scritto", è naturalmente incompleta, escludendosi così i popoli naturali o le tribù umane meno civilizzate che sono vissute fino ai nostri giorni come i remoti progenitori europei o asiani. Esiste però una tendenza recente che completa il valore della parola "preistoria" anche in senso spaziale, e ormai si parla di preistoria americana, africana, oceanica, insieme con l'europea e l'orientale. Se ciò è utile ai fini prettamente scientifici, traendosene straordinario vantaggio con le comparazioni, è peraltro anche vero che, così facendosi, si finisce per confondere la preistoria nell'etnografia propriamente detta: dalla quale in realtà essa è difficilmente separabile. Ricordandoci di questa inevitabile coincidenza, e anche tenendo presente che il concetto di preistoria è in fondo relativo pur nel solo suo valore temporale per ovvie ragioni, noi dobbiamo, tracciando la storia dell'archeologia preistorica, limitarci a considerarla quale essa generalmente s'intende nel nostro mondo scientifico, l'europeo, in base allo sviluppo assunto dalla nuova disciplina dopo le prime e fortunate osservazioni ed esplorazioni fatte sul principio del sec. XIX con l'ausilio della geologia e della paleontologia.
Anche i limiti dell'archeologia preistorica non sono fissabili con precisione. Per i Francesi essa arriva all'età dei bronzo, preferendo molti scienziati denominare protostoria le successive fasi della civiltà dei metalli; per gli studiosi di nazionalità tedesca, soprattutto, invece essa discende fino alla conquista romana delle varie regioni europee. Noi italiani, da tempo e con generale accordo. e senza troppo compiacerci della suddivisione "protostoria", comprendiamo nello studio dell'archeologia preistorica anche la prima età del ferro, cioè giungiamo all'incirca ai tempi in cui la tradizione suole porre la data della fondazione di Roma.
L'antichità ci ha tramandato notizie per lo più solo fantastiche intorno alle prime fasi di sviluppo dell'umano incivilimento, con qualche rara intuizione del vero. Così Erodoto, Platone, Diodoro Siculo, Strabone, mostrano di sapere che per l'umanità è esistito un tempo in cui essa non usava i metalli; Plinio sa che in remoti tempi gli uomini abitarono le caverne. Ma Lucrezio per il primo più esplicitamente ci da un quadro del primitivo incivilimento umano, nel noto passo del De rerum natura (V, 1282 segg.) in cui, certo ispirandosi alle dottrine epicuree, ricorda che le prime armi dell'uomo furono le mani e le unghie e i denti, e che più tardi furono utilizzate allo scopo le pietre e i rami degli alberi e infine il bronzo e il ferro. È la prima e lontana intuizione della fondamentale divisione nelle tre età, vanto della scienza danese della prima metà del sec. XIX.
Nonostante il passo lucreziano e il collezionismo augusteo, attestatoci da Svetonio; nonostante l'interesse di qualche scrittore, come Catone e Seneca e Tacito (e già prima dei Greci, come Erodoto e Tucidide) per i problemi etnologici e paletnologici, siamo ben lungi dal poter affermare che l'antichità classica abbia avuto un concetto, sia pure embrionale, dell'archeologia preistorica e quindi dell'aurora dell'umanità. In ogni modo, molti scrittori classici ci offrono notizie d'interesse etnografico assai preziose, quali quelle di Erodoto riguardanti gl'indigeni dell'Etiopia, di Diodoro Siculo per i Trogloditi del Golfo Arabico, di Pausania per i Sarmati, oltre le assai note informazioni etnologiche di Cesare e di Tacito e di Ammiano Marcellino; ma raramente questi antichi informatori mostrano di accorgersi che nei rozzi costumi o nelle "barbariche" manifestazioni di quei popoli si riflettono precisamente stadî primitivi di civiltà per i quali i popoli allora più civili erano già passati.
Se Augusto aveva raccolto, per conservarle, le rozzissime armi di pietra scheggiata dell'isola di Capri (trovate là dove ai nostri giorni gli scavi le hanno rimesse in luce), ritenendole arma heroum; se in Lucrezio ci appare una geniale intuizione, con la decadenza dell'impero romano vediamo affermarsi l'idea superstiziosa delle pietre del fulmine relativamente alle asce di pietra levigata neolitiche e alle selci scheggiate. Questa idea già apparsa ai Greci, che quelle asce chiamaron κεραύνια, durerà incontrastata per tutto il Medioevo, giungendo fino ai nostri giorni, ed è ancor oggi vigente fra la gente di campagna. Marbod, vescovo di Rennes (secolo XII), nella sua Dactylothèque parla a lungo delle "pietre del fulmine" enumerando i benefici o le preservazioni da varî malanni che il loro possesso assicura: illustrando così eloquentemente perché l'imperatore Alessio Comneno nel 1181 inviasse in dono ad Enrico IV anche una di quelle pietre incastonata in oro.
Il primo uomo di scienza che esplicitamente afferma la vera natura delle cerauniae e delle silices è il medico e naturalista samminiatese Michele Mercati (1541-1594), la cui opera, Metallotheca Vaticana, fu pubblicata postuma da Clemente XI nel 1717. Anche se dovessimo riconoscere, come vuole un autore moderno (Vayson in L'Anthropologie, 1921, p. 357), che il Mercati riproduce un'opinione forse diffusa tra i dotti del suo tempo, non per questo si distrugge il valore che il Mercati ha, di vero precursore; e in ogni modo l'espressione del protomedico pontificio è la prima ad apparire in forma esplicita e sicura. Nell'opera di Lodovico Moscardo sul Museo veronese (1672) troviamo ancora accettata l'idea superstiziosa delle pietre cadute col fulmine.
Poco dopo l'apparizione dell'opera postuma del naturalista italiano, Bernard de Jussieu senior presentava all'Accademia delle scienze di Parigi, nel 1723, alcune asce di pietra americane per la retta interpretazione delle cerauniae europee, sostenendo che i popoli primitivi di Francia e di Germania fossero vissuti in analoghe condizioni di civiltà prima dell'uso del metallo. A lui seguì, per importanza, il Mahudel con una celebre memoria letta all'Académie des inscriptions nel 1730; si aggiunsero a conforto le opinioni dello Eckard, del Goguet, del Buffon.
Infine, a gettare le basi dell'archeologia preistorica in aiuto alla precorritrice opera degli anzidetti interpreti, sulla fine del sec. XVIII e nei primi anni del XIX intervenivano i primi ritrovamenti di ossa fossilizzate, di uomini e di animali "antidiluviani", con le relative considerazioni scientifiche di Esper (1774), di Ami Boué e Crahay (1823), di Tournal (1826) e di Christol (1829); questi ultimi due ritrovamenti, nelle caverne con brecce ossifere dell'Aude e del Gard, di maggiore importanza. Ma le prime ricerche veramente scientifiche sono gli scavi praticati dallo Schmerling, tra il 1829 e il 1833, nelle grotte della provincia di Liegi, che rivelarono ossa umane associate con avanzi di rinoceronte, orso, iena; tutte reliquie che lo Schmerling illustrò, assieme con selci ed ossa lavorate, in una memoria pubblicata nel 1833-1834.
Queste prime scoperte non furono salutate da un generale consenso: primo fra gli oppositori, o i negatori della rivelazione, troviamo il grande Cuvier, il quale peraltro, essendo morto nel 1832, non poté assistere alle decisive scoperte dello Schmerling.
Se cosiffatti ritrovamenti di fossili, ai quali possiamo aggiungere quelli di selci scheggiate nelle ghiaie del Suffolk per opera di John Frère (1799), segnano l'inizio del movimento scientifico che condurrà alla formazione dell'archeologia preistorica, il vero apostolo di questa novella scienza è il piccardo Boucher de Perthes, nato a Rethel nel 1788. Egli, che credeva nel diluvio biblico e nelle sue catastrofiche conseguenze, cominciò fin dal 1828 ad eseguire scavi ed esplorazioni negli strati alluvionali della valle della Somme, nei dintorni di Abbeville, raccogliendo per anni di seguito fra le ghiaie e insieme con ossa di mammiferi estinti strumenti di selce scheggiata, fra i quali spesso si notava l'ascia en amande, o, come poi fu chiamata, di Saint-Acheul.
Tenendosi al corrente delle varie scoperte, compiendo viaggi in tutta Europa e in Asia e in Africa, egli raccolse altri oggetti analoghi, convincendosi che gli strumenti silicei amigdaloidi si ritrovano un po' dovunque. Dopo aver comunicato le prime notizie delle sue scoperte alla Società di emulazione locale, nel 1844 offrì modestamente in dono la sua collezione al Muséum d'histoire naturelle di Parigi, ma per il momento non fu degnato di una risposta. Nel 1846 fece comparire il primo volume della sua opera Antiquites celtiques et antédiluviennes, strana raccolta di acute osservazioni scientifiche e di fantastiche illustrazioni, nella quale in sostanza si affermava il convincimento d'avere scoperto le armi e i simboli dei nostri antenati antidiluviani.
L'opera fu accolta non solo con diffidenza, ma anche con evidente malanimo. Accadde, tuttavia, che molti increduli, desiderosi di confutare le nuove idee, si recassero sui luoghi esplorati dal piccardo, e ne ritornassero convinti partigiani delle sue idee, a cui del resto non mancò il valido appoggio d'illustri scienziati, quali gl'inglesi Lyell, Falconer, John Evans, Prestwich, e i francesi de Quatrefages, Gaudry e Lartet.
La fede del piccardo riportò una prima vittoria quando nel 1854 il Rigollot, tenacissimo avversario sino allora, pubblicò una memoria in cui dichiarava di ricredersi dopo aver visitato la collezione di Boucher de Perthes. Ma nonostante ciò, il secondo volume delle sue Antiquités, apparso nel 1857, fu accolto ancora freddamente: e contro tale avversione lo scienziato continuò a lottare strenuamente moltiplicando e reiterando gl'inviti perché fossero visitate le sue raccolte.
Ma il 1859, data memorabile per la storia dell'archeologia preistorica, segnò una grande vittoria per Boucher de Perthes. Nello stesso anno in cui apparve l'Origine delle specie di Darwin e fu fondata la Société d'anthropologie de Paris, fu compiuto uno scavo di controllo nei luoghi famosi da parte di geologi inglesi, fra i quali primeggiavano Lyell, Prestwich, J. Evans; fu confermato il valore delle scoperte e perfino notata la stratigrafia. Eppure, nonostante così importante verifica, Boucher de Perthes morì nel 1868 senza aver visto il completo trionfo delle sue idee, ma amareggiato sempre più dall'atteggiamento ostile di Elie de Beaumont, ligio all'ordre moral di Cuvier, di fronte all'altra sua scoperta del 1863, della mascella umana di Moulin-Quignon.
Ma, mentre si combatteva l'aspra battaglia, durante il lungo apostolato di Boucher de Perthes, il quale merita un altissimo posto nella storia della scienza, erano avvenute altre importanti scoperte ed osservazioni da parte di varî scienziati, che contribuirono potentemente al trionfo della verità e alla formazione della nuova disciplina scientifica.
Fin dal 1833, per opera di dotti danesi era stato affermato il sistema delle tre età, o periodi, fondamento dell'archeologia preistorica. Il riordinamento delle antichità preistoriche del museo di Copenaghen secondo un criterio scientifico, fece sì che, edita dalla R. Società degli antiquarî del Nord, uscisse l'opera Ledetraad til nordisk oldkyndighed (tradotta in tedesco nel 1837), in cui si trovano esposti i periodi secondo cui vanno distinte le varie antichità ed è affermata la priorità della civiltà del bronzo rispetto a quella del ferro. Il Thomsen, direttore del museo di Copenaghen, aveva preso gran parte a quell'opera, stampata anonima. Questa tesi messa così innanzi per la prima volta trovò un geniale elaboratore in Jens J. Asmussen Worsaae, assistente del Thomsen e poi direttore dello stesso museo, il quale sviluppandola con una più appropriata suddivisione dei tre periodi, praticò anche scavi sistematici e visitò i più importanti luoghi d'Europa. Le sue opere, pubblicate dal 1842 al 1859, aprirono un nuovo e più ampio orizzonte allo studio paletnologico, e possono considerarsi fondamentali: soprattutto, ribadendo il principio delle tre età, distrussero la credenza fino allora diffusa che il periodo del ferro fosse limitato soltanto dall'era cristiana.
L'opera del Worsaae trasse giovamento dalla collaterale laboriosità di altri scienziati e naturalisti, quali lo svedese Svan Nilsson, zoologo, lo stesso Steenstrup, e il Forkammer: il suo sistema fu accolto, confermato o in parte mutato e perfezionato, da O. Montelius in Svezia, dall'Evans junior in Inghilterra, dal Tischler in Germania, dal Gabriel de Mortillet in Francia, infine dalla scuola paletnologica italiana di G. Chierici, L. Pigorini, P. Strobel.
Intanto, fin dal 1850, in Italia Giuseppe Scarabelli illustrava per la prima volta scientificamente le armi antiche di pietra dura, sia paleolitiche sia neolitiche, da lui raccolte sui colli dell'Imolese.
Nel 1854 avvenne nella Svizzera una scoperta, quella delle palafitte, che non solo portò valida conferma al principio della divisione delle tre età, ma aprì un più ampio orizzonte allo studio paletnologico. Essendosi nel 1854 straordinariamente abbassato il livello delle acque nel lago di Zurigo, i barcaioli di Meilen raccolsero, fra i pali infissi nel fondo a distanze regolari e già in precedenza notati più volte, svariati oggetti, corna di cervo, frammenti di vasi, asce di pietra, strumenti di bronzo, ecc.
Interessatosi della scoperta Ferdinando Keller, naturalista e presidente della Società archeologica di Zurigo, furono eseguite sotto la sua direzione metodiche ricerche che ben presto, col riscontro della descrizione che Erodoto (V, 16) fa delle abitazioni lacustri dei Peoni di Tracia, lo convinsero doversi trattare di genuini resti di antiche abitazioni piantate nel lago.
Diffusasi la notizia della scoperta, si potè constatare che anche in altri laghi svizzeri erano stati già notati analoghi giacimenti di materiale preistorico; il Keller cominciò subito a divulgare le sue dotte considerazioni e a promuovere un largo movimento di ricerche. Le quali già nel 1886 portarono alla conoscenza, nella sola Svizzera, di circa duecento stazioni lacustri, impiantate presso le rive dei laghi di Neuchâtel, di Costanza, di Biel, di Ginevra, di Vlorat, di Zug, ecc.
ll Keller può dunque essere considerato come il fondatore di questo speciale ramo di studî paletnologici, che fu con fortuna coltivato e proseguito dal Desor, dal Meyer, dal Troyon, dallo Jahn, dal Gross e dal Munro, cui dobbiamo un'opera fondamentale che considera tutte le antichità lacustri d'Europa, fino ai più recenti esploratori, il Vouga e il Viollier.
Nello studio particolare degli avanzi vegetali e faunistici spicca il Rütimeyer di Basilea.
Le scoperte svizzere e gli studî del Keller fecero sì che si ritrovassero e si studiassero in gran numero stazioni lacustri nei paesi alpini confinanti, in Francia, in Germania, in Austria, in Italia. Anzi si può dire che per l'Italia le scoperte del Keller, notate e seguite con interesse dai nostri scienziati, segnino l'inizio vero e proprio dell'indagine scientifica. E già nel 1855-1856 con gli scavi del conte G. Gozzadini nella celebre necropoli di Villanova, presso Bologna, erano apparse caratteristiche reliquie della prima età del ferro; già nel 1857 nell'opera di Alberto La Marmora (Voyage en Sardaigne) venivano date le prime notizie archeologiche dell'isola dei Nuraghi; ma il vero inizio degli studî italiani di archeologia preistorica è segnato dal 1860-1861, soprattutto per opera di Bartolomeo Gastaldi.
Nel 1860 il Gastaldi annuncia l'esistenza di una stazione lacustre, scoperta dal prof. Moro nella torbiera di Mercurago presso Arona (Novara); nel 1860 Francesco Anca, dopo avere esplorate le grotte del Palermitano, pubblica i primi risultati dei suoi studî; nello stesso anno poi G. de Mortillet invitava pubblicamente la Società italiana di scienze naturali a intraprendere l'esplorazione paletnologica in Italia.
Così nel 1861 usciva una fondamentale memoria del Gastaldi (Cenni su alcune armi di pietra e di bronzo trovate nell'Imolese, nelle marniere del Modenese e del Parmigiano e nelle torbiere della Lombardia e del Piemonte), la quale, riassumendo i risultati delle osservazioni già note e indicando l'esistenza di necropoli e stazioni dell'età dei metalli, e in particolare delle terramare, può considerarsi come l'iniziatrice dello studio sistematico. Infatti, ad essa e all'appello lanciato dall'illustre scienziato torinese, seguirono i primi scavi di Pellegrino Strobel e di Luigi Pigorini nella terramara parmense di Castione de' Marchesi, i cui risultati furono pubblicati nei Nuovi cenni sugli oggetti di alta antichità dell'Italia, del Gastaldi (Torino, 1862), inaugurandosi così una lunga serie di escavazioni rivelatrici: ad essa seguirono le osservazioni e le pubblicazioni di A. Stoppani, di P. Lioy, di P. P. Martinati, di G. Ranchet, di C. Marinoni e di altri, per le palafitte, le torbiere e altre antichità dell'Italia settentrionale. Se poi aggiungiamo le illustrazioni di G. Nicolucci, delle armi e utensili di pietra rinvenuti nell'Italia meridionale, le prime esplorazioni di Arturo Issel nelle caverne del Finalese, gli scavi del Pigorini a Parma, le intense e metodiche esplorazioni di G. Chierici nel Reggiano, i rapporti "paletnologici" di Michele Stefano De Rossi per il Lazio, l'inizio degli scavi di Antonio Zannoni alla Certosa di Bologna, e le cure prodigate da G. Spano ai monumenti nuragici della Sardegna, dobbiamo riconoscere come intensamente e fervidamente in Italia si iniziassero gli studî paletnologici prima della grande scoperta dell'abitato neolitico (fondi di capanne), avvenuta per la prima volta nella Valle della Vibrata, nel Teramano, per opera di Concezio Rosa (1870).
Intanto all'estero, e soprattutto in Francia, la nuova scienza aveva progredito con pari fervore e con fecondi risultati.
Nel 1856 si scoprì nella grotta di Feldhofer, non lungi da Düsseldorf, la famosa calotta cranica detta di Neanderthal, studiata dal Fuhlrott, esemplare della razza umana del periodo mousteriano.
Nel 1861, E. Lartet compì l'esplorazione della celebre grotta di Aurignac (Alta Garonna), e unitamente all'industriale inglese H. Christy, finanziatore dell'impresa, pubblicò nel 1865 il primo volume dell'opera Reliquiae Aquitanicae (compiuta dieci anni dopo), che illustra i tesori archeologici dissepolti dalle caverne della valle della Vézère e del Périgord. Contemporaneamente nel Belgio E. Dupont esplorava metodicamente le caverne della provincia di Namur; mentre quelle pirenaiche venivano studiate dall'Edwards, dal Garrigou e da altri. Ancora nel 1864-1865, Gabriel de Mortillet fondava i suoi Matériaux pour servir à l'histoire positive et naturelle de l'homme, per divulgare i risultati delle investigazioni d'ogni paese
Al Lartet dobbiamo il primo tentativo di una classificazione dell'età della pietra. Egli fin dal 1864 aveva distinto i tipi industriali del mousteriano e compreso gli strumenti chelleani: fondandosi sulla paleontologia divise i tempi primitivi dell'umanità in quattro età: 1° del grande Orso; 2° del Mammut; 3° della Renna, 4° del Bisonte, cui poi fu aggiunto un precedente periodo dell'Elephas antiquus.
Al sorgere dei primi archivi e delle prime schematizzazioni, si aggiunge un altro mezzo potente per la diffusione della scienza: il congresso. Già nel 1865 per la volontà e per l'azione organizzatrice di G. de Mortillet, validamente aiutato dagl'italiani Cornalia, Capellini, Stoppani, si tenne alla Spezia il primo Congrès international d'Anthropologie et d'Archeologie préhistoriques.
Nel 1867 poi, per la prima volta fu posta la questione delle selci terziarie, ovvero degli "eoliti" per opera dell'abate Bourgeois che aveva scoperto negli strati dell'oligocene superiore di Thenay (Loir-et-Cher) molte selci scheggiate, ch'egli ritenne lavorate dall'uomo, iniziando così una lunga serie di fervide discussioni in cui doveva primeggiare come sostenitore di quella tesi il belga A. Rutot.
A G. de Mortillet, mente acuta di scienziato e abilissimo nello schematizzare, dobbiamo la classificazione che, nonostante aggiunte e varianti da altri apportatevi, critiche e opposizioni, è restata in parte fondamentale, per lo meno nella scuola francese. Il primo abbozzo del sistema fu pubblicato nel 1869 con l'Essai de classification des cavernes et des stations sous abri, fondée sur les produits de l'industrie humaine, divulgato più ampiamente poi con la prima edizione della sua opera Le Préhistorique 1883).
Nelle sue linee generali e nella forma completa il sistema del de Mortillet si può così riassumere.
Tutta l'età preistorica è valutata per una durata non inferiore a 240.000 anni; l'età della pietra si divide in tre parti:
1. l'eolitica, comprendente le supposte industrie terziarie,
2. la paleolitica, comprendente le industrie pleistoceniche (pietra scheggiata);
3. la neolitica, che abbraccia le industrie della pietra levigata dei tempi attuali.
Il paleolitico, di lunghissima durata (circa 222.000 anni), si divide, traendo i nomi secondo l'uso dei geologi da stazioni tipiche, in:
1. Chelleano (da Chelles), con l'industria degli amigdaloidi con scheggiatura bifacciale: età dell'ascia impugnata, come felicemente la definì il Della Seta.
2. Mousteriano (da Le Moustier), con l'industria delle schegge;
3. Solutréano (da Solutré), con strumenti scheggiati d'ambo i lati in modo perfezionato;
4. Magdaleniano (da La Madeleine), con industria minuta su lama e scheggie, e con manifestazioni artistiche.
Più tardi, dopo il Chelleano il de Mortollet inserì una fase di transizione, l'Acheuleano (da Saint-Acheul) con strumenti analoghi, ma più accuratamente lavorati.
Il neolitico si suddivide in due periodi: 1. il Tardenoisiano (da Fère-en-Tardenois), e 2. il Robenhausiano (da Robenhausen, Svizzera). Fra il paleolitico e il neolitico, è intercalata un'industria che riempie lo iato dovuto alla scomparsa della civiltà magdaleniana, il Tourassiano (da La Tourasse).
Infine, il de Mortillet considerò anche l'età del bronzo, che distinse fondamentalmente in due periodi da lui chiamati: l'Époque du fondeur o morgienne (da Morges, lago di Ginevra), e l'Époque du marteleur o larnaudienne (da Larnaud, Giura).
Il sistema del de Mortillet che, specie per i primi periodi doveva generalizzarsi ed estendersi a tutta la terra, rigido nelle sue conseguenze sincronizzatrici e uniformanti, fu accolto con generale favore, ma non andò esente da critiche aspre e da opposizioni. Soprattutto per la sistematizzazione del paleolitico, sorsero opposizioni in Francia dal Dupont e da S. Reinach, nel Belgio da A. Rutot, in Italia da Luigi Pigorini. In Francia il sistema fu perfezionato per opera di Salmon, di D'Ault du Mesnil, di Cartailhac, dell'abate Breuil. Al Salmon dobbiamo la creazione del Campigniano (da Campigny), industria da porsi al principio del neolitico, contemporanea dei køkkenmødding danesi; il Cartailhac e il Breuil, dallo studio stratigrafico delle caverne e dei ripari sotto roccia, fecero sì che fra il Mousteriano e il . Solutréano si ponesse l'Aurignaciano, con caratteristiche fogge industriali di lame e con importanti manifestazioni d'arte, scultura e incisione. Infine, dopo le accurate esplorazioni (1887-1888) di É. Piette negli strati del Mas d'Azil (Ariège), i paletnologi francesi s'accordarono nel riconoscere come vero strato di trapasso dal paleolitico al neolitico più antico l'Aziliano, in cui si continua l'industria dell'osso.
ll sistema completato e perfezionato, senza comprendervi l'eolitico, è così esposto sinotticamente nel primo volume (1908) del fondamentale Manuel d'archéologie préhistorique di J. Déchelette, rifatto nella edizione del 1924.
Alla classificazione del de Mortillet ampliata e perfezionata, si contrappongono quella del Rutot, con varianti e altre denominazioni, e quella di J. de Morgan (1909). Quest'ultimo, ribadendo alcuni salutari concetti da lungo tempo sostenuti dal nostro Pigorini, in opposizione soprattutto alla rigidità schematica che costringe ad ammettere generalizzazioni e sincronismi fallaci, non risolvendo la questione degli eoliti, classifica in tre grandi divisioni le industrie della pietra scheggiata: paleolitiche (chelleana, acheuleana, mousteriana) del quaternario inferiore e medio, e senza un valore cronologico generale; archeolitiche (aurignaciana, solutréana, magdaleniana) del quaternario superiore; mesolitiche (aziliana, tourassiana, køkkenmødding, campigniana), fase di transizione al vero e proprio neolitico.
Soprattutto per opera di L. Pigorini, il quale dopo aver fondato unitamente al Chierici e allo Strobel il Bullettino di paletnologia italiana (1875), creato il Museo preistorico-etnografico al Collegio romano (1875-1876), ha, dalla cattedra di paletnologia istituita nel 1876 presso la r. università di Roma, per un quarantennio diretto in modo meraviglioso tutto l'incessante e intenso lavorio scientifico di scavi e di illustrazioni, per l'Italia il sistema del de Mortillet non fu generalmente accettato. All'infuori di una classificazione tentata da A. Mochi (1912) in accordo col sistema francese, altre non se ne fecero, ché i tipi solutréani pleistocenici e i magdaleniani in Italia non si sono mai riscontrati, né la renna varcò le Alpi. Solo negli ultimi tempi si è meglio studiata un'industria che tipologicamente è in parte affine all'aurignaciano francese, ma più ancora ai tipi dell'aurignaciano dell'Europa centrale-orientale (il cosiddetto Willendorfiano); ma c'è chi con buone ragioni crede che questo nuovo orizzonte paletnologico italiano non possa confondersi col vero aurignaciano di Francia, e preferisce chiamarlo diversamente (Grimaldiano secondo U. Rellini) e intenderlo propriamente come un paleolitico finale. Anche per i paletnologi belgi, il solutréano rappresenta una facies particolare e d'importanza affatto locale; inoltre essi preferiscono chiamare Eburneano (industria dell'avorio) e Tarandiano (industria delle corna di renna) il paleolitico superiore tripartito dei Francesi.
Scoperta oltremodo importante, vera rivelazione, fu quella delle caverne ornate di pitture, dovuta fortuitamente alla figlia dell'archeologo spagnuolo Sautuola nella celebre caverna di Altamira (prov. di Santander). La pubblicazione fattane nel 1880 dal Sautuola fu accolta da scetticismo, tale da far cadere in dimenticanza il fatto sorprendente. Ma nel 1895 E. Rivière riuscì a stabilire incontestabilmente l'autenticità dei disegni della caverna di La Mouthe (Les Eyzies); nel 1897 Daleau fece conoscere quelli della grotta di Pair-non-Pair (Gironda). D'allora si iniziò il fervido movimento che ha portato alla conoscenza di una cinquantina di grotte, ornate mirabilmente di pitture e d'incisioni, soprattutto con figurazioni d'animali, nella Francia del SO. e nella Cantabria. Nello studio di queste splendide manifestazioni d'arte quaternaria, si distinguono specialmente i nomi di Capitan, Breuil, Peyrony, Obermaier, Wernert, Cabré Aguila, Alcade del Rio, Hernández Pacheco, conte de la Vega del Sella.
Per l'età neolitica, la prima scoperta di "fondi di capanne" di Concezio Rosa fece sì che siffatte antichità venissero studiate altrove, in quasi tutti i paesi d'Europa; oltre alle esplorazioni del Chierici nel Reggiano, ricordiamo gli scavi del Belgio (Hesbaye) di Marcel de Puydt e Davin-Rigot (1902-1904).
Altra importantissima acquisizione della scienza paletnologica, dovuta allo studio italiano, fu il concetto del periodo Eneolitico, con l'introduzione delle prime armi di metallo (rame) nella civiltà neolitica; si impose con gli scavi del sepolcreto di Remedello Sotto nel Bresciano (1884), illustrati poi magistralmente da G. Angelo Colini (1898-99). Questo periodo, o meglio età secondo molti, si è rivelato straordinariamente importante per la penisola iberica, per la quale lo svedese Åberg ha compiuto recentemente uno studio sintetico (1921).
Anche la civiltà, o l'età, del bronzo, come conseguenza dell'affermarsi del sistema dei tre periodi per opera della scuola scandinava, fu oggetto di fervida discussione. Sophus Müller fin dal 1878 cercò di sostituire ai due periodi staccati del Worsaae, due gruppi simultanei, l'orientale e l'occidentale, per poi accostarsi alle vedute di Oscar Montelius, autore di celebrate e voluminose opere, fra cui anche una completa illustrazione delle primitive civiltà d'Italia dopo l'introduzione dei metalli. Il Montelius, mirando a stabilire i rapporti che il nord d'Europa ebbe con i centri culturali del mezzogiorno, basandosi soprattutto sulla tipologia delle armi, specialmente le asce, distinse sei periodi per l'età del bronzo, inquadrandoli fra il 1900 e il 500 a. C. Fin dal 1885 questo profondo studioso gettò le basi del suo sistema di classificazione, che peraltro può valere per le nostre regioni mediterranee, rafforzandolo con ampî studî comparativi, e giungendo a stabilire una cronologia non più relativa con l'aiuto del sincronismo delle scoperte di Troia e di Micene. Contributi notevoli allo svolgimento del sistema dei tre periodi furono apportati da Hans Hildebrand (1872-1873), mentre gli studî di Ingvald Undset (1881-1884) giovarono alla migliore conoscenza degl'inizî della civiltà del ferro.
Contro il sistema degli Scandinavi, specie in ciò che riguarda l'età del bronzo, mossero vivacissimi attacchi gli archeologi tedeschi, con a capo il Lindenschmidt e il Hostmann, talora troppo aspri e ingiusti; alla scienza tedesca dobbiamo gli studî più completi e minuziosi della civiltà della prima età del ferro, denominata dalla necropoli di Hallstatt (Austria), scoperta dal Ramsauer nel 1846, scavata dapprima nel 1864, ma più tardi compiutamente illustrata (1906) da Maurizio Hoernes, cui dobbiamo altri poderosi studî sul primo incivilimento d'Europa.
In Italia, con l'impulso vigoroso dato alle ricerche e agli studî da Luigi Pigorini, anche per l'età del bronzo e per la prima età del ferro si fecero dal 1875 in poi progressi considerevoli; mentre Giuseppe Bellucci, ad es., portava con le sue raccolte maggior luce sull'età della pietra dell'Umbria, e l'Issel esplorava con fortuna le caverne della Liguria, tutta una folta schiera di studiosi poneva in chiaro le varie antichità delle diverse regioni. Di capitale importanza furono le indagini di P. Castelfranco sui sepolcreti della civiltà detta di Golasecca della prima età del ferro; gli scavi del Prosdocimi nella necropoli preromana di Este, continuati poi dal Ghirardini e dall'Alfonsi; la fondamentale illustrazione del Chierici della terramara di Bellanda (Mantova); gli scavi del Ghirardini nella necropoli arcaica di Tarquinia; quelli del Brizio nel Bolognese e nel Piceno; il grande scavo decennale (1888 segg.) del Pigorini nella terramara di Castellazzo di Fontanellato (Parma), che rivelò i più minuti caratteri della civiltà terramaricola, apportatrice del bronzo nella penisola, e al cui studio contribuirono anche stranieri come il Helbig.
Di grande importanza furono anche gli scavi del Marchesetti nella necropoli di S. Lucia di Tolmino (1885-1892); quelli di Isidoro Falchi nelle ricche tombe di Vetulonia; gli scavi Pasqui-Barnabei-Cozza nel territorio falisco, i quali dettero origine al museo di Villa Giulia in Roma; le esplorazioni del Brizio a Marzabotto, del Mariani nella necropoli sannita di Alfedena. Spiccano poi per la vastità delle rivelazioni: le campagne di scavo di P. Orsi nella Sicilia, cominciate nel 1889 e mai interrotte, il cui risultato è l'aver messo in luce l'entità dei quattro successivi periodi di civiltà sicula; quelle di A. Taramelli in Sardegna, iniziate nel 1903 e anch'esse mai interrotte, rivelatrici della civiltà nuragica. Anche di straordinario incremento alla risoluzione di problemi paletnologici furono: la scoperta delle tombe a cremazione e a inumazione fatta da G. Boni sotto il piano repubblicano del Foro romano (1902-1911); il ritrovamento della necropoli di transizione dal bronzo al ferro di Pianello presso Genga (Ancona) nel 1910, illustrata poi dal Colini; la scoperta della più arcaica necropoli bolognese fuori porta S. Vitale; gli scavi di A. Minto a Populonia e a Marsiliana d'Albegna (1914-15 e 1920-21); gli scavi dello Stefani alle acciaierie di Terni (1909-1911), che rivelarono una stazione neolitica sotto i sepolcri della prima età del ferro.
Anche per le età precedenti, avvennero altre scoperte ed esplorazioni di maggiore entità. Innanzi tutto gli scavi sistematici operati nelle Grotte Grimaldi presso Ventimiglia per opera del principe di Monaco (1895-1902), illustrati dal Boule, Verneau e Cartailhac: e poi, oltre alle molte illustrazioni del neolitico siciliano per opera di I. e C. Cafici, gli scavi del Rellini nel giacimento quaternario di amigdaloidi a Terranera di Venosa (1914) e nelle cavernette dell'Agro falisco (1918), le metodiche esplorazioni di G. A. Blanc nella Grotta Romanelli presso Otranto (1919 segg.); infine le ampie escavazioni di D. Ridola e del Rellini nei villaggi trincerati del Materano d'età soprattutto eneolitica (1924-1926).
Né al solo continente europeo si limitò l'attività indagatrice, ma i paletnologi europei ben presto rivolsero l'attenzione alle regioni africane e asiatiche bagnate dal Mediterraneo; abbiamo così gli studî del De Morgan sulla preistoria egiziaria e dell'Elam, quelli del Zumhofen per la Siria, quelli del Pallary e del De Morgan e del Reygasse per l'Africa settentrionale. A ciò si aggiunga il ritrovamento dello strato neolitico sotto i palazzi minoici di Creta, dove lungamente attive furono soprattutto le missioni inglese, guidata dall'Evans junior, e italiana, diretta dall'Halbherr. Anche Creta, come già Troia e Micene, servì opportunamente per il sincronismo nell'opera di classifica.
Alle più antiche o principali scuole paletnologiche, sorte in Francia, nei paesi scandinavi, in Italia, in Germania e in Austria, se ne aggiunsero altre attivissime in quasi tutti i paesi, a cominciare dalla Spagna che in questi ultimi tempi ha mostrato un intenso lavorio scientifico, soprattutto dal centro di Barcellona sotto l'impulso del Bosch-Gimpera e da quello di Madrid dove è cattedratico l'Obermaier.
A dimostrare l'efficienza della disciplina formatasi all'incirca alla metà del sec. XIX, e sviluppatasi rapidamente con l'intenso dibattito di idee e con l'incessante apparizione di fatti nuovi, fino ad assumere una posizione indipendente con un proprio metodo, frutto di laboriosa gestazione, basti il fatto che recentemente si è completata in Germania la pubblicazione di un lessico particolare sotto la direzione di Max Ebert (Reallex. d. Vorgeschichte, Berlino 1924 e ss.), il quale, con collaborazione internazionale, valorizza nel modo piû adatto alla divulgazione tutto un secolo d'incessante e arduo travaglio di scienza.
Bibl.: J. Déchelette, Manuel d'archéol. préhist., I, Parigi 1908, p. 5 segg.; Hoernes, L'uomo (trad. ital. di V. Zanolli), I, ii, Milano 1910, p. 374 segg.; L. Pigorini, Matériaux pour l'histoire de la Paléthnologie italienne, Parma 1874; L. Pigorini, Preistoria, in Cinquanta anni di st. it., Roma 1911.
L'archeologia classica.
L'archeologia classica è lo studio della documentazione monumentale dei popoli, a cui si estese la civiltà che noi chiamiamo classica, la quale è dovuta essenzialmente ai popoli ellenici ed italici ma penetrò talora, per determinati periodi di tempo, in altri luoghi, che non siano le due regioni greca ed italica. Così la archeologia classica, per il periodo susseguente alle conquiste di Alessandro Magno, considera monumenti di luoghi remoti dell'Asia, persino della penisola indiana, e monumenti di regioni, come l'Egitto, che ebbero un corso più che millenario di civiltà non classica. Così pure l'archeologia classica, per il periodo dell'impero romano, considera monumenti del vasto territorio su cui furono piantate le insegne di Roma, poiché la civiltà classica si allargò all'occidente e al settentrione dell'Europa e in territorî dell'Africa settentrionale.
L'archeologia classica, come disciplina a sé, si occupa in principal misura dell'arte classica, poiché gli studî concernenti la vita pubblica e privata dei popoli classici, sulla base della documentazione epigrafica, costituiscono ora, nel quadro delle varie discipline, la scienza delle Antichità classiche.
Nello studio dell'arte classica l'archeologia prende in esame il fenomeno artistico, quale possiamo scorgerlo dapprima nel bacino dell'Egeo, con centro principale in Creta presso le popolazioni pre-elleniche (cioè anteriori all'inizio della storia ellenica e allo sviluppo della civiltà ellenica) siano esse o non siano anelleniche. Così l'archeologia classica dal punto di vista cronologico comincia con documenti che risalgono al 3000 circa a. C. È necessario invero includere nell'archeologia classica questa civiltà pre-ellenica o cretese-micenea perché non si potrebbe comprendere appieno quanto è contenuto nella più veneranda manifestazione letteraria greca, cioè nel canto omerico, senza conoscere i monumenti che attestano la luminosa e assai lunga civiltà anteriore cretese-micenea, di cui sono vividi riflessi nei poemi omerici. Per di più, astraendoci dallo studio di questi monumenti, non sarebbe possibile trovare la spiegazione di tante manifestazioni, che sono nella posteriore civiltà ellenica vera e propria, essendo assai forti gli addentellati tra le due civiltà.
Dopo il lungo periodo pre-ellenico, l'archeologia classica ha per oggetto del suo studio tutto il complesso dei monumenti greci, italici (specialmente etruschi) e romani, giù giù sino alla decadenza ed allo sfacelo dell'Impero romano d'occidente. Varie date si possono proporre per la fine di questa civiltà classica, oltre le quali l'archeologia classica diventa archeologia bizantina e archeologia del Medioevo; tra queste varie date sembra opportuno proporre l'anno 526, anno della morte di Teodorico, re dei Goti, ma pervaso da sconfinato amore per il patrimonio della romanità. Dopo Teodorico è invero il pieno trionfo di civiltà, e però di arte, o bizantina o barbarica.
Essendo tali i limiti spaziali e temporali dell'archeologia classica, è ovvio supporre che essa abbia rapporti, referenze, nessi con altre discipline. Ciò tanto più se si pensa che nello studio di qualsiasi monumento della civiltà classica, sia un capolavoro d'arte, sia un umile prodotto dell'industria corrente, si deve badare non solo alla forma, ma anche al contenuto. Cioè il monumento deve interessare non solo per quello che esprime nella sua sagoma e nei suoi caratteri stilistici, ma anche per quello che rappresenta, e per la funzione che esso ha. Onde la tipologia artistica e l'esegesi o ermeneutica.
Da ciò si deduce che l'archeologo classico deve ricorrere di continuo alle fonti letterarie, alle fonti storiche, epigrafiche e numismatiche dei popoli classici; da ciò si deduce che le discipline con cui esistono relazioni più o meno intense, più o meno frequenti sono: 1. l'archeologia preistorica o paletnologia; 2. l'archeologia orientale (v. Mesopotamia, Siria, Fenicia, Palestina, Asia Minore, Persia); 3. l'egittologia (v. Egitto); 4. la storia delle religioni; 5. le antichità classiche; 6. l'archeologia cristiana; 7. la storia dell'arte del Medioevo e del Rinascimento.
Ma a tali definizioni dell'archeologia classica si è pervenuti dopo un assai lungo periodo di preparazione e di formazione di questa disciplina, la quale è passata dallo stato empirico a quello rigorosamente scientifico solo durante il sec. XVIII, anzi, per dire più esattamente, verso la metà del detto secolo con l'impulso dato in modo principale da Giovanni Gioacchino Winckelmann.,
Inizî dell'archeologia classica. - Gli albori della scienza della archeologia classica si hanno quando nella lagrimevole rovina del mondo classico, con la distruzione o la mutilazione dei monumenti delle varie arti e dei documenti epigrafici, si ebbe qua e là presso qualche spirito eletto o di precursore la scintilla dell'interessamento per la scomparsa civiltà di Grecia e di Roma. Ciò avvenne anche nel passaggio dall'antichità al Medioevo.
Così, per esempio, Atenaide o Eudossia, moglie di Teodosio II, imperatore d'Oriente, si oppose al marito suo che nel 426 aveva decretato la distruzione dei templi pagani per quel che concerneva i sublimi edifizî dell'acropoli di Atene.
E, talora, i monumenti dell'antichità valsero a suscitare un fascino su animi non raffinati dallo studio: l'esempio più bello ci è offerto dai Catalani che nel 1380, essendo padroni di Atene ed ammirando il fulgido Partenone, allora convertito in chiesa cristiana, si rivolgono al loro re Pietro III perché invii soldatesche a custodire "la più ricca gioia che sia al mondo".
Ma a Roma più che in Atene si risvegliano l'interessamento, l'amore e la passione per l'antichità classica: il cardinale Giordano Orsini, contemporaneo di Alessandro III (1159-1181), inizia la serie dei collezionisti romani, per cui in seguito i palazzi, le case, le ville di Roma papale divennero altrettanti musei; oltre a casa Orsini abbiamo invero nel secolo posteriore la fabbrica di Nicolao, che è un vero museo di marmi figurati. Intanto il culto per l'antichità era ravvivato da re Federico II di Svevia (1184-1250) nel suo reame di Napoli e di Sicilia e l'influsso dell'arte antica appariva nel pulpito del Battistero di Pisa, capolavoro di Nicola Pisano (1208?-1278).
Ancora più tardi la titanica mente di Dante Alighieri viene colpita dalle antichità di Roma, da quelle antichità che scuotono l'animo passionale del tribuno Cola di Rienzo e che attraggono lo spirito mirabile, ormai pervaso di umanesimo, di Francesco Petrarca. Carattere empirico, anzi infantile, avevano i Mirabilia urbis Romae, guide molto riassuntive e piene di inesattezze, redatte per uso dei pellegrini che visitavano il centro della Cristianità.
Ma col fiorire del Rinascimento comincia ad organizzarsi meglio il ricupero e lo studio dei monumenti della civiltà classica e in tale opera gareggiano artisti ed umanisti, quelli, come già tanto tempo addietro Nicola Pisano, per trarre l'ispirazione dall'antichità, questi per avere nella documentazione monumentale il complemento della documentazione letteraria. Perciò nel 1407 Filippo Brunellesco e Donato Bardi studiano gli edifizî di Roma antica e fanno scavi; perciò nella prima metà del sec. XV si hanno i viaggi in Oriente di Ciriaco de' Pizzicolli di Ancona, pioniere glorioso dell'esplorazione archeologica; perciò si hanno i contributi alla topografia romana di Flavio Biondo, di Poggio Bracciolini, di Giovanni Rucellai, di Nicolò Muffel, si ha la fondazione dell'Accademia degli Antiquarî per impulso di Pomponio Leto (1478), si hanno in Roma le investigazioni di fra Giocondo con la conseguente Sylloge Giocondiana e nel 1500 si ha l'istituzione a Roma del Museo Cesarini, primo museo-giardino aperto agli studiosi.
Il sec. XVI. - Il sec. XVI segna un passo ulteriore per la ricerca intensificata ed estesa. Artisti come Raffaello e Michelangiolo ammirano e studiano l'arte antica; papa Giulio II nel 1506 dà inizio al Museo Vaticano raccogliendo statue nel cortile del Belvedere; vengono alla luce, dal suolo di Roma specialmente, sempre più frequenti le opere di arte plastica e perciò si costituiscono sempre più ricche collezioni di antichità (Chigi, Grimani, Este, Della Valle, Cesi, Farnese, Medici, Capitolina).
E i monumenti di queste raccolte e i ruderi romani vengono riprodotti (Martino van Heemskerck, Amico Aspertini, Marco Antonio Raimondi, Agostino Veneziano, Marco Dente, Francisco de Hollanda, Stefano Vinaud Pighius, Giovanni Antonio Dosio, Martino de Vos di Anversa, Pietro Giacomo di Reims, G. B. De Cavalleriis) o vengono elencati e studiati (Francesco Albertini, Andrea Fulvio Sabino, Bartolomeo Marliano, Ulisse Aldrovandi). Appaiono anche opere che precorrono le grandi raccolte del Seicento e del Settecento; così nel 1570 l'opera di Fulvio Orsino, Imagines et elogia virorum illustrium et eruditorum, mentre, specie intorno alla metà del secolo, dispiega la sua attività la curiosa figura di Pirro Ligorio, celebre anche come falsificatore.
Continua tuttavia in tanto fervore il deperimento degli edifizî antichi a Roma e altrove; le calcare o fabbriche di calce e l'uso di materiali antichi per nuove costruzioni costituiscono due flagelli gravissimi. Non di meno qualche monumento è oggetto di cure: così verso la fine del secolo le due colonne Traiana e di M. Aurelio.
Fuori di Roma e del suo territorio si deve menzionare l'opera di un benemerito pioniere della ricerca delle antichità siciliane: cioè De rebus siculis decades duae di Tommaso Fazello di Sciacca, edita nel 1558 e, per l'Oriente, dobbiamo menzionare Melchiorre Lorichs e Pietro Gilles.
Il sec. XVII e la prima metà del sec. XVIII. - Passiamo ai secoli della erudizione, al XVII e al XVIII (prima metà). In questi due secoli l'interesse comincia a ripartirsi tra Grecia e Italia; ché invero per la Grecia, dopo la redazione della prima pianta di Atene per opera dei cappuccini francesi (1658 circa), si ha tra il 1670 e il 1674 il viaggio del marchese di Nointel ambasciatore di Francia presso la Turchia, con disegni di monumenti antichi, massime del Partenone. Dopo vi sono i viaggi in Oriente di Giacomo Spon di Lione (1674 e seg.); di G. C. Transfeldt (1674-1676), di G. Wheler, e poi, dopo molto tempo, i viaggi degli inglesi G. Stuart e N. Revett (1751-54) e quello di R. Wood a Palmira (1753).
In Italia abbiamo ormai nel sec. XVIII i primi scavi di Ercolano (1711), gli scavi del Palatino diretti dal Bianchini (1720-27), di Villa Adriana del Conte Fede (1724-1742), ancora gli scavi di Ercolano tra il 1738 e il 1766 con la scoperta della famosa villa suburbana, la scoperta di Pompei nel 1748, i primi studî sui templi siciliani di P. Pancrazi (1751-59).
Per le ininterrotte ricerche si accrescono i musei italiani, si costituiscono i musei esteri; primo di questi è, in ordine di tempo, la raccolta Arundel in Inghilterra (1620 circa), germe da cui si sviluppa il Museo Britannico inaugurato nel 1759. E per gli studî si fondano le accademie: nel 1679 quella des Inscriptions et belles Lettres a Parigi, nel 1733 la Società dei Dilettanti a Londra, nel 1740 l'Accademia di antichità profane a Roma, nel 1755 l'Accademia Ercolanese a Napoli.
L'erudizione si manifesta in opere poderose. Così l'inizio della etruscologia si ha nel De Etruria regali di Tommaso Dempster, composta tra il 1616 e il 1619, mentre la Etruscheria culmina con A. F. Gori, Museum Etruscum, 1737-43; così l'inizio dell'archeologia cristiana si ha con l'opera di Antonio Bosio, Roma sotterranea, 1632. Ma vi sono le opere di carattere generale con grandi raccolte di monumenti: I. G. Graevius, Thesaurus antiquitatum romanarum, 1694-99; I. Gronovius, Thesaurus antiquitatum graecarum, 1694-1701; B. Montfaucon, L'antiquité expliquée et représentée en figures, 1719-24; A. C. F. De Caylus, Recueil d'antiquités, 1752-67.
La seconda metà del secolo XVIII - Un nuovo impulso alla archeologia classica dà il grande Giovanni Gìoacchino Winckelmann (1717-1768) e si può dire che la sua venuta a Roma nel 1755 segni come l'imzio di un periodo di storia di questa disciplina. L'opera principale del Winckelmann, Geschichte der Kunst des Altertums, 1764, dà l'idea migliore del rinnovamento dell'archeologia classica, ché essa è il primo tentativo di una storia sistematica di tutto lo sviluppo dell'arte antica, sicché è tracciato con questa opera e con i canoni estetici che la informano il quadro che, nelle sue linee generali, tuttora è seguito nello studio dell'archeologia classica. Il patrimonio monumentale è ora metodicamente classificato e studiato ed è sceverato nettamente ciò che spetta alla Grecia da ciò che spetta a Roma.
Il Winckelmann ebbe immediati continuatori; fra essi il più insigne è il celebre Ennio Quirino Visconti (1751-1818), sia per grandezza d'ingegno, sia per vastità di dottrina e per acutezza di osservazione. L'opera principale è il Museo Pio-Clementino, 1782-1802, in cui è illustrato il Museo del Vaticano dovuto alla energica iniziativa di papa Pio VI. E invero in questo secondo cinquantennio del sec. XVIII s'arricchiscono gli antichi musei, fra cui il Borbonico a Napoli, se ne iniziano dei nuovi, si formano cospicue collezioni, come le Albani e Borghese a Roma, e quella di sir Guglielmo Hamilton a Napoli.
In quanto a scavi si hanno in Italia quelli di villa Adriana (1769) e dell'inglese Fagan a Ostia (1796), mentre in Oriente, sia in Atene sia sulle coste dell'Asia Minore, vi è la spedizione della Società inglese dei Dilettanti del 1764 e seguenti, il cui frutto è illustrato in più volumi usciti tra il 1769 e il 1797. Per l'Oriente si aggiunga l'opera di Domenico Sestini (1777-92) e quella del francese Fauvel, che eseguisce calchi e disegni (1786-1788).
Il periodo 1800-1870. - Il secolo XIX si inizia con due opere di depredazione: l'apertura del Musée Napoléon a Parigi, costituito principalmente di oggetti d'arte strappati all'Italia; la spoliazione perpretata da lord Elgin in Atene a danno degli edifizî dell'Acropoli, specialmente del Partenone. Ma la migliore conoscenza delle antichità italiane e dei marmi ateniesi trasportati a Londra fece progredire l'archeologia classica ed incuorò a nuove scoperte e a nuove esplorazioni.
E invero si ha subito una serie di viaggi e di scavi in Oriente: il viaggio degl'inglesi Clarke, Dodwell, Gell e Leake in Grecia (1801-06), gli scavi del tempio di Afaia in Egina (1811), quelli del tempio di Apollo Epicurio a Basse (1812), la spedizione francese della Morea (1829), i lavori sull'acropoli di Atene con L. Ross, E. Schaubert, C. Hansen (all'inizio del nuovo regno di Grecia; 1833-36), l'esplorazione di C. Texier nell'Asia Minore (1833-37), il viaggio in Licia di C. Fellows (1838) con le susseguenti spedizioni inglesi del 1842 e del 1843-44, il trasporto di sculture del Mausoleo di Alicarnasso (1846 e 1852-59), gli scavi di A. Salzmann a Camiro nell'isola di Rodi (1858-65), gli scavi di L. Palma di Cesnola a Cipro (1867-76), la scoperta di terrecotte a Tanagra e di vasi geometrici del Dipylon in Atene (1870-71).
È il recupero della Grecia, a cui si accompagna quello della Etruria a cominciare dalla scoperta delle tombe dipinte a Tarquinia, a Chiusi, a Vulci (1827 segg.), via via sino alla scoperta della tomba ceretana Regolini-Galassi (1836), che dà origine al Museo Etrusco-Gregoriano al Vaticano, all'esplorazione di tutta l'Etruria per opera di G. Dennis (1842-47), all'intensa attività di scavatore di A. François, alla costituzione della grandiosa collezione del marchese Campana in Roma, il cui sfacelo avvenne nell'anno 1861.
Anche Roma e altre plaghe d'Italia furono investigate. A Roma si hanno gli studî del Canina al Foro Romano e gli scavi sul Palatino del 1861 e anni seguenti; a Ostia si riprende l'esplorazìone nel 1855; a Pompei si ha nel 1860 l'inizio della direzione di G. Fiorelli; per Cuma bisogna menzionare i rinvenimenti del conte di Siracusa tra il 1852 e il 1856; per la Sicilia si hanno gli studî dei templi selinuntini dell'Angell, del Harris, del Serradifalco. E nel 1850 inizia le esplorazioni e gli studî delle catacombe romane G. B. De Rossi.
Il centro degli studî archeologici è per gran parte del sec. XIX Roma: Roma, ove nel 1829 è fondato l'Instituto di corrispondenza archeologica che con le sue pubblicazioni diventa l'ente di maggiore importanza per il progresso dell'archeologia e dello studio delle antichità classiche nella prima metà del sec. XIX; se il primato nell'epigrafia spetta a Bartolomeo Borghesi, tale primato nell'archeologia si deve attribuire a Edoardo Gerhard (1795-1867), in cui mirabilmente si fondono l'indirizzo stilistico ed estetico e l'indirizzo ermeneutico. Dopo primeggia Enrico Brunn (1822-1894), spirito di squisita sensibilità artistica, mentre la corrente esegetica nello studio dei monumenti è rappresentata dapprima da F. G. Welcker e poi da O. Jahn. Per opera dei membri dell'Istituto, in cui prevalgono i Tedeschi e gl'Italiani, la scienza dell'archeologia classica progredisce col sussidio dei nuovi monumenti venuti alla luce, nel solco tracciato dal Winckelmann e dal Visconti. Ma col passar degli anni l'Instituto di corrispondenza archeologica, da ente internazionale e privato, diventa l'Istituto archeologico germanico, mentre non solo a Roma, ma anche in Atene si fondano istituti e scuole di varie nazioni. Precede a tal proposito la Francia con la École française fondata nel 1846; ultima è l'Italia con la scuola fondata nel 1909.
Dal 1870 ai giorni nostri. - Dopo il 1870 s'intensifica vieppiù la ricerca archeologica, si compiono grandiose esplorazioni in varie località, si ampliano e si riordinano musei, se ne fondano dei nuovi (importantissimi il Museo nazionale di Atene e i due nazionali di Roma), si svolge una fervida attività per costruire su basi più ampie e sicure la storia dell'arte classica.
Enrico Schliemann svela a noi con le scoperte di Hissarlik, ove si innalzava la Ilio omerica (1871 e segg.), delle tombe ricchissime dell'acropoli di Micene (1874), del palazzo di Tirinto (1884), un mondo nuovo, dapprima quasi del tutto ignorato: la civiltà pre-ellenica o cretese-micenea; poiché gli scavi eseguiti nell'isola di Creta hanno dimostrato all'evidenza l'importanza egemonica del dominio del mitico re Minosse durante i due millennî 3000-1000 a. C. Sono specialmente importanti gli scavi degl'Inglesi con A. Evans a Cnosso (1900 e segg.), degl'Italiani con P. Halbherr e L. Pernier a Festo e a H. Triada (1901 e segg.), degli americani con Miss Boyd a Gurnià (1908 e segg.). Ma si aggiungano le ulteriori ricerche in Grecia che valgono a completare il quadro di questa lussureggiante vetusta civiltà: da menzionare le scoperte greche nel palazzo detto di Cadmo a Tebe (1919 e segg.) e quelle tedesche nel palazzo di Tirinto (1910-13).
Per la Grecia e l'Asia Minore lunga è la serie dei campi d'attività; menzioniamo solo i principali fatti che hanno dato spiccato contributo al progresso dell'archeologia classica: l'esplorazione di O. Rayet e A. Thomas a Mileto (1872-73), gli scavi austriaci a Samotracia (1873 e 1875), gl'importantissimi scavi tedeschi a Olimpia (1875-80), quelli anche importantissimi e sempre tedeschi a Pergamo (1878 e segg.) con la scoperta dell'ara, gli scavi francesi a Delo (1879, 1902 e segg.), gli scavi greci a Epidauro (1881) e sull'acropoli di Atene per cui si riempirono lacune gravissime nell'arte arcaica greca (1885-91), le saggie ricostruzioni degli edifizî della stessa acropoli guidate da N. Balanos (1902 e segg.), i viaggi di W. M. Ramsay in Cilicia, in Lidia, in Frigia (1881 e segg.), la spedizione austriaca in Licia (1881-83), in Panfilia e in Pisidia (1885), gli scavi tedeschi a Magnesia (1891-93), a Priene (1895-1899), a Tera (1896-1901), a Mileto (1899-1907), gli scavi americani dell'Ereo di Argo (1892-94), quelli austriaci ad Efeso (1896 e segg.), quelli italiani a Prinià in Creta (1907-08), quelli inglesi nel santuario di Artemide Orthia a Sparta (1909), e finalmente gli scavi francesi a Delfi (1893-1903) che per importanza hanno riscontro con gli scavi di Olimpia; ultimi in ordine di tempo sono gli scavi degl'Italiani a Rodi e nelle isole dell'Egeo, e quelli pure degl'Italiani in Albania.
Ma altrove si è rivolta l'indagine archeologica in questo ultimo sessantennio, cioè in tutte le provincie dell'Impero romano, sia a nord e ad occidente, ove società locali e governi animano ed intraprendono le ricerche, sia a oriente e a sud, ove in paesi ora inospiti e deserti s'innalzano le solenni vestigia di Roma oppure escono dal suolo le luminose testimonianze di Grecia. Così per questa possiamo addurre gli scavi inglesi nella colonia greca di Naucratide (1884-86), il complesso magnifico dei sarcofagi di Sidone (1887). Per l'Egitto la ricerca è intensa e il materiale è raccolto nel Museo d'Alessandria; per la Libia gl'Italiani, per la Tunisia e l'Algeria i Francesi procedono a una metodica esplorazione.
In Italia abbiamo specialmente Roma e il suo territorio. Pompei ed Ercolano, la Magna Grecia, la Sicilia, l'Etruria. Per Roma vi sono gli studî di topografia, per citare solo il maestro, di R. Lanciani, e vi è stata la ricerca del Foro e del Palatino per opera di G. Boni; segue l'attività di R. Paribeni e, per la ricostruzione dei fòri imperiali e per il ricupero di altri edifizî, quella di C. Ricci e di G. Q. Giglioli. Per Ostia, centro importantissimo, l'attività di D. Vaglieri e di G. Calza; per Pompei ed Ercolano, dopo quella di A. Sogliano, quella di A. Maiuri; per la Puglia il contributo di Q. Quagliati e di M. Gervasio; per la Calabria e la Sicilia l'opera meravigliosa, ormai più che quarantenne, essendo stata iniziata nel 1888, di Paolo Orsi; per l'Etruria, dopo L. A. Milani, è l'opera di A. Minto, iniziatore di un comitato permanente per l'Etruria. E fra i centri etruschi maggiormente investigati dobbiamo annoverare Bologna (A. Zannoni, E. Brizio), Populonia (Minto), Marsiliana d'Albegna (Minto), Vetulonia (I. Falchi), Tarquinia (G. Ghirardini, L. Pernier, G. Cultrera), Cerveteri (R. Mengarelli), Veio (G. A. Colini, G. Q. Giglioli). Tutta l'attività archeologica nel campo dello scavo in Italia è raccolta nelle Notizie degli scavi di antichità, la cui pubblicazione, iniziata nel 1876, continua tuttora regolarmente.
Indirizzi e mezzi di studio. - Un impulso assai grande allo sviluppo dell'archeologia classica, per quanto riflette l'arte, fu dato da Adolfo Furtwängler (1853-1907) col suo libro Meisterwerke der griechischen Plastik, Lipsia-Berlino 1893, in cui egli ha cercato di ricostruire l'opera dei più grandi scultori greci dall'esame di determinati particolari stilistici, che si possono avvertire anche nelle tarde copie romane, seguendo in tal modo il criterio adottato da G. Morelli (Ivan Lemorlieff) nei suoi studî su dipinti del Rinascimento italiano. Il metodo, saggiamente adoperato, può condurre a buoni risultati purché non degeneri e non sia assoggettato al preconcetto e sia sempre assistito da una squisita sensibilità artistica.
Ad ogni modo il progresso dell'archeologia classica è interamente legato sia al materiale nuovo che può uscire dallo scavo e che talvolta può distruggere una teoria, tal altra può anche corroborarla, sia all'enumerazione e alla ragionata catalogazione del materiale già da tempo noto ed esposto nei musei. Da ciò la necessità, da un lato, di relazioni di scavo esatte e largamente illustrate e, dall'altro, di cataloghi di serie di monumenti di singoli musei, di corpora, cioè di pubblicazioni contenenti tutti i monumenti di un determinato genere, e di raccolte fotografiche e fototipiche di opere d'arte più o meno insigni. Ma giova soprattutto l'autopsia, cioè la visione diretta dei monumenti nei musei, e possono giovare assai, per gli avvicinamenti di opere esistenti in musei diversi, per le sculture e i rilievi, le gipsoteche o raccolte di calchi in gesso. Tale aiuto è specialmente offerto in Germania, ove sono frequenti, presso le università e i musei, le gipsoteche (a Berlino, a Dresda e a Monaco sono le gipsoteche più importanti); in Francia è ricca la gipsoteca di Strasburgo, in Italia quella di Roma.
Fra questi corpora e raccolte citiamo per la scultura: E. Brunn e F. Bruckmann, Denkmiäler griechischer und römischer Sculptur, Monaco 1888 e segg.; P. Arndt-W. Amelung, Photographische Aufnahmen antiker Sculpturen, 1894 e segg.; per la pittura: P. Herrmann-F. Bruckmann, Denkmäler der Malerei des Altertums, Monaco 1906 e segg.; per i vasi dipinti: A. Furtwängler e K. Reichhold, Griechische Vasenmalerei, Monaco 1900 e segg.; Corpus vasorum Antiquorum della Union académique internationale, 1921 e segg.; per le terrecotte: Die antiken Terrakotten, 1880 e segg.; per le gemme: A. Furtwängler, Die antiken Gemmen, Lipsia-Berlino 1900.
Di uso scolastico, ma di grande utilità pratica sono i Répertoires di S. Reinach: Répertoire de la statuaire, voll. I-V, Parigi 1916-1924; Rép. des vases peints, 2a ediz., voll. 2, 1924; Rép. des reliefs, voll. 3, Parigi 1909-12; Rép. des peintures, vol. I, Parigi 1912.
Bibl.: H. Bulle, Handbuch der Archäologie, Monaco 1913, fasc. i, pp. 1-184; G. Ghirardini, L'archeologia nel primo cinquantennio della nuova Italia, Roma 1912; A. Michaelis, Un secolo di scoperte archeologiche (trad. ital. E. Pressi), Bari 1912; G. E. Rizzo, Storia dell'arte greca, Torino 1913, pp. 13-49; C. B. Stark, Systematik und Geschichte der Archäologie der Kunst, Lipsia 1880.
L'archeologia cristiana.
Questa disciplina, che si occupa della tradizione rivelata dai monumenti dell'antichità cristiana in contrapposizione alla tradizione letteraria, può definirsi: quella parte della scienza dei monumenti che è volta alla ricostruzione integrale e obiettiva della vita cristiana nell'antichità e nel Medioevo. Dicendo "integrale" noi vogliamo affermare che questa disciplina si occupa dei monumenti maggiori e minori, anche cioè di quelli che paiono destituiti di qualsiasi valore estetico. Né il fine estetico deve orientare le ricerche dell'archeologo, perché egli si preoccupa soltanto di esaminare i monumenti in rapporto al culto e alla vita cristiani cui essi servirono. Lo storico dell'arte vedrà poi come l'idea religiosa sia stata compresa dall'artista e quali forme gli abbia suggerito.
Dicendo "obiettiva" noi vogliamo affermare che nessuna preoccupazione personale d'ordine religioso può influire sulla ricerca dell'archeologo, la quale dev'essere di carattere eminentemente positivo. È aliena perciò da quel connubio che produsse la cosiddetta teologia monumentale. Diverso è il campo dell'archeologo da quello sondato dal teologo e dall'apologeta. La sola grande responsabilità dell'archeologo è di offrire ad essi con equilibrata coscienza dei materiali schietti, di valore assoluto.
Con ciò noi non intendiamo affatto condannare la produzione archeologica elaborata sino agli inizî del sec. XIX, sia presso i cattolici sia presso i protestanti. Tutte le scienze nel passato hanno, in tutto o in parte, obbedito ad indirizzi preconcetti e sarebbe stato ben strano che vi si fossero sottratte proprio quelle discipline che toccavano argomenti vivi di carattere religioso. Certo, come più avanti vedremo, l'archeologia cristiana deve proprio al fine della dimostrazione religiosa il suo magnifico impulso. Ma noi dobbiamo onestamente osservare che questo fine non ha impedito ai grandi ricercatori (specie nel campo cattolico) di veder giusto, dimodoché sulle loro opere ben poche tare debbono farsi. E queste tare sono spesso imputabili allo stato generale delle discipline storiche, giacché in errori analoghi cadevano coloro che si ripromettevano di seguire tesi affatto diverse.
Ciò premesso, noi rileviamo che l'archeologia cristiana sorge fra i cattolici insieme con la rinnovata storia ecclesiastica col fine preciso di opporre solidi argomenti alle confutazioni dell'eresia luterana. L'aiuto celeste accompagnò questi inizî con importanti scoperte fortuite. E gli studi e le scoperte che seguirono valsero a promuovere il maggior culto delle reliquie quae viva membra fuerunt Christi, e a difendere l'uso delle sacre immagini secondo le prescrizioni del concilio di Trento.
Due personaggi eminenti sono i grandi promotori delle ricerche storiche ed archeologiche: il card. Marcello Cervini (poi papa col nome di Marcello II) e S. Filippo Neri. Ambedue sono anche due atleti della Controriforma. Il card. Cervini protesse ed avvivò le ricerche del dottissimo umanista frate Onofrio Panvinio da Verona, cui si debbono pubblicazioni di documenti fondamentali per la storia di Roma e della sua Chiesa, come pure numerose indagini sulle basiliche romane in parte pubblicate, in parte rimaste allo stato di manoscritto (i mss. panviniani sono quasi tutti conservati nella Biblioteca Vaticana; per altre notizie su questo autore si veda alla voce panvinio).
S. Filippo Neri (v.) fu a capo del celeberrimo cenacolo dell'Oratorio secolare presso S. Giovanni de' Fiorentini e alla Vallicella in Roma. Noi sappiamo, per testimonianza del suo devoto seguace Cesare Baronio, che fu lui a determinarlo a scrivere gli Annales Ecclesiastici. Nell'Oratorio vi furon molti che si dettero alle ricerche archeologiche, cui avevano preluso le scoperte sulla Salaria (quella ad es. della Vigna Sánchez avvenuta il 31 maggio 1578) e altrove.
Sono del cenacolo filippino, oltre al Baronio, l'Ugonio, il Gallonio, il Severano. Del primo abbiamo detto; il terzo scrisse un'opera sugli strumenti di martirio per dimostrare la realtà dei terribili patimenti degli antichi martiri cristiani. Il secondo e il quarto hanno particolare importanza non soltanto per le opere che essi stessi composero (l'Ugonio, penitente di S. Filippo, ebbe da questo l'incarico di comporre un'operetta sulle antiche basiliche stazionali per servire a una devozione istituita dal santo); ma puranco per quel che influirono sul primo grande archeologo cristiano: Antonio Bosio.
L'opera scientifica del Bosio sarà indagata più compiutamente altrove (v. bosio), ma intanto ricordiamo le sue indagini accuratissime in tutti i cimiteri suburbani di Roma, anche in alcuni di cui noi oggi abbiamo perduto completamente la traccia. Questi rilievi, illuminati dalla grande cultura dell'autore (su cui influirono non poco i precedenti studî panviniani) furono riuniti in una grande opera che l'autore non poté veder pubblicata. Dopo la sua morte apparve a cura di Giovanni Severano, che vi fece qua e là varianti ed aggiunte e che l'aumentò di un quarto libro interamente da lui redatto. Ebbe per titolo: Roma sotterranea.
Oltre agli studî del Bosio (il "Colombo delle catacombe", come lo chiamerà De Rossi), dobbiamo ricordare quelli di Filippo de Winghe, del Ciacconio e di Giovanni l'Heureux, relativi a pitture e mosaici. ll de Winghe ed il Ciacconio fecero anzi eseguire delle copie a colori che si conservano in alcuni codici a Roma (Bibl. Vaticana) ed altrove.
Con la pubblicazione in varie edizioni della indicata Roma sotterranea si chiude il periodo della fondazione della disciplina che va dai primi tempi della Riforma cattolica al 1650 circa.
Dopo il 1650 si ha una sosta di quasi cinquant'anni, in cui la ricerca affannosa dei corpi dei martiri fa mettere a soqquadro i cemeterî cristiani.
Perciò bisogna oltrepassare questa pausa per individuare un nuovo periodo che va dal 1700 al 1850 circa. È in questa seconda fase che si compie un proficuo lavoro, giacché si utilizzano i risultati acquisiti contribuendo alle speciali indagini di ciascun gruppo della scienza archeologica. Il rinato spirito scientifico avvia questa disciplina a passare dalla erudizione alla vera scienza.
Come ha osservato il Kaufmann, il frutto scientifico più abbondante su la fine del sec. XVII incomincia di nuovo per opera degli Italiani. A capo degl'indagatori stanno: Raffaele Fabretti e Marcantonio Boldetti "ai quali, fra gli altri, Mabillon e Schelstrate sono debitori di molti suggerimenti e delle indagini di diversi cemeterî". Il Fabretti contribuì potentemente allo studio epigrafico con l'opera sulle iscrizioni, che ne comprende molte cristiane. Il Boldetti, oltre alle iscrizioni, si occupò anche degli altri monumenti, ma col preconcetto di voler esaltare le reliquie dei corpi santi rinvenute nei cemeterî, contro la critica del benedettino Mabillon che faceva numerose riserve sull'autenticità di molte reliquie. Questo preconcetto ha fatto sí che l'opera del Boldetti debba essere usata con precauzione, facendovi difetto il senso critico e la sicurezza della testimonianza. È invece assai pregevole se la si consideri dal punto di vista dell'imponenza dei materiali raccolti, e se si pensi al fatto che, forse per la prima volta, l'archeologia cristiana vi appare nettamente come scienza dei monumenti. Il Boldetti poi non si occupò soltanto dei cemeterî di Roma (quantunque l'opera abbia per titolo: Osservazioni sopra i cimiteri dei santi Martiri ed antichi cristiani di Roma, Roma 1720, voll. 2), ma fece anche menzione di quelli del resto d' Italia e dell'estero.
Sul Mabillon converrà discorrere in apposito articolo, data la importanza di questa figura di studioso (v. mabillon); per la stessa ragione sarà illustrata a parte la figura del grande indagatore delle antichità medievali L. A. Muratori (v.). Ricorderemo di volo, fra i settecentisti, il Ruinart, editore degli Atti dei martiri, il Montfaucon (altro indagatore di documenti comparati coi monumenti); il Marangoni (illustratore dei monumenti profani riadoperati dai cristiani; v. il suo: Delle cose gentilesche et profane transportate ad uso ed ornamento delle chiese, Roma 1744) e soprattutto il Ciampini che in due grandi pubblicazioni in folio pubblicò (desumendoli da ciò che ancora esisteva e da ciò che era scomparso, ma di cui si conservava il ricordo in disegni, ecc.) le pitture, i mosaici e i monumenti architettonici di Roma e, in parte, di Costantinopoli (Vetera monumenta in quibus praecipue musiva opera illustrantur, Roma 1690-1699, voll. 2; De Sacris aedificiis a Costantino Magno constructis, Roma 1683). Altri, specializzandosi, s'applicarono ad illustrare le sculture e pitture (Bottari), i vetri dipinti (Buonarroti), i dittici d'avorio (Gori). Altri ritornarono con maggior metodo alle epigrafi (Gori, Maffei, ecc.). Francesco e Giuseppe Bianchini, con assai larga visione e con metodo rinnovato, mettono a contributo monumenti e documenti per riscrivere la storia della Chiesa (v. bianchini, Giuseppe e Francesco).
Intanto la storia dell'arte cristiana comincia a svilupparsi dall'archeologia, grazie soprattutto a Seroux d'Agincourt (Histoire de l'art par les monuments, ecc., pubblicata dopo la morte dell'autore avvenuta nel 1814, Parigi 1823; ed. ital., Milano 1824-25).
Agli inizî del sec. XIX Sarti e Settele ripubblicano, con aggiunta di eruditi e profondi commenti, l'opera del Dionisi sulle grotte vaticane; il Cordero di S. Quintino si volge all'architettura italiana del periodo longobardo: lo Schulz ai monumenti dell'Italia meridionale. Il protestante Augusti nella sua Archeologia dell'Arte fa un posto cospicuo alle Antiquitates christianae e su questa strada lo seguono molti altri dotti tedeschi di questo primo Novecento.
Verso la metà di tal secolo un insigne studioso della Compagnia di Gesù, il padre Marchi, che si era occupato fino allora di numismatica, pensò ad interessarsi di antichità cristiane, ed a lui infatti dobbiamo un'acuta opera sull'architettura cemeteriale (Monumenti delle arti cristiane primitive, Roma 1844).
Il Marchi può ben dirsi il maestro del grande scopritore di antichità cristiane ed iniziatore del periodo moderno della disciplina, Giov. Battista de Rossi. La vasta opera del De Rossi sarà esaminata nell'articolo a parte che tratterà di lui (v. de rossi, Gio. Battista). Intanto rileviamo che a lui si deve la riscoperta dei più importanti centri cemeteriali, di cui si era da tempo perduta la traccia (sebbene fossero stati percorsi nel sec. XVI e XVII). Memorabile il ritrovamento di Callisto, avvenuto quando, dalla semplice traccia di una mutila ed erratica iscrizione (quella del sepolcro di papa Cornelio) balenò al De Rossi l'idea della vera collocazione della celebre catacomba. La illustrazione delle numerose scoperte del De Rossi è affidata alla sua Roma sotterranea, alle Inscriptiones Christianae urbis Romae VII saeculo antiquiores, al Bullettino di Archeologia cristiana ed a infinite altre pubblicazioni. Anche il terzo periodo delle ricerche cristiane archeologiche aveva perciò a capo un grandissimo italiano.
Alcuni continuatori dell'opera del De Rossi furono lo Stevenson, il Kanzler, Mariano Armellini, il Duchesne ed il Marucchi. A parte deve mettersi (anche se avvantaggiato dalle ricerche del De Rossi) il gesuita padre R. Garrucci, che nella sua Storia dell'arte cristiana nei primi otto secoli della Chiesa (Prato 1873-1880) preparò abbondanti materiali per la storia dell'arte intera, sotto l'aspetto peraltro dello svolgimento iconografico.
Ispirati al grande esempio del De Rossi, sorsero in Francia il Le Blant (caposcuola francese dei nuovi studî sull'archeologia cristiana), il Martigny (autore di un Dictionnaire des antiquités chrétiennes, Parigi 1865, 2a ed. 1878) ed altri. Abbiamo detto del Duchesne, che è soprattutto lo storico della Chiesa e che s'immortalò nell'edizione del Liber Pontificalis della chiesa romana. In Germania vi è anzitutto F. Piper di Berlino, poi il Hübsch (acuto indagatore delle architetture basilicali cristiane), poi sopra tutti F. Saverio Kraus.
Dopo questo periodo gli studiosi si sono moltiplicati, ed è avvenuto un più netto differenziamento fra i cultori dell'archeologia e quelli della storia dell'arte.
Dei primi, nell'età contemporanea, ci piace rammentare la veneranda figura del nominato discepolo del De Rossi, O. Marucchi, il quale ha insegnato per più di vent'anni archeologia cristiana nella facoltà di lettere dell'università di Roma. E ricordiamo pure la bella figura di padre F. Grossi Gondi della compagnia di Gesù (da poco scomparso) che ci diede un manuale organico, veramente "moderno" di archeologia cristiana.
Purtroppo la schiera dei cultori italiani di questa disciplina si è assottigliata, mentre all'estero è in aumento. Fra gli studiosi stranieri non è possibile dimenticare J. Wilpert, che ha pubblicato in edizione grandiosa e in tavole a colori le pitture e i mosaici dei cemeterî e delle basiliche. Egli ora va preparandosi alla pubblicazione di un monumentale Corpus dei sarcofagi cristiani.
Fra i giovani che hanno intrapreso lo studio dell'archeologia cristiana, cercando di applicare ad essa i nuovi criterî ed i nuovi metodi di lavoro scientifico, ricordiamo in Italia E. Josi, ispettore delle catacombe, e C. Cecchelli, docente di archeologia della prima età cristiana e del Medioevo nell'università di Roma. All'estero ricordiamo, fra altri, lo Styger, professore all'università di Varsavia, e il Dölger. Nelle contrade germaniche è ancor vivo l'insegnamento di due archeologi che già s'illustrarono nel periodo trascorso: si accenna specialmente al Sauer e allo Schultzer, l'uno professore a Friburgo, l'altro a Greifswald. A Friburgo è anche insegnante il dotto prof. Kirsch, che ora è stato preposto al nuovo Istituto di archeologia cristiana sorto in Roma con larghi mezzi per volontà di S. S. Pio XI.
Bibl.: Un denso capitolo sulla storia dell'archeologia cristiana contiene l'ottimo Handbuch der christlichen Archäologie di C. M. Kaufmann, 3ª ed., Paderborn 1922. Si veda pure: C. Cecchelli, Archeologia della prima età cristiana e del Medioevo, I (in continuazione; primi fascicoli usciti nel 1928, in Roma).
Per ciò che riguarda il periodo delle origini si veda specialmente: P. Fremioth, La riforma cattolica del secolo decimosesto e gli studi di archeologia cristiana, Roma 1926; A. Valeri, Cenni biografici di Antonio Bosio, Roma 1900; D. A. Perini, Onofrio Panvinio e le sue opere, Roma 1899.