Architettura
Il rapporto tra a. e cinema, ricco di implicazioni, scambi e sfumature, non può essere analizzato soltanto come un problema di scenografia inerente alla scelta o all'invenzione degli ambienti più adatti a funzionare da sfondo o da contenitore per il movimento dei personaggi e della macchina da presa, ossia allo svolgimento dell'azione in genere; né è possibile illustrarlo solo come la compenetrazione tra rappresentazione filmica e città che, in quanto organismo complesso, ricco di risvolti storici, urbanistici e sociali, oltre che architettonici, implica aspetti particolari e suggestioni altre che richiedono un diverso tipo di approfondimento. E non può essere risolto configurandolo come un insieme di soluzioni inventive e tecnico-organizzative che più propriamente devono essere affrontate trattando di scenotecnica (v. arredi scenotecnici) e della struttura del set. Affinità e differenze tra le due arti ruotano infatti attorno al loro comune fondamento come arti dello spazio, che nel caso dell'a. è costruito, più o meno duraturo, fruibile, funzionale al vissuto umano e, a volte, espressione simbolica di prestigio e potere. Il cinema a sua volta, partito dagli intenti documentari del suo primo periodo (i fratelli Lumière), passando attraverso la frontalità di origine teatrale delle prime messe in scena, ha finito per elaborare i fondamenti di una propria spazialità specifica, basata sulla grammatica dei piani e del movimento (degli attori e della macchina da presa), sulle tecniche di montaggio e di illuminazione, e così via.
I materiali dell'inquadratura, i luoghi, le cose, gli oggetti che compaiono, oltre ai corpi, nei primi film 'dal vero' (quella che sarà poi chiamata realtà profilmica: v. profilmico), furono selezionati e scelti dai primi registi-fotografi privilegiando le azioni dinamiche, drammatiche o comiche, preferibilmente pittoresche, svolte in esterni, ed evitando soggetti come le architetture, considerati troppo statici; basta pensare ai titoli dei film girati da Louis Lumière nel 1895: La sortie des usines Lumière, La sortie du port, Baignade en mer ecc. E quando Lumière sceglie di inquadrare un muro (Démolition d'un mur) lo fa solo perché il muro sta per essere demolito. Da parte sua Georges Méliès già dal 1896, pur senza abbandonare del tutto le scene dal vero, si affidò soprattutto a riprese 'in studio', girando film fantastici basati su trucchi teatrali e ottici, e inaugurando così una prassi (poi divenuta corrente in quasi tutto il cinema di finzione del periodo muto) secondo la quale l'a. (invisibile) dello studio è la matrice contenente le singole scene, quasi tutte di interni e ancora prevalentemente dipinte.
Si può dire, dunque, che l'incontro tra spazialità del cinema e spazio architettonico in senso proprio (fruibile e percorribile) fu annunciato dalle prime realizzazioni di scene totalmente o parzialmente ricostruite in legno, stucco o cartapesta, nelle quali lo spazio, sottratto alla frontalità teatrale, diveniva più o meno percorribile in profondità. Una tale tendenza, iniziata negli anni Dieci del 20° sec. dai registi italiani dei primi kolossal in costume (Enrico Guazzoni, Giovanni Pastrone, Mario Caserini, Luigi Maggi ecc.), con l'ausilio di architetti-scenografi e di artigiani abilissimi, culminò nell'epopea delle scenografie 'costruite' dall'architetto Camillo Innocenti per Cabiria (1914), diretto da Pastrone che esercitò una grande influenza anche sui registi David W. Griffith e Cecil B. DeMille. Sul piano della ricostruzione di grandi ambienti storici, tuttavia, bisogna ricordare un precedente francese, L'assassinat du duc de Guise (1908) di Charles Le Bargy e André Calmettes, nel quale gli enormi saloni del castello di Blois erano stati riprodotti in studio dallo scenografo Émile Bertin. È in queste scenografie, per quanto 'false', per quanto ancora in larga misura 'posticce' (ma percepite come vere dal pubblico d'allora), che lo spazio architettonico cominciò a imporre le sue peculiari proprietà di indirizzo e strutturazione della spazialità filmica, fino all'apoteosi hollywoodiana di Intolerance diretto nel 1916 da Griffith. Nelle tre parti di questo film, le mura dell'episodio babilonese erano state ricostruite in modo talmente solido da essere effettivamente percorribili da carri lanciati in corsa, mentre l'episodio della notte di S. Bartolomeo si ispirava evidentemente a L'assassinat du duc de Guise; occorre tuttavia evidenziare la peculiarità dell'episodio moderno, ricco di scene dal vero girate per le vie di New York (forse per la prima volta in un film di fiction), nelle quali si afferma la presenza della città, delle strade e delle architetture urbane come indici di realismo, a garanzia di una esigenza di veridicità.
Da allora, salvo eccezioni coscientemente perseguite (sarà il caso del cinema espressionista tedesco, v. oltre), il rapporto tra scenografia e a. si misurerà sul grado più o meno completo di mimetismo della prima rispetto alla seconda, ferma restando l'esigenza, espressa dai più avvertiti, che a volte piccole 'infedeltà' e impercettibili deformazioni fanno aumentare, anziché diminuire, il tasso di verosimiglianza. Situando dunque il primo anello di una catena significante in una (largamente mitica) 'realtà' naturale, senza intervento dell'uomo (o meglio, senza suo intervento evidente e visibile), l'a. si porrebbe al secondo grado, con caratteristiche che la distinguono nettamente dal terzo, ossia la scenografia. L'architettura è fatta per durare un tempo più o meno lungo, e comunque tale da permettere lo svolgimento nel suo ambito almeno di una stagione umana vitale completa; ha una distribuzione spaziale finalizzata a specifici scopi pratici; presenta un suo codice strutturale altrettanto specifico, che risulta condizionato dalla gravità e dalla scienza delle costruzioni, anche se la nozione di a., come forma autonoma, idea-forma, è stata stabilita relativamente tardi, nel Quattrocento, attraverso le opere e l'elaborazione teorica d'un architetto umanista come L.B. Alberti. La scenografia, al contrario, è per sua natura effimera, la sua durata è quella del tempo del film (si può parlare di edilizia scenica solo riferendosi al suo scheletro 'insignificante'); diverse sono le sue leggi economiche, meno aderenti alla realtà che la circonda spazialmente, quanto strettamente vincolate alla realtà poetica dell'opera alla quale appartiene; diversi sono i suoi criteri di funzionalità: il suo rapporto non è con l'uomo, ma con l'immagine filmica, l'ultimo anello della catena, la quale è, a sua volta, altro dalla scenografia, il suo distillato, la sua trasparenza.
Si parta dal caso più semplice, ovvero il documentario d'architettura in cui lo spazio edificato, il monumento, il complesso urbanistico, o addirittura l'ambiente urbano, costituiscono la ragione stessa del film. Non è un caso se per realizzarne si è dovuto attendere un sufficiente sviluppo della fluidità di movimento della macchina da presa, che fosse in grado di superare lo svantaggio della presunta staticità del manufatto architettonico. Proprio l'utilizzo del piano-sequenza, più che del montaggio, sarà in grado di ricalcare un'esperienza di concatenamento e fluidità nella percezione degli spazi, analoga a quella, reale, di un ipotetico fruitore.
Non si tratta solo dell'omologia tra organizzazione dei percorsi dello sguardo nell'a. e nel cinema; o meglio, si può anche dire che si tratta di questo, a patto di far corrispondere ai percorsi dello sguardo le suggestioni tattili, motorie (corporee) di una vera e propria scienza delle relazioni spaziali (prossemica). Si è in presenza cioè di uno sguardo, quello della macchina da presa, che tocca e sente, in grado di farci percepire le caratteristiche spaziali di un ambiente o di un manufatto architettonico, il modo in cui si rapporta a quelli limitrofi, il suo colore, peso e leggerezza, la tessitura delle sue superfici, l'aria che vi circola, il rapporto con l'esterno, il non-costruito, il vuoto, il verde, il cielo. E il tempo: ogni architettura ha il suo tempo, che non è quello dell'epoca di costruzione, ma è il tempo relativo allo spazio in cui l'opera architettonica è collocata.
Se si ipotizza il gesto inaugurale dell'a. nell'organizzazione dello spazio vissuto, nella messa in opera di un sistema di 'soglie' che inevitabilmente frazionano e diversificano l'universo isotropo dello spazio prearchitettonico, tendendo peraltro a ricomporne l'unità nella continuità del divenire, allora il cinema opera in direzione dell'abbattimento delle soglie, o del loro superamento, a opera di un corpo senziente che è quello della macchina da presa, anche nella totale mancanza di presenze umane. È certo, però, che l'occhio della macchina da presa vede (sente) di più, e diversamente, rispetto a quello umano, fosse pure del regista; ed è proprio per questo che la nozione stessa di documentario deve comunque essere considerata problematica, collegata a una visione filtrata ed evidenziata dalla macchina da presa e non meccanica, che prescinda, almeno fino a un certo punto, da ogni presunta corrispondenza biunivoca con l'intenzione progettante.
Si prenda quello che si può considerare il documentario di architettura più famoso: La Tour di René Clair (1928). Clair aveva già utilizzato la Tour Eiffel per il suo primo film, Paris qui dort (1923), in cui questa si presta a fare da scenografia per un soggetto di finzione, ma in fondo coerentemente narrativo. Nel 1928, invece, una macchina da presa in continuo movimento, soprattutto verticale, mostra parti meccaniche, ingranaggi, ruote dentate, ascensori, travi metalliche che si incrociano come i rami di una foresta di ferro, o come le passerelle, trasposte in acciaio, delle Carceri disegnate e incise da G.B. Piranesi a metà del Settecento. Molti hanno sottolineato l'omologia tra il montaggio del film di Clair e le suggestioni del cubismo, per cui l'immagine in fondo ottocentesca della Torre perde la sua unità, frantumandosi in mille prospettive contrastanti e sovrapposte. In Le vertige (1926) diretto da Marcel L'Herbier, all'interno del soggiorno in stile razionalista ideato dall'architetto Robert Mallet-Stevens, su una delle pareti campeggia proprio un quadro del pittore R. Delaunay che è l'ennesima scomposizione cubista della Tour Eiffel: si veda, tuttavia, l'effetto prodotto dalla macchina-cinema (di Clair) sulla macchina-architettura (di G. Eiffel), al di là di quello a cui la pittura poteva arrivare con i suoi mezzi specifici. All'inizio del film un montaggio di fotografie mostra il crescere della costruzione, dai primi piloni, edificati nel 1887, fino al completamento del 1889 (anno dell'Esposizione mondiale), e qualche inquadratura mostra visioni dall'alto, con la Senna e le figure umane sempre più piccole, oppure indugia aneddoticamente sul rito delle foto-ricordo; man mano che il film va avanti la macchina da presa non fa che salire sempre più in alto, inoltrandosi in una vera e propria vegetazione di ferro, per poi lentamente ridiscendere. È allora che si manifesta il vero e proprio effetto cinematografico, l'illusione ottenuta dalla macchina: la macchina da presa scende, e sembra che la Torre salga. Il cinema mette in movimento l'architettura: non si limita a muoversi in essa, ma la fa muovere, investendone la presunta staticità con la forza del proprio dinamismo cinetico.
Ci si può chiedere, in questo quadro, quale ruolo abbia dunque giocato l'avvento dell'a. moderna come momento di rottura (rispetto a quella del passato) analogo, sotto certi aspetti, alla discontinuità introdotta (almeno teoricamente) dal cinema nei confronti del teatro.
Già Mallet-Stevens, allievo dell'austriaco J. Hoffmann, scriveva, nel 1925: "L'architettura moderna è essenzialmente fotogenica: grandi piani, linee rette, sobrietà d'ornamenti, superfici uniformi, netta opposizione tra ombra e luce; si può sperare in uno sfondo migliore per le immagini in movimento, una migliore opposizione per mettere in risalto la vita? In un prossimo avvenire, l'architetto sarà il collaboratore indispensabile del regista. […] Le esigenze del cinema hanno creato un'architettura semplice, i nuovi materiali da costruzione, come il cemento armato, hanno lavorato nella stessa direzione, i risultati devono dunque convergere verso uno stesso fine e se a questo aggiungiamo l'odierna 'economia' che non ammette il superfluo, nonché il gusto attuale per la 'macchina' essenzialmente pura e geometrica, dovremo arrivare a una concezione unitaria tra architettura-cinema e l'architettura abitativa in senso proprio" (Le cinéma et les arts: l'architecture; trad. it. 1986, pp. 28-29).
Mallet-Stevens per il cinema aveva realizzato le 'architetture sceniche' di L'inhumaine (1924; Futurismo) e Le vertige di L'Herbier; come architetto, progettò e costruì la villa del visconte di Noailles a Hyères, che successivamente sarebbe servita da set per un altro film d'avanguardia, Le mystère du château de dés (1929) di Man Ray. Quel tipo di realizzazioni sceniche risultavano affini alle soluzioni architettoniche adottate in nome delle nozioni tipiche dell'a. moderna; ma Mallet-Stevens realizzò anche scenografie di film in costume nella convinzione che la scenografia, senza essere reale, deve essere vera, o meglio deve avere l'apparenza della verità. E questo avviene 'a teatro' (e nel cinema) per l'attore che deve interpretare una parte e allo stesso tempo 'essere' quel personaggio. Ma anche nella vita, e dunque anche nell'a., Mallet-Stevens fu uno dei pochi architetti 'moderni', a confessare una propensione per l'apparenza, tanto da esporsi ai rimproveri dei funzionalisti, che lo tacciarono spesso di eclettismo.
Comunque sia, realizzando per L'inhumaine l'esterno del laboratorio dell'ingegnere Norsen, cui fanno da contrappunto, come interni, la 'sala del laboratorio' (ideata da F. Léger) e la 'sala della resurrezione' (di Alberto Cavalcanti), Mallet-Stevens riuscì a offrire una specie di quintessenza, di idea sublimata della sua a., come un cubismo onirico, che esplicitava i principi formali soggetti a inevitabili compromessi di carattere pratico e funzionale negli edifici realizzati (si veda specialmente il bellissimo plastico in scala). Un film come L'inhumaine, alla realizzazione dei cui décors, oltre Mallet-Stevens, Léger e Cavalcanti, parteciparono Claude Autant-Lara (ideatore del giardino d'inverno), Pierre Chareau (per gli arredi nelle scene d'interni), Paul Poiret (per i costumi) e altri, voleva essere programmaticamente (secondo quanto sostenuto dallo stesso L'Herbier) un compendio provvisorio della ricerca plastica in Francia due anni prima dell'Esposizione di arti figurative del 1925, dunque un vero e proprio manifesto dell'arte francese, da contrapporre alle suggestioni dell'Espressionismo tedesco, e da propagandare tramite il nuovo medium cinematografico.Come ha scritto M. Canosa: "Il film trascrive nei décors le forme prodotte dalle ricerche pittorico-plastiche che si sono espresse fino alla metà degli anni Venti. E viceversa: a quelle ricerche ‒ che hanno già rotto gli argini della separatezza ‒ il cinema offre l'eccellenza di uno spazio di sperimentazione, nonché la garanzia di una diffusione di massa. Il 'moderno' marca l'iconografia del film non meno che il lavoro del set" (1986, p. 2). Lo stesso L'Herbier diresse nel 1929 L'argent (da É. Zola), per il quale Lazare Meerson e André Barsacq prepararono scenografie 'moderne' (una banca, uffici) di grande effetto; ma venne anche utilizzato, come set, l'edificio della Borsa di Parigi, secondo una tradizione di eclettismo spaziale tipica del cinema.
L'incontro tra il cinema e l'arte moderna avvenne sul finire degli anni Dieci e negli anni Venti attraverso strade diverse. Attraverso il Futurismo in Italia e in URSS: per l'URSS, v. oltre; per l'Italia, occorre almeno ricordare Thaïs (1917) di Anton Giulio Bragaglia, con scene di Enrico Prampolini, e rammentare che alcuni tra i migliori scenografi italiani, dall'epoca dei 'telefoni bianchi' al Neorealismo, provenivano, come per es. Virgilio Marchi e Guido Fiorini, dalle file degli architetti futuristi. Attraverso l'Espressionismo in Germania, dove si svilupperà anche il film astratto, con i vari Hans Richter, Viking Eggeling, Walter Ruttmann, Oskar Fischinger. Attraverso il Cubismo, il Dadaismo e poi il Surrealismo in Francia. In tutte queste esperienze, però, il ruolo delle suggestioni pittoriche prevalse su quello architettonico, fino al vero e proprio nodo problematico costituito dal cinema espressionista tedesco, che si può intendere come sperimentazione di un'a. portata al limite della credibilità logica e costruttiva dalle tensioni e deformazioni pittoriche. In quello che è considerato il primo film espressionista, Das Cabinet des Dr. Caligari (1920; Il gabinetto del dottor Caligari) di Robert Wiene, la deformazione era cercata, voluta, esasperata, in funzione di un simbolismo per cui le immagini che appaiono sullo schermo devono immediatamente caratterizzarsi come fenomeni dell'anima ('paesaggio impregnato d'anima', dirà lo scenografo Hermann Warm).
Invero, il punto fondamentale in cui si gioca la riuscita del film espressionista è proprio il trattamento plastico dell'attore, di questa contraddittoria materia vivente che un regista teatrale come G. Craig avrebbe voluto 'marionetta', ma che marionetta difficilmente riesce a diventare: per soddisfare le aspirazioni sincretistiche e totalizzanti della volontà di forma espressionista, il 'costruito' si rivela molto più adatto, integrandosi, con il gioco delle luci e delle ombre perfezionato ai limiti del virtuosismo, ai gesti, ai movimenti e al trucco degli attori. Inoltre, l'istanza di irrealizzazione della scena espressionista, non solo privilegiando la diagonale, la serpentina, l'obliquo, ma prescindendo completamente da ogni principio prospettico, va in certo senso oltre il segno e in tal modo sembra mettere pericolosamente in crisi la credibilità stessa del cinema, riaccostandolo alla stilizzazione teatrale.Il problema si ripropose a Wiene nel 1923, per Raskolnikow, per il quale egli chiese allo scenografo russo Andrej Andreev un'ambientazione tutta realizzata secondo linee oblique. Un lampione si appoggia a una casa, e risultano obliqui lo spigolo di questa, gli stipiti delle finestre, l'alzata del marciapiede, per di più secondo inclinazioni differenti. Analoghe variazioni minano l'orizzontalità del piano del marciapiede, degli architravi delle finestre, delle insegne dei negozi. Ombre dipinte, innaturali e contraddittorie, con accentuata tendenza all'angolo acuto, si affiancano ad altre 'naturali'. L'effetto d'insieme, provocando la perdita di ogni punto di riferimento prospettico, è però spesso contraddetto dalle figure dei passanti, che tendono a ricostituire piani spaziali 'normali', la rete di nessi di uno spazio antropologico a connotazione piccolo-borghese.
Il Golem di Paul Wegener (quello del 1920, dopo il primo del 1914) può essere assunto come esempio del trionfo della scenografia nell'ambito stesso dell'Espressionismo cinematografico, in cui confluirono comunque materiali eterogenei, di origine diversa e spesso assai diversamente trattati, che richiedono analisi specifiche. Così, per le scenografie disegnate per questo film dall'architetto espressionista Hans Poelzig sarebbe più pertinente parlare di a. antroposofica, le cui forme tendono a riecheggiare in alcuni particolari quelle del corpo umano, se la filosofia generale dell'antroposofismo architettonico, quale si trova in R. Steiner, mirando a esprimere nell'idea direttrice dell'organismo costruttivo un riflesso dell'armonia fisica e spirituale cui goethianamente l'uomo è destinato, non fosse in realtà in contrasto con un loro primitivismo medievaleggiante. Benché basate sulla mimesi antropologica, queste scenografie di Poelzig comunicano un'inquietudine e un sottile malessere, come se non fosse il costruito a umanizzarsi, bensì l'umano a pietrificarsi nell'inorganico. Ciò non toglie che si trovi qui, nella casa del rabbino Low, inventore del Golem, una scala a chiocciola a forma di orecchio umano, come si trovano un podio a forma di laringe e un pilastro a forma di tibia nel secondo Goetheanum, edificio sede della Società antroposofica e grandioso esempio di a. espressionista progettato da Steiner dopo che un incendio aveva distrutto il primo nel 1922. Sono state già notate le corrispondenze tra i tetti aguzzi delle case del ghetto e i cappelli a punta degli ebrei, mentre le coperture percorribili (per es. il posto di guardia del ghetto) costituiscono un tema molto caro all'Espressionismo organico (si veda a tale riguardo la serie di disegni di architetture fantastiche elaborate dall'architetto H. Scharoun negli anni della guerra, conosciuti come 'disegni della resistenza', o, per restare a Poelzig, il progetto per la Festspielhaus di Salisburgo).
In realtà, l'a. di questo film è un'a. di argilla, come il Golem stesso, e l'argilla, come il Golem, vuole riportarci alla disperata prigionia dello spirito umano nel fango della materia.
In seguito, il regista Edgar G. Ulmer riecheggiò la figura di Poelzig (che aveva conosciuto sul set del Golem e con il quale probabilmente non aveva avuto rapporti idilliaci) nel film The black cat (Il gatto nero), girato a Hollywood nel 1934. Ulmer ribattezza Poelzig Hjalmar e lo definisce 'il più grande architetto austriaco' (non tedesco come il vero Poelzig) facendone un tenebroso criminale interpretato da Boris Karloff. Nel solito repertorio di orrori transilvanici, tra lampi e tempeste, su una collina solitaria, si erge la casa che il protagonista ha edificato per sé stesso sulle rovine di un vecchio forte: una vera casa, non il classico castello tenebroso, e oltretutto una casa di linee moderne, tra razionalismo ed espressionismo (ideata dallo scenografo della Universal, Charles D. Hall). Il soggiorno, le camere da letto, gli interni in genere, appaiono decisamente razionalisti; ma una scala a chiocciola (versione metallica di quella del Golem) introduce nel sottosuolo, a livello delle vecchie mura pronte a trasformarsi in un'orribile prigione, quasi a insinuare che il cuore apparentemente trasparente dell'a. moderna nasconde un segreto di tenebre.
Gli studi e le esperienze architettoniche portarono invece Fritz Lang all'utilizzazione di strutture che si estendevano sui piani orizzontale e verticale, volumetricamente possenti e che, riprese anche in campi lunghi, occupano interamente lo schermo con uno sviluppo che 'continua' oltre i margini dell'inquadratura. La materia che riempie il quadro è dunque l'a., nella materialità delle sue superfici e dei suoi spessori; ove ciò non accada, Lang non ha paura della prevalenza del 'vuoto' nell'immagine, anzi tende a esaltarla (si pensi per es. ai guerrieri suonatori di tromba in Die Nibelungen, 1924, I Nibelunghi). L'esperienza dell'a. come volume immesso in un vuoto atmosferico, come massa costruita su un orizzonte vuoto, implica un utilizzo abituale dei rapporti più spinti di pieno e vuoto (tutto pieno: la muraglia di Der müde Tod, 1921, Destino; tutto vuoto: i trombettieri di Die Nibelungen). Questa istanza radicale di architettonicità si incontrava con un'altrettanto radicale istanza di espulsione dallo schermo del reale come profilmico, propria in generale del cinema tedesco del periodo, che culminò nella follia della foresta interamente ricostruita in studio da Otto Hunte, Karl Vollbrecht e Erich Kettelhut sempre per Die Nibelungen.
In Metropolis (1926), Lang cercò di collegare ogni configurazione scenografico-architettonica a un simbolismo preciso, ideologicamente complesso. A questo scopo:
a) i quartieri operai sono caratterizzati da architetture nude, squadrate, cubiche;
b) nei quartieri alti predominano soprattutto Futurismo ed Espressionismo; l'incrocio aereo delle sopraelevate, lungo le quali sfrecciano modellini di automobili, costituisce l'immagine archetipica di quel grande mistero urbano le cui suggestioni arriveranno fino alla Gotham City di Tim Burton (Batman, 1989, e Batman returns, 1992, Batman, il ritorno);
c) le due inserzioni gotiche hanno diverse funzioni: di richiamo medievaleggiante, a connotazione oscurantista, nella casa dell'inventore malvagio che manda in giro il suo maligno robot-femmina a ingannare gli operai e incitarli a una rivolta che si ritorcerà contro di loro; e di affermazione di fede, nella cattedrale, davanti al cui portone si svolge, non a caso, il rito della riconciliazione tra lavoro e capitale;
d) il luogo di lavoro è un inferno alla Cabiria; nelle sue allucinazioni, il figlio del padrone identifica la Grande Macchina con un Moloch divoratore di uomini.
M (1931; M, il mostro di Düsseldorf) fu il primo film sonoro di Lang. Fin dall'inizio della sua carriera il regista si era dedicato a sviluppare le suggestioni del gran-de cinema muto, anche tramite le possenti a. delle sue scenografie: malgrado ciò, l'avvento del sonoro, fatale, oltre che ad attori e attrici, anche a molti registi, incapaci di adeguarsi alla nuova tecnica, per lui non costi-tuì affatto un trauma. Si può dire, infatti, che M segni il suo maggiore contributo alla costruzione di una geometria dello spazio filmico urbano, negli scorci realistici di una città fotografata in modo quasi documentario, anche se ricostruita in studio, tra plongées (inquadratu-re dall'alto) su strade e incroci, movimenti di macchina, dettagli simbolici (la palla rotolante della bambina uccisa, il suo palloncino impigliato nei fili del telegrafo), riflessi nelle vetrine dei negozi ecc. L'inquadratura dall'alto dell'inseguimento dell'assassino davanti al palazzo in cui si rifugia, qualifica definitivamente lo spa-zio urbano in quanto spazio della paura, della fuga e dell'incombente minaccia. È un attimo di sospensione, di equilibrio instabile tra tensioni in cui i cacciatori immobili attorniano una preda che risulta anch'essa immobile e ognuno sembra prendere posto ‒ segnare il suo luogo deputato, come succede a teatro ‒ e prefigurare contemporaneamente le possibili linee di una fuga, intersecate con quelle dei marciapiedi, delle ombre, dei tagli di luce: scena solcata da invisibili linee di forza, nei cui labirinti si svolgerà il rituale della caccia. Anche i personaggi appartengono alla tipologia urbana, primi tra tutti i mendicanti: dislocati nei punti strategici, agli incroci delle strade, sui marciapiedi più frequentati, sovrappongono alla città un reticolo investigativo più efficace di quello poliziesco.
Nel nuovo cinema rivoluzionario sovietico, invece, l'ottica cubo-futurista si svilupperà prevalentemente in direzione delle ricerche di montaggio. In Aelita, diretto nel 1924 da Jakov A. Protazanov con le scenografie di Sergej V. Kozlovskij, tutte le sequenze di Marte sono caratterizzate da una scenografia estremamente ardita, che taglia lo spazio in forme ellittiche e circolari di diretta derivazione cubista e costruttivista. Tutta la città marziana fu concepita in un'ottica al tempo stesso tecnologica e teatrale, con i diversi piani collegati da scale curve laterali e con la materializzazione in velari cilindrici trasparenti dei coni di luce che normalmente seguono i personaggi nel circo o nel varietà; questo trionfo barocco della tecnologia acquista un ulteriore significato per il continuo contrappunto che lo collega alla scena 'vera' di Mosca e della vita sovietica quotidiana.Nelle più famose ed esemplari sequenze dei grandi film diretti da Sergej M. Ejzenštejn, Vsevolod I. Pudovkin, Aleksandr P. Dovženko ecc., si materializzano quasi i problemi che si stavano, all'epoca, appassionatamente dibattendo: il ruolo dell'arte e, addirittura, le possibilità della sua sopravvivenza in una società rivoluzionaria; le funzioni da assegnare alle opere d'arte del passato, imbevute di un'ideologia che bisognava superare, ma il cui fascino era ancora forte; il dilemma posto dalla necessità della rottura o della continuità dell'arte nuova nei confronti delle forme della tradizione.Il monumento, in quanto istituzione formale etimologicamente destinata a caricarsi del ricordo e della celebrazione, e in quanto manufatto il cui prestigio materico e costruttivo veicola automaticamente il prestigio dell'ideologia che lo permea, divenne il luogo deputato nel quale il rivoluzionario, posto di fronte all'altro da sé per eccellenza, scandiva i tempi e i modi di una fascinazione-liberazione che sarebbe dovuta sfociare in una forma di riappropriazione. Esemplari paiono a tale proposito le vicende dell'a. moderna in URSS, le oscillazioni del potere burocratico tra aperture al nuovo e ripiegamenti neoclassici o vernacoli, le stesse polemiche tra i gruppi d'avanguardia.
Bisogna ricordare almeno:
a) le scenografie di vecchi opifici fatiscenti e di nuove fabbriche 'cubiste', approntate da Kozlovskij per Mat′ (1926; La madre) di Pudovkin, in cui pare quasi di leggere in filigrana il passaggio dal lavoro alienato alle speranze della riappropriazione socialista. Immediato il confronto, in contesto capitalista, con la fabbrica che L. Meerson ritaglia nell'universo disumanizzante di À nous la liberté (1931; A me la libertà) di R. Clair, soprattutto nei due luoghi deputati della catena di montaggio e del cortile. Nel cortile la fabbrica appare in tutto il suo asettico biancore cubista (quasi un'opera di Le Corbusier), in esso gli operai sfilano in composti manipoli agli ordini dei sorveglianti/caporali (cortile/caserma), tra cemento, acciaio, vetro, scale aeree, massicce griglie, tubazioni gigantesche; ma il repertorio iconico-figurativo del funzionalismo architettonico era usato a significare, contrariamente all'illusione di W. Gropius, alienazione e oppressione;
b) il Palazzo d'Inverno, i cui ambienti reali furono utilizzati da Ejzenštejn per Oktjabr′ (1927; Ottobre), come contrappunto statico simbolico (saloni, scalinate, statue, arredi preziosi) al movimento frenetico dei rivoluzionari (senza parlare della scalinata di Odessa, in Bronenosec Potëmkin, 1925, La corazzata Potëmkin);
c) la chiesa dei SS. Pietro e Paolo, nell'inquadratura iniziale di Konec Sankt-Peterburga (1927; La fine di San Pietroburgo) di Pudovkin, dall'alto della quale è ripresa, schiacciata in basso, la coppia proletaria, e sul finire dello stesso film, invece, la stessa coppia percorre i saloni del Palazzo d'Inverno appena conquistato;
d) il palazzo reale di Kiev, i cui enormi scaloni sono percorsi a cavallo dai cosacchi dell'armata rivoluzionaria, in Ščors diretto da Dovženko, girato nel 1939, quasi allo scoppio della guerra e nel momento di massima potenza interna dello stalinismo.
Sono note, d'altra parte, le difficoltà incontrate anche da Ejzenštejn per la realizzazione dei suoi film: in particolare le scenografie 'espressioniste'e la stilizzazione architettonica di Ivan Groznyj (la cui prima parte venne presentata al pubblico nel 1945, la seconda, terminata nel 1946, uscì solo nel 1958; Ivan il terribile e La congiura dei Boiardi) non sarebbero state tollerate neanche per la prima parte, se non fosse stato ravvisato in essa un implicito omaggio a Stalin.
Se il cinema espressionista tedesco (coniugando corpi ed edifici, promuovendo le ombre a protagoniste della finzione narrativa) tentava di coinvolgere produttivamente nell'universo dello spettacolo di massa le realizzazioni dell'a. d'avanguardia, e nel cinema sovietico le citazioni visive di opere architettoniche erano spesso funzionali alle esigenze dell'ideologia, si può dire che, all'opposto, il cinema di Hollywood tendeva ad adeguare costantemente l'organizzazione del proprio spazio scenografico alle esigenze popolari di una codificazione ben definita, tesa al raggiungimento capillare di ogni tipo di pubblico. Le scenografie dei film hollywoodiani rimandano infatti a un mondo chiuso e bloccato nella convenzione dei generi narrativi. Non esiste spazio per l'irruzione delle realizzazioni dell'a. contemporanea o per il riuso o la citazione delle opere architettoniche del passato, in quanto le regole stabilite strutturano un universo autoreferenziale e sufficiente a sé stesso, immediatamente riconoscibile dallo spettatore che in base a segni ed elementi fissati individua immediatamente il contesto narrativo con cui si confronta, senza necessità di rapportarsi ad altro.
Per ottenere ciò la suddivisione dei compiti era assai rigida e competenze e specializzazioni dovevano integrarsi senza sovrapporsi. In particolare, per la realizzazione delle scenografie le majors utilizzavano uno staff fisso di collaboratori guidato da un art director (Cedric Gibbons per la Metro Goldwyn Mayer, Richard Day per la Universal e poi per la United Artists, Hans Dreier per la Paramount ecc.) che compariva sempre nei titoli di testa, solo raramente affiancato dal nome di uno o più collaboratori. Malgrado ciò risulta impossibile distinguere uno stile specifico per le diverse case di produzione, in quanto la dittatura dei generi era tanto forte da imporre l'aderenza assoluta al complesso di convenzioni, anche scenografiche, che si erano andate stratificando fino a costituire l'impalcatura fondamentale dei singoli generi.
E proprio la ripetitività degli elementi convenzionali costituisce uno degli elementi fondamentali della fascinazione hollywoodiana, in quanto fa scattare un meccanismo di riconoscibilità e di attesa nello spettatore. Nel western, per es., non furono ammesse variazioni nello spazio-tipo del saloon, almeno finché il genere stesso non venne investito da fremiti di ambiguità, cioè negli anni Cinquanta, quando si poté vedere il saloon barocco di Vienna in Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray, anche se questo film è in realtà un western fiammeggiante, una contaminazione di western e melodramma. Proprio perché il saloon era fatto in quel determinato modo (con quel portico, quelle porte d'ingresso, quel lungo bancone ecc.), lo spettatore ritrovava predisposta la matrice spaziale in cui gustare ancora una volta l'attesa degli eventi che certo si sarebbero prodotti, che non potevano mancare di prodursi. Nessun genere, nemmeno quelli relativamente meno codificati, sfuggiva alle regole, aprendosi semmai alla dimensione fantastica attraverso eventuali inserti onirici.
A parte il vero e proprio film fantastico, fu il musical a offrire le migliori opportunità di preparare sapienti miscele di vero e falso, realistico e onirico, documentaristico e teatrale, secondo il prototipo messo a punto da Vincente Minnelli e da Gibbons per An American in Paris (1951; Un americano a Parigi). In questo film il dinamismo della macchina da presa di Minnelli esalta le scenografie di Gibbons per rendere una Parigi da un lato minore e quotidiana, tra convenzione e realismo, dall'altro fantastica e onirica, offerta in una visione che è quella dei grandi pittori impressionisti.D'altra parte, la decisa trasformazione e la contaminazione dei generi avvenute nel cinema hollywoodiano a partire dagli anni Cinquanta, non ebbero immediati o diretti riflessi sulle pratiche scenografiche. Temendo il bizzarro, la scenografia standard a lungo cercò ancora di uniformarsi al detto di Clair, secondo il quale la scenografia migliore è quella che non si nota. Nel comico, invece, autori come Stanley Donen, Jerry Lewis o Blake Edwards si sono trovati spesso a utilizzare l'a. (interi edifici, spazi interni o arredamenti) in vista della sua distruzione, in ciò riprendendo spunti dal cinema muto, da Charlie Chaplin a Buster Keaton.
Al di fuori di Hollywood, del resto, la lotta secolare del corpo del comico (per essenza goffo) con l'organizzazione iper-regolata dello spazio e degli arredi viene perfettamente resa da Jacques Tati, contrapponendo il calore e la spontaneità dell'a. tradizionale alla freddezza artificiosa di quella moderna in Mon oncle (1958), in cui risultano sconvolte le regole maniacali di comportamento indotte da una grottesca villa piena di gadget elettrocomandati, oppure ponendosi come buffo corpo alieno nei décors a un tempo reali e fantascientifici di Playtime (1967; Playtime ‒ Tempo di divertimento) o di Trafic (1971; Monsieur Hulot nel caos del traffico).Diverso è il caso in cui l'a. è l'argomento stesso del film come in The fountainhead (1949; La fonte meravigliosa) di King Vidor, ispirato molto liberamente alla vita dell'architetto Frank Lloyd Wright, ma il cui assunto di base, più che nella difesa dell'a. moderna contro gli architetti e i critici passatisti, sembra consistere nell'esaltazione della creatività individuale, cui non vanno poste barriere. È pur vero che Vidor, affascinato dalla figura di Wright, sceglie comunque uno stile visivo volutamente disadorno, netto e nitido che richiama le teorie wrightiane nei suoi elementi di purezza ed essenzialità.Breve excursus orientale. ‒ Appare a questo punto doveroso fare un cenno alle cinematografie orientali (Giappone, Cina, Hong Kong, India ecc.), legate ad antiche tradizioni scenografiche, in cui la predisposizione degli spazi risulta spesso funzionale ad altrettanto antiche tradizioni coreografiche: se ne avverte l'eco perfino nei film di Hong Kong sul kung-fu e sui gangster, dai ritmi spesso vertiginosi, ma non privi di una gestualità ieratica, passata in qualche modo, in tempi recenti, anche nell'universo hollywoodiano (attraverso John Woo, ma anche recepita da un regista come Quentin Tarantino).
Un attraversamento sistematico di tali complesse cinematografie, anche da questa particolare angolazione e con una sia pur vaga pretesa di completezza, risulterebbe impossibile, mentre qui si intende lasciar affiorare solo qualche suggestione. Non si può sottacere, in ogni modo, l'importanza del cinema giapponese, della rigorosa scansione delle sue inquadrature, che deriva anche dalla peculiare spazialità dell'a. tradizionale nipponica (modularità, integrazione e flessibilità degli spazi, uso dei pannelli scorrevoli ecc.) non priva di influssi sull'a. occidentale, come dimostra proprio Wright. E in tal senso non si può non ricordare, per es., il rigore spaziale di un film come Gishiki (1971; La cerimonia) di Ōshima Nagisa, in cui si esalta l'importanza del luogo come dispositivo scenico, spazio cerimoniale e simbolico, teatro claustrofobico di frustrazione e di morte. Mentre significativi risultano i paralleli effettuati tra le opere di Ozu Yasujirō o di Mizoguchi Kenji e quelle di Robert Bresson o di Michelangelo Antonioni, nel nome di un supposto comune universo 'zen'. Pur tra grandi differenze, colpisce l'affinità tra gli 'oggetti animati' di Ozu e quelli di Antonioni: sembra che le cose, gli oggetti, abbiano in un certo senso una vita propria, che li fa muovere e 'agire' al di fuori dell'intervento umano. Gli ambienti stessi di Antonioni (per es. in L'eclisse, 1962) sono spesso 'giapponesi', anche se la macchina da presa non è mai, come invece in Ozu, a livello di tatami (ossia a livello dell'uomo seduto a gambe incrociate sul pavimento di stuoie).
Le scenografie dimesse e familiari di Ozu, legate al quotidiano, si contrappongono invece a quelle spesso fastose e 'barbariche' di Kurosawa Akira. Si pensi a Kagemusha (1980; Kagemusha, l'ombra del guerriero), ma anche, su un piano 'onirico', a Konna Yume o mita (1990; Sogni), specialmente all'episodio di Van Gogh, quando uno dei suoi quadri si anima, lo studente che lo stava osservando vi entra e incontra il pittore stesso (interpretato da Martin Scorsese), percorrendo insieme a lui lo spazio di diversi altri quadri. Nei film di Mizoguchi, d'altra parte, si incontrano continuamente grandi scene archetipiche. C'è tuttavia in questo regista anche un versante epico-scenografico, valorizzato dall'uso del colore, come risulta evidente in un film come Shin Heike monogatari (1955, La nuova storia degli Heike), storia dell'eroe Kiyomori, coraggioso avversario della tirannia dei monaci vissuto attorno al 1100. Scartando la via del 'barbarico gridato' alla Kurosawa, l'epica si compone con gli elementi di astrazione e distanziamento dei prediletti piani totali (sempre sapientemente composti pur nella concitazione delle battaglie), e del colore, abilmente utilizzato per mettere in rilievo ora il monumentalismo di certi personaggi, ora i tocchi di vivacità di un reale quotidiano, ora le variazioni di tono del paesaggio naturale, composto attraverso il riassorbimento della profondità e dello scaglionarsi dei diversi piani, anche molto distanziati, sul piano dello schermo come superficie pura. Anche le scene di battaglia in Sansho Dayu (1954; L'intendente Sansho) sono sempre inquadrate da lontano, in campo lungo. Sembra che i combattenti stiano scherzando, giocando, iscrivendo un loro balletto astratto e lieve su una tela dipinta. Questa dimensione del gioco appare anche in alcuni film che sarebbe facile definire violenti, come quelli di Kitano Takeshi. Nel suo Hana-Bi (1997) si trova qualcosa di astratto, se non proprio di giocoso: le uccisioni, i colpi proibiti, i volti insanguinati che la violenza del taciturno protagonista, ex-poliziotto, dissemina attorno a sé con apparente indifferenza. Hana-Bi assume il tradizionale genere giapponese yakuza, lo contamina con il pulp, ne ratifica l'estenuazione.
All'interno del rigido e sofisticato sistema hollywoodiano basato sulla rigorosa strutturazione dei generi, sul carisma delle star, sulla severa divisione del lavoro, alcuni registi, pur perfettamente integrati, riuscirono comunque a far emergere, nell'ambito dei rigorosi meccanismi produttivi, le proprie personali inquietudini, ossessioni e fobie, facendo a meno della professionalità, anche raffinata, degli art director, dei loro standard scenografici, anche altissimi, per approntare (in prima persona o tramite collaboratori intelligenti) spazi carichi di tensione, di ambiguità, di mistero. Ciò si è verificato anche in epoche più recenti e ancor più problematiche in opere di altri registi, in rapporto conflittuale o più risolto con le logiche produttive imperanti. Così, in un'ideale continuità basata sull'espressione visiva, più o meno enfatizzata, del disagio e dell'inquietudine, nei film di Alfred Hitchcock, Orson Welles, ma anche Roman Polanski, Stanley Kubrick o David Lynch, lo spazio architettonico non è in realtà distinguibile da quello filmico, come qualcosa che funzioni da sfondo o da cornice: ambedue costituiscono il nodo di uno spazio inquieto, ambiguo, popolato di fantasmi.
L'affiorare alla mente di una serie di luoghi indimenticabili, teatro di non meno indimenticabili effetti di suspense, induce a parlare di spazi architettonici, più che di scenografie, relativamente a certe soluzioni adottate nei film di Hitchcock: è il caso dei monti Rushmore, sfingi antropomorfe sulle cui scivolose superfici si gioca la vertigine dell'attrazione del vuoto, in North by Northwest (1959; Intrigo internazionale); ma anche, nello stesso film, della hall delle Nazioni Unite, dove un uomo assassinato cade in braccio a Cary Grant, e il luogo aperto-deserto dove un aereo tenta invano di mitragliarlo. E ancora il motel e la casa di Psycho (1960; Psyco); Bodega Bay, la cittadina maledetta invasa dagli uccelli, in The birds (1963; Gli uccelli); l'appartamento dei lunghi piani-sequenza di Rope (1948; Nodo alla gola); la giostra scatenata di Strangers on a train (1951; Delitto per delitto o L'altro uomo); la cantina di Notorious (1946; Notorius, l'amante perduta); il cinema Bijou e la Londra notturna di Sabotage (1937; Sabotaggio); la Statua della Libertà di Saboteur (1942; Sabotatori); la finestra di Rear window (1954; La finestra sul cortile); la scala all'interno del campanile di Vertigo (1958; La donna che visse due volte).In Welles si avverte la stessa inquietudine indotta dai luoghi, che appaiono al tempo stesso estranei e familiari, già a partire dall'incredibile castello di Xanadu in Citizen Kane (1941; Quarto potere) o nella scala di The magnificent Amberson (1942; L'orgoglio degli Amberson), i cui pianerottoli e rampe, grazie anche alla profondità di campo, diventano veri e propri luoghi deputati per gli attori della drammatica saga familiare. Inquietanti anche le architetture 'barbariche' del Macbeth (1948), e incredibile la commistione, imposta da difficoltà produttive, di luoghi e ambienti diversi, spesso distanti spazialmente e temporalmente, nell'Othello (1955; Otello), ricomposti in unità dalla maestria del montaggio.
In Polanski appare indubitabile, sin dai tempi dei cortometraggi girati in Polonia, l'ascendenza surrealista da lui stesso dichiarata. Si ricordino le braccia animate che sbucano fuori dai muri nell'appartamento della pazza Caroline, in Repulsion (1965), i cadaveri e i cibi in decomposizione di cui si riempiono le stanze; la sequenza del concepimento/incubo nella casa sinistra di Rosemary's baby (1968); e l'intero The fearless vampire killers (1967; Per favore, non mordermi sul collo), nel quale l'immaginazione grottesca di Polanski, con il supporto degli ambienti polverosi e pieni di ragnatele del castello dei von Krolok, si scatena in gag ironiche/macabre che culminano nel Grande Ballo dei Vampiri. E proprio la sua predilezione per il fantastico e il diverso, nel momento in cui irrompono nella 'realtà', consente di accostare Polanski a Buñuel e al contempo lo rende punto di riferimento per cineasti come David Lynch e Jane Campion. Il luogo chiuso e circoscritto si rivela nei suoi film spazio privilegiato per l'incontro dei due mondi, dalla barca di Nóz w wodzie (1962; Il coltello nell'acqua) alla nave di Bitter moon (1992; Luna di fiele), dal castello periodicamente segregato dalle maree in Cul de sac (1966) alla villa misteriosa di What (1972; Che?) sorvegliata da un cerbero latrante e collegata al mondo solo da una favolosa teleferica, Inferno e Paese delle Meraviglie dove arriva una svagata Alice; dall'appartamento magico di Le locataire (1976; L'inquilino del terzo piano) alla villa isolata di Death and the maiden (1994; La morte e la fanciulla).
E si pensi al castello del Macbeth (1971) che diventa luogo di incubi e delitti. Ma Polanski, in Chinatown (1974) o in Frantic (1988), si dimostra anche capace di costruire un prodotto perfettamente in linea con le tradizioni più classiche del cinema hollywoodiano (in particolare, il film noir, ai cui archetipi viene reso continuo omaggio), il cui spazio è però percorso da segrete incrinature, inquieti manierismi, come conferma anche The ninth gate (1999; La nona porta).In Stanley Kubrick la dilatazione dello spazio scenico si è sempre presentata come una costante fondamentale, e raggiunge il suo acme in 2001: a space odyssey (2001: Odissea nello spazio), film che nel 1968 segnò il rilancio del cinema di fantascienza. Con Barry Lyndon (1975) il regista sceglie di calarsi profondamente nello spirito del Settecento immergendosi nell'immaginario del periodo, quindi nel gusto figurativo, nell'a., nella musica, nell'arte dei giardini, nel colore, con l'aiuto dello scenografo Ken Adam.
L'altro grande tema presente nel cinema di Kubrick è quello del labirinto. Si pensi, in The shining (1980; Shining), alla sequenza in cui per la prima volta Wendy, moglie di Jack Torrance, e il figlio Danny entrano nel giardino-labirinto dell'hotel. Del labirinto vi è un modellino all'ingresso, e questa immagine schematica si sovrappone, mediante una dissolven-za incrociata, all'immagine reale del giardino visto dall'alto: inquadratura singolare, perché la struttura del labirinto in tal modo ricorda quella del circuito di un cervello elettronico, in una specie di duplicazione del-la messa in scena del computer Hal in 2001: a space odyssey. L'immagine del labirinto ritorna anche in Full metal jacket (1987), ed è costituita dalla città vietnamita in rovina (in realtà, una fabbrica abbandonata nei dintorni di Londra), così come erano labirinti le ragnatele di trincee in Paths of glory (1957; Orizzonti di gloria). Ma nel labirinto di Full metal jacket si nasconde il Minotauro, ovvero il cecchino vietnamita acquattato per uccidere gli incauti soldati che osino avventurarvisi. Spazio inquieto del malessere è anche quello onirico di Eyes wide shut (1999), ultimo film di Kubrick, come quello di Lost highway (1997; Strade perdute) di Lynch, in cui l'esterno della casa di Fred ricorda la casa di Claire Lescot progettata da Mallet- Stevens per L'inhumaine di L'Herbier.Può una casa vivere? Senza dubbio, secondo i racconti di fantasmi, e il cinema ha raccolto in pieno questa suggestione. Può vivere, e può anche morire (vedi la casa Usher di E.A. Poe). In Lost highway, la casa di Fred d'un tratto si illumina, come se folgori di luce, provocate da qualche tempesta elettro-magnetica, la percorressero all'improvviso. Dopo aver visto L'inhumaine a Parigi nel luglio del 1924, l'architetto austriaco Adolf Loos restò sconvolto, e tentò di descrivere, in un articolo per un giornale viennese, qualcosa che equivalesse alle sensazioni provate, parlando dello spazio che diventa musica e citando il grido di Tristano morente: "Come, odo io la luce?". Vita, per una casa, è forse questo suo emettere luce al di fuori d'ogni intervento umano: non per lo scatto d'un interruttore, ma per lo sfolgorio improvviso di una potenza magica, il corto circuito, il repentino scaricarsi di una tensione intollerabile, accumulata man mano dalla crescita esponenziale delle piccole e grandi tensioni quotidiane dei viventi. I viventi, non i morti, caricano l'architettura di fantasmi.
E sono sempre fantasmi, anche se ancora viventi, quelli che infestano invece il Frontier Hotel di Los Angeles, assunto da Wim Wenders a scenario di The Million dollar hotel (2000). La fatiscente struttura del vecchio albergo (già lussuosissimo negli anni Trenta) diventa contenitore di vite fallite, di esistenze spezzate. Dove gli angeli, wendersianamente, volano (Der Himmel über Berlin, 1987; Il cielo sopra Berlino), gli uomini precipitano.
L'immagine filmica dell'a., dunque, tocca una corda profonda dell'a. medesima. A parte la secolare pratica del disegno, fotografare o filmare un'opera di a. significa esplicitarne il versante d'immagine, compiere un lavoro (tutt'altro che riduttivo) di esplicitazione delle idee-forma. Si potrebbe, volendo, arrivare al paradosso: per 'capire' un edificio servono più le sue immagini che la 'visione dal vero'. Il cinema, comunque, la visione è in grado di farcela in qualche modo 'sentire' (mentre la realtà virtuale potrà farcela 'pre-sentire', addirittura in condizioni di non ancora effettiva esistenza).Allora, gli spazi urbani assunti, per una ragione o per l'altra, come set 'dal vero', come sfondi e ambienti autentici per le storie e avventure di personaggi di fantasia, toccano, dell'a., un punto cruciale, e precisamente ciò che la apparenta alla scenografia, il suo versante di ambiguità e di gioco di apparenze, il suo effetto di specchio. Vedere l'a. che ospita il racconto dovrebbe servire a ricordarci che anche la forma più pura ha il suo versante 'narrativo', che non esiste geometria senza passione.Solo apparentemente diverso è il caso in cui l'a. stessa diventa in qualche modo personaggio, motore della fiction. Le case antiche, più o meno infestate, in questo caso prevalgono: né si può sostenere che protagonisti sarebbero allora i fantasmi, e non le case stesse, poiché tra casa e fantasma non c'è semplice rapporto di contenente/contenuto, ma stretta simbiosi. E questo resta vero anche se non è tanto la casa a secernere malefici influssi, quanto le sue rappresentazioni, come è il caso delle 'dodici vedute' di The draughtsman's contract (1982; I misteri del giardino di Compton House) diretto da Peter Greenaway, in cui a. e pittura stringono un patto diabolico, generatore di effetti perversi. In The belly of an architect (1987; Il ventre dell'architetto), sempre di Greenaway, monumenti come il Pantheon o l'Altare della Patria, a Roma, assumono inquietanti valenze funebri, e il modellino del progetto dell'architetto settecentesco L. Boullée per il cenotafio di I. Newton viene servito ai commensali come dessert in un ristorante che non per caso si trova proprio di fronte al Pantheon.
Il lavoro che il cinema effettua sull'a., allora, è forse già tutto nello sdoppiarla, nel rendere per sempre impossibile vederla come una. Da un lato, l'a. in quanto contenitore di funzioni, campo di attività, realizzazione in vista di particolari esigenze, accostabile o meno a tipologie codificate, e anche connotazione di uno status, di una ideologia. Dall'altro, qualcosa che si potrebbe forse chiamare col nome inadeguato di accumulatore simbolico, testo generatore di senso e di apparizioni, proliferazione di storie. Ogni disegno di a. è sempre stato, in fondo, la ricerca delle tecniche più efficaci per la sua presentazione, in vista della cattura del consenso, ossia del fascinum. È stato sempre un fare spettacolo, una messa in scena, appunto, oggi potenziabile con le tecniche del virtuale. In realtà, gli architetti non possono più pensare progettualmente se non in termini di 'immagine messa in scena'; ma quest'ultima definizione, poi, non è che una ridondanza: non si può pensare l'immagine, oggi, se non nei termini di una messa in scena, o viceversa, non si possono mettere in scena altro che immagini.
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