Arezzo
Città toscana tradizionalmente avversa alla vicina Firenze. Questo antagonismo che separava le due città si riflette nell'atteggiamento di D.: infatti dettata probabilmente da un iroso patriottismo comunale, tenace a dispetto dell'esilio, è la notissima terzina in cui gli Aretini son designati Botoli... / ringhiosi più che non chiede lor possa (Pg XIV 46-47). Questo apprezzamento ha tuttavia un fondo di verità; negli anni della maturità di D., tra il 1287 e gl'inizi del Trecento, A. si atteggiò infatti a roccaforte del ghibellinismo toscano, in un ruolo che a D., cittadino della guelfa Firenze, doveva apparire troppo sproporzionato alle forze effettive della città. L'esercito che quest'ultima mise in campo nella battaglia di Campaldino, alla quale è tradizione attendibile che D. prendesse parte, se pure rafforzato da contingenti ghibellini dell'Italia centrale e naturalmente da schiere del contado, appare anche al nostro giudizio superiore alle possibilità demografiche di A., e in effetti la città rimase in quella occasione pericolosamente sguarnita.
Il secolo XIII è forse il più interessante nella storia medievale di A., che fu allora centro non disprezzabile di cultura giuridica, sede di uno Studio a cui affluivano intorno al 1268 perfino scolari dalla lontana Spagna (Archivio Capitolare di A., Fondo di Murello, Notaio Guglielmo di Iacopo, 14 v., 17 v.), patria di Margaritone e di Guittone. Le distanze rispetto alla vicina Firenze crebbero tuttavia in misura decisiva proprio nel corso di questi cento anni. All'inizio del secolo XIII le mura fiorentine racchiudevano una superficie tre volte più estesa di quelle aretine, ma nel terzo decennio del Trecento il rapporto era salito ad almeno sette a uno a vantaggio di Firenze. Supponendo molto approssimativamente per le due città un'uguale densità demografica, ai circa 90.000 abitanti fiorentini, calcolabili con una certa attendibilità per questa età, avrebbero corrisposto circa 13.000 aretini. Squilibrio che anche variando le cifre assolute non doveva essere molto diverso venti o trent'anni prima, al tempo in cui D. prendeva parte alle vicende politiche e militari della sua città.
Ma anche per altri aspetti la A. del tempo di D. era una città proporzionalmente meno importante, in Toscana, della A. del passato, retta da vescovi-conti. In un momento in cui le città della regione popolavano dei loro mercanti e dei loro prestatori tutti i paesi dell'occidente e gettavano le basi del primato economico italiano, A. si faceva sopravanzare in questa ‛ rivoluzione mercantile ' non solo da Firenze, da Lucca, da Siena, da Pisa, ma con ogni probabilità anche da Pistoia.
Politicamente, d'altra parte, sul suo vastissimo contado, che ripercorreva i confini di un'amplissima diocesi, la città non era mai riuscita e non riuscì mai a imporre completamente la sua supremazia. Una folla di turbolente famiglie feudali la premevano, così, con i loro castelli, dai contrafforti dell'Appennino, che si spingevano fino a poche miglia dalle mura, e tenevano la stessa vita cittadina in un continuo contrasto di fazioni, contribuendo per converso a rallentare l'evoluzione economica della cittadinanza in senso affaristico e borghese.
Tra gli anni della giovinezza e quello della morte di D., con l'intermezzo di una scialba figura uscita dai conti Guidi di Romena, due fra le maggiori famiglie feudali aretine, gli Ubertini e i Tarlati di Pietramala, riuscirono non solo a porre nella sede vescovile della città due dei loro membri, ma a farli assurgere, forti dei castelli, delle rendite e del prestigio del vescovado nonché della potenza familiare, a signori di Arezzo. Effimero fu il dominio del primo di questi presuli, Guglielmo Ubertini, morto nella battaglia di Campaldino, mentre vegliardo e quasi cieco cavalcava alla testa dei ghibellini, figura dantesca dimenticata dal poeta, come ha detto qualcuno. Più salda e più duratura fu invece la signoria di Guido Tarlati, vescovo dal 1313. Iniziata nel 1321, con la nomina di questo a signore della città, prima per un anno poi a vita, la signoria dei Tarlati durò fino al 1337 e andò oltre la morte del vescovo.
L'ambiente geografico, le vicende politico-militari, la cultura aretina hanno lasciato varie tracce nell'opera di D.: del Casentino il poeta ricorda i verdi colli e i ruscelletti che scendono nell'Arno (If XXX 64-65), l'Archian rubesto, il gran giogo, il Pratomagno (Pg V 125 e 95, 116), la Verna (il crudo sasso intra 1 et'ero e Arno, Pd XI 106), la rozzezza dei suoi abitanti (Pg XIV 43-45); ma il Casentino nei confini danteschi, che non scendevano a sud di Bibbiena (a piè del Casentino / traversa un'acqua c'ha nome l'Archiano, V 94-95), era per buona parte fuori del contado di Arezzo. Fuori del contado era Romena, a cui richiama l'episodio di maestro Adamo, e proprio sul limitare, nell'incerta condizione delle zone di confine, si stendeva la piana di Campaldino in cui si combatté la nota battaglia. Il paesaggio aretino vero e proprio, secondo i confini del territorio al tempo del poeta, ha offerto alla poesia di D. solo l'immagine dell'Arno che disdegnoso torce il muso alla città (Pg XIV 48) e due scure, funeree pennellate, entrambe ispirate alla paludosa e malsana Valdichiana, con i suoi miseri spedali (If XXIX 46-51) e la lentezza delle acque del fiume (Pd XIII 22-24).
Delle grandi figure aretine D. accenna due volte a Guittone nella Commedia (Pg XXIV 56-57, XXVI 124-126) e due altre ancora nel De vulgari Eloquentia (I XIII 1, II VI 8) e sempre con accenti critici, per rilevarne la fama immeritata o il fatto che nunquam se ad curiale vulgare direxit.
Solo un altro aretino ha un certo spicco artistico nella Commedia, Griffolino, l'alchimista fatto ardere da Albero da Siena, vittima di una sua burla (If XXIX 109-120), mentre solo fugaci accenni ad altri cittadini di A. si hanno in Pg VI 13-15. L'aretino che da le braccia / fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte, è il giurista Benincasa da Laterina, acuto in sapienza civile quanto presuntuoso, assassinato a Roma dal nobile brigante senese per averne nel 1285, nella sua veste di vicario del podestà di Siena, condannato a morte il padre; l'altro ch'annegò correndo in caccia è Guccio dei Tarlati da Pietramala, travolto dalle acque dell'Arno mentre cavalcava all'inseguimento dei Bostoli fuorusciti o, come vogliono altri, da loro inseguito, o, per altri ancora, mentre fuggiva disordinatamente dopo la disfatta di Campaldino.
A episodi della guerra che Firenze e i guelfi combatterono contro gli Aretini e i ghibellini D. accenna più di una volta nella Commedia. Oltre alla battaglia di Campaldino egli ricorda, nell'episodio di Lano, lo scontro della Pieve al Toppo vinto dagli Aretini sui Senesi (If XIII 119-121) e, particolarmente importante perché ritenuta testimonianza della presenza del poeta all'assedio, una delle giostre corse dai Fiorentini a scherno degli assediati sotto le mura della città sia prima che dopo Campaldino: corridor vidi per la terra vostra, / o Aretini, e vidi gir gualdane, / fedir torneamenti e correr giostra (If XXII 4-6).
Non è certo a quale di queste giostre D. alluda. Nulla di più naturale però che si tratti del palio corso il 24 giugno 1289, giorno di s. Giovanni patrono di Firenze, dal momento che D. faceva allora parte delle truppe fiorentine. Attardatosi per otto giorni a dare il guasto al Casentino, l'esercito guelfo non seppe sfruttare a fondo la vittoria di Campaldino, e quando giunse ad A. la città, affidata sul momento, come dice un annalista aretino, alla protezione dei vecchi e delle donne, aveva ormai organizzato la difesa con i resti del suo esercito sconfitto. Sì che ai Fiorentini, oltre al guasto delle campagne circostanti, non rimase che l'arma del dileggio, consueta del resto in tutte le vicende militari del tempo. Nel corso dell'inutile assedio, tra l'altro, a scherno del vescovo ucciso e dei suoi concittadini, i Fiorentini lanciarono oltre le mura asini con in testa mitre episcopali.
Sulla presenza di D. nella città, quando i Bianchi esuli vi fissarono " la sedia loro " e vi fecero " campo grosso " dopo un primo " accozzamento " nel castello di Gargonza - secondo l'espressione di Leonardo Bruni - dando vita, come prova un documento del 1305, a una loro Universitas, non sono state rinvenute testimonianze d'archivio. Certo in mezzo agli esuli bianchi che in A. presero denaro a prestito, incontriamo, debitore di dodici fiorini, anche il fratello di D., Francesco (U. Pasqui, Documenti per la storia della città di A. nel Medio Evo, II, Firenze 1916, 512). Il mutuo e la stessa presenza di questo Alighieri ad A. possono apparire più naturali se vi si scorgono il desiderio di rivedere e poi, constatatane la condizione, di aiutare il congiunto esule, dato che Francesco non appare compreso in nessun bando di esilio e avrebbe potuto senza difficoltà, per i bisogni propri, contrarre mutui a Firenze.
Esplicito in senso affermativo sulla presenza di D. sia al convegno di Gargonza che ad A. nei primi tempi dell'esilio è il Bruni (cfr. G. Fatini, Orme dantesche, pp. 64-65, 69). La testimonianza, attesa la consueta onestà scientifica dello scrittore e forse la conoscenza da parte di lui di documenti ora perduti, dovrebbe essere accettata senza riserve. Ma trattiene dal farlo con assoluta tranquillità il dubbio che l'amore per la sua città natale possa aver indotto lo storico cultore di D. a forzare in questo caso l'interpretazione dei documenti a sua disposizione per intrecciare le vicende di A. con quelle del poeta appena esule.
La fortuna e il culto di D. in A. erano stati del resto abbastanza precoci e continuarono anche dopo la morte di Leonardo Bruni. Per la seconda metà del XIV secolo si ha notizia, per la città e per il territorio, di quattro o cinque trascrizioni del poema (ad es. I'Ashb. 834 della bibl. Medicea-Laurenziana di Firenze) o di commenti di questo. Già nella prima metà del secolo aveva compendiato l'Inferno e forse tutto il poema Vanni di Mino, un oscuro lanaiolo della città, in alcuni rozzi sonetti. Forse aretino è l'autore delle così dette Chiose Cagliaritane. A cavallo tra la fine del XIV e l'inizio del XV secolo una breve biografia di D., piuttosto aneddotica, ma piena di riverente ammirazione, dettò, in mezzo alla sua opera enciclopedica, Domenico di Bandino. Lettore alla fine del Trecento della Commedia in Firenze fu il pievano casentinese Antonio di S. Martino a Vado. Reminiscenze dantesche si trovano in modesti poeti aretini dello stesso secolo, da un Betrico d'Arezzo a un Federigo di Geri o, un gradino più in alto, in un Braccio Bracci o in un Gregorio di ser Accolto. Epigone aretino della Commedia fu ser Bartolomeo di ser Gorello, vissuto fino agli ultimi anni del secolo, il quale narrò le vicende della città in venti canti in terzine, secondo una coloritura e un andamento danteschi e con una cornice ispirata alla Commedia. Il suo esempio fu seguito, consapevole o no, dal coetaneo Giovanni de Bonis, finito dopo il 1385 alla corte di Gian Galeazzo Visconti.
Nel Quattrocento, a parte iI Bruni, aretini e più in particolare casentinesi furono vari lettori di D. in Firenze, fra i quali il più noto è Cristoforo Landino, oriundo di Pratovecchio. Influssi danteschi sono avvertibili nei lirici aretini Niccolò Cieco, Benedetto e Francesco Accolti, Giovanni e Antonio Roselli, autore, quest'ultimo, anche di un trattato De Monarchia o De Potestate Imperatoris, largamente ispirato a Dante. Ma fra gl'imitatori aretini di D. un posto di primo piano spetta anche a Gambino d'A., vissuto fra il 1430 e il 1480. Questa fortuna del poeta in A. e nel territorio può essere agevolmente seguita anche per i secoli successivi in due articoli di G. Fatini e C.A. Lumini, citati in bibliografia.
Bibl. - Su A. al tempo di D.: Davidsohn, Storia II II 354-360, 420-432, 452-469, 484-492 e passim; III 907-909; A. Bini, A. ai tempi di D., in D. e A., a c. di G. Fatini, Atti e Mem. della R. Accademia Petrarca, n.s. ti (1922) 1-58; sul vescovo Guglielmino Ubertini cfr. C. Lalleri, Guglielmo Ubertini vescovo di A., Firenze 1920. Sulla cultura e lo studio aretino nel sec. XIII possono vedersi A. Moretti, L'antico studio aretino..., in Atti e Mem. della R. Acc. Petrarca, n.s. XV (1933) 289-319; XVI (1934) 105-150; E. Wieruszowski, A. as a Center of Learning and Letters in the thirteenth Century, in " Traditio " IX (1953). Sulla presenza di cose aretine nell'opera di D. e sui rapporti di D. con A., nel vol. D. e A. citato, cfr. gli articoli di G. Fatini, Orme dantesche nell'aretino, 59-136; ID., Il culto di D. in A. (secolo XIV-XVI), 137-230; C.A. Lumini, Il culto di D. in A. (secolo XVII-XX), 231-248.
Lingua. - In VE I XIII 2 A. chiude la serie delle città toscane di cui D. satireggia il dialetto, coinvolgendo apertamente nella critica quei poeti toscani pre-stilnovisti che si arrogavano il diritto di incarnare il volgare illustre mentre la loro base linguistica era sostanzialmente municipale (cfr. § 1): e di A. era il principale idolo polemico di D., Guittone. L'aretino è esemplificato con una frase interrogativa semplice e di tipo quotidiano, affine ad altre usate per i dialetti romanesco, marchigiano, friulano (v.): Vuo' tu [ma i manoscritti Grenoblese e Trivulziano Vo' tu] venire ovelle?, che si è spesso interpretata, ma probabilmente a torto, come un verso (settenario). Essa ci appare non troppo caratterizzata dal punto di vista dialettale: l'elemento più specifico è l'avverbio di luogo ovelle (≪ da qualche parte ≫) che rientra nel tipo composto avverbio di luogo + velles, di ampia diffusione centro-meridionale e la cui punta più avanzata è oggi, caratteristicamente, la Toscana sud-orientale (cortonese, aretino-chianaiola), mentre si spinge più a nord solo l'affine quod velles (toscano covelle, emiliano-romagnolo quèl, ecc.); e v. appunto il tipo aretino moderno uvelle, duvelle, ecc.
Si confronti un'altra, e più o meno coeva, parodia dell'aretino nei vv. 5-6 del sonetto Pelle chiabelle di Dio, no ci arvai (Contini, Poeti II 400), la cui attribuzione a Cecco Angiolieri è più che dubbia (nei manoscritti è anonimo o assegnato a Lapo Gianni).
Bibl. - Per il tipo ‛ uvelle ': C. Merlo, in Zeit. Romanische Philol. XXX (1906) 450-454; G. Bertoni, Italia dialettale, Milano 1916, 47; ID., Profilo linguistico d'Italia, Modena 1940, 28-29; A. Lichtenhahn, La storia di ‛ ove ', ‛ dove ', ‛ onde ', ‛ donde ', ‛ di dove ', ‛ da dove ', Berna 1951, specialmente 49-50; G. Rohlfs, Historische Grammatik der italienischen Sprache und ihrer Mundarten, II, Berna 1949, 261-262 (e trad. it., Torino 1968, 221-22); III, ibid. 1954, 147-148.