Arezzo
A partire dalla seconda metà del 13° sec., il comune di Firenze cominciò a estendere il suo influsso politico sull’area aretina. Le principali ragioni dell’interesse fiorentino nei confronti di questo territorio erano tre. In primo luogo la sua fertilità, giacché Firenze era il mercato di sbocco naturale del grano della Valdichiana; secondariamente, la collocazione geografica di A., al confine con le terre della Chiesa e con la Repubblica senese e nel contempo passaggio obbligato in direzione della Romagna e dei porti adriatici; infine, la turbolenza che caratterizzava la vita politica aretina, preda di continue lotte tra guelfi e ghibellini che rappresentavano una seria minaccia nei riguardi del nascente dominio territoriale fiorentino. Nelle Istorie fiorentine M. menzionò due episodi che punteggiarono la fase tardoduecentesca dei rapporti tra A. e Firenze. Nel 1256 il comune fiorentino concluse una lega con Pistoia, Siena e, appunto, A. (Istorie fiorentine II vi 3), evento cui seguì l’instaurazione del regime popolare in quest’ultima città, che così si pose sotto la tutela di Firenze. Trent’anni più tardi, nel 1287, i ghibellini di A. abbatterono il governo popolare, espellendo i guelfi. L’immediata reazione fiorentina culminò nella vittoria di Campaldino (1289), nella quale i ghibellini di A. subirono una pesante sconfitta (la battaglia è ricordata, in riferimento alle truppe fiorentine, in proemio 12).
Nel corso dei decenni successivi l’egemonia esercitata da Firenze sul territorio di A. si consolidò; d’altro canto, all’interno della società aretina crebbe il fronte di coloro che avversavano l’espansionismo fiorentino.
La compagine degli oppositori era variegata; essa era formata dalle stirpi aristocratiche del contado, come i Tarlati e i Pietramala, alle quali, a seconda delle convenienze, si aggiungevano gruppi familiari di tradizione guelfa (gli Albergotti, per es.), legati agli interessi fiorentini, ma che volevano conservare spazi di indipendenza politica per la propria città. La disgregazione fazionaria e le rivendicazioni autonomistiche resero instabile l’equilibrio dell’intera area. Da tale situazione derivò una conseguenza destinata a durare fino ai tempi di M.: i sovrani, i condottieri e i potentati che, di volta in volta, attaccarono il territorio fiorentino si rivolsero innanzitutto contro A. e i centri del suo circondario, trovando il sostegno di personaggi e famiglie locali che intendevano liberare l’area dalla supremazia di Firenze. È quanto accadde nel 1312, allorché l’imperatore Arrigo VII reclutò ad A. uomini d’arme da utilizzare nella sua spedizione contro Firenze (II xxiv 6). Di lì a poco, nel 1337, Firenze riuscì ad assoggettare A. per dieci anni: M. non ricorda tale evento nelle Istorie fiorentine e invece cita altri due momenti salienti, a esso successivi. Nel 1343, dopo la cacciata del duca d’Atene, A. e le altre città del dominio si ribellarono a Firenze (II xxxviii 1), salvo poi, due anni dopo, stringere con la Dominante dei nuovi trattati di dipendenza. Secondo M., il governo salito al potere a Firenze dopo la cacciata del duca d’Atene decise
che fussi più tosto da placare i sudditi con la pace che farsegli inimici con la guerra […]. Questo partito, prudentemente preso, ebbe felicissimo fine: perché Arezzo, non dopo molti anni, tornò sotto lo imperio de’ Fiorentini […]. E così si ottiene molte volte più presto e con minori pericoli e spesa le cose a fuggirle, che con ogni forza e ostinazione perseguitandole (Istorie fiorentine II xxxviii 2, 5, 6).
Questa lettura degli avvenimenti contiene una «evidente forzatura» (A. Montevecchi, C. Varotti, commento a Istorie fiorentine, in Opere storiche, t. 1, 2011, p. 283, nota 8). M., infatti, sostenne che la politica conciliante attuata da Firenze nel 1343-45 nei confronti delle terre soggette avesse posto le basi della successiva capitolazione di A., avvenuta nel 1384, come vedremo. In verità, tra i due fatti non vi fu alcun rapporto, ma M. lo volle ravvisare al fine di poter introdurre una questione che gli era cara, ossia la necessità per le repubbliche di scegliere con decisione tra due opposte strategie: cercare il consenso dei sudditi oppure assoggettarli con la forza. Le scelte attuate da Firenze negli anni Quaranta del 14° sec. erano state, a suo avviso, un ottimo esempio della prima strategia.
In seguito, la Repubblica non seppe riproporre altrettanta decisione, come M. non mancò di evidenziare in altri suoi testi che trattarono del problema aretino.
In ogni caso, gli accordi conclusi tra Firenze e A. nel 1345 ebbero vita breve. Nel 1380 A. si consegnò a Carlo di Durazzo (Istorie fiorentine III xix 11, dove, però, è citata soltanto la sosta aretina compiuta da Carlo in previsione della sua progettata aggressione di Firenze). Quattro anni più tardi la città fu assalita dagli armati di Enguerrand de Coucy, condottiero disceso in Italia al servizio di Luigi II d’Angiò, impegnato nella riconquista del Regno di Napoli (III xxii 9). In entrambe le occasioni A. venne saccheggiata e il suo territorio devastato. Firenze decise, quindi, un intervento risolutivo e, dopo la morte dell’Angiò, acquistò la città per quarantamila fiorini da Coucy che stava smobilitando le proprie truppe. A tal proposito M. sottolineò come l’acquisto di A. fosse stato il risultato di una repentina variazione della fortuna a favore di Firenze: «seguì la morte di Lodovico [Luigi d’Angiò], e le cose in Puglia e in Toscana variorono con la fortuna l’ordine; perché […] i Fiorentini, che dubitavano di poter difendere Firenze, acquistorono Arezzo» (III xxii 10). Il 17 novembre 1384 un contingente fiorentino prese possesso della città, segnando la fine dell’indipendenza di Arezzo.
La definitiva conquista dell’area aretina trasformò Firenze in una potenza di scala regionale: si trattò di una tappa decisiva nella costruzione del suo dominio territoriale in Toscana (III xxix 8). La zona rimase, però, ancora nel 15° sec., un fronte delicato dello Stato fiorentino. Nel 1425 e, in seguito, nel 1440, dopo la battaglia di Anghiari, Niccolò Piccinino si accampò tra A. e Sansepolcro, compiendo scorrerie nel territorio circostante (IV xiii 4 e V xxxiv 2, 5, 9). Parimenti, tra 1478 e 1479, durante la guerra che seguì la congiura dei Pazzi, l’esercito napoletano-papale attaccò il territorio aretino come primo atto della sua offensiva contro Firenze (VIII xii 6 e VIII xvi 8).
Dopo averla assoggettata, Firenze attuò nei riguardi di A. la medesima politica, improntata all’accentramento amministrativo e al rigido controllo fiscale, che venne applicata anche nelle altre città sottoposte al suo governo. Tuttavia, nel corso del 15° sec., i regimi politici che si succedettero nella Dominante cercarono anche di procurarsi la benevolenza dei sudditi. Per esempio, a partire dal 1427, per una quarantina d’anni la carica di cancelliere della Repubblica fiorentina fu assegnata pressoché ininterrottamente a personalità provenienti da A., quali Leonardo Bruni e Carlo Marsuppini. Parallelamente, dapprima gli Albizzi (che vantavano una remota origine aretina: Istorie fiorentine III iii 2), in seguito i Medici, a partire da Cosimo il Vecchio per culminare con Lorenzo il Magnifico, esercitarono un’intensa attività di patronage, allestendo una fitta rete di clienti e beneficiati in seno al ceto dominante aretino.
L’equilibrio, ancorché precario, che caratterizzò le relazioni tra le due città in età laurenziana si dissolse dopo la cacciata dei Medici nel 1494. La ribellione di Pisa, avvenuta in quello stesso anno, l’inasprimento fiscale varato dalla Repubblica fiorentina nel 1500 al fine di arruolare forze militari da inviare contro la città ribelle (cfr. Discorsi I xxxix 7) e la dissoluzione del reticolo dei favori dispensati dalla corte medicea risvegliarono il mai sopito desiderio di autonomia
nutrito dalla società aretina. Dopo un paio di tentativi di rivolta falliti, il 4 giugno 1502 A. insorse contro il dominio fiorentino, seguita dagli altri centri della Valdichiana. Un ruolo fondamentale, nel successo dell’insurrezione, fu svolto dalle truppe di Vitellozzo Vitelli, di Giampaolo Baglioni e degli Orsini, che occuparono la città, nonché dal sostegno fornito da Piero de’ Medici e da Pandolfo Petrucci, che per motivi diversi intendevano destabilizzare la Repubblica di Firenze. Il problema maggiore, tuttavia, fu rappresentato da Vitelli: forte di seimila uomini a piedi e di seicento lance (LCSG, 2° t., p. 269), egli ambiva a inglobare i centri aretini nei propri domini di Città di Castello. Poiché il condottiero tifernate era ‘uomo’ del Valentino (p. 241), spettò a M. e a Francesco Soderini, in missione a Urbino, chiedere conto a Cesare Borgia dell’invasione militare e dell’insurrezione di Arezzo. Cesare rispose nella maniera doppia e simulatrice che gli era consueta. Da un lato, il 26 giugno, negò di essere il mandante dell’attacco, addossando la responsabilità dell’accaduto a Vitellozzo stesso e a Petrucci (p. 241; cfr. anche pp. 246 e 455). Cesare ribadì a M. la propria estraneità quattro mesi dopo (pp. 337-38). Dall’altro lato, propose a Firenze un trattato di alleanza, offrendo come merce di scambio proprio A. e la Valdichiana, che soltanto lui era in grado di sottrarre al controllo delle milizie di Vitelli (missive di Francesco Soderini, rispettivamente ai Dieci e alla Signoria, del 9 e 15 luglio 1502, in N. Machiavelli, Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, 1° vol., 1964, pp. 298 e 310-14).
Impegnata sul fronte pisano, Firenze non aveva forze sufficienti per recuperare A., ma in suo aiuto arrivò l’esercito francese. Rivoire Imbault, il capitano delle genti francesi che giunsero sotto le mura della città, intavolò delle trattative con gli aretini al fine di giungere alla loro capitolazione. Questi accettarono di arrendersi, chiedendo, tuttavia, di essere consegnati ai fiorentini dopo un intervallo di quattro mesi di tempo. Non fidandosi dei francesi, i fiorentini rifiutarono le proposte inoltrate dagli aretini. Nel frattempo, il primo agosto 1502, l’esercito francese si impadronì della città e, pochi giorni più tardi, recuperò anche i centri della Valdichiana («trasse ’l Vitel d’Arezzo e suo vestigi», Decennale I, v. 352). Alla fine, Firenze ottenne dal re di Francia, Luigi XII, la sostituzione di Imbault con un altro comandante, Antoine de Langres, il quale, il 27 agosto, consegnò la città e il suo territorio alle forze fiorentine. Secondo la ricostruzione dei fatti offerta nei Discorsi, in quel frangente Firenze si era condotta in maniera incerta, rendendo palese l’interna debolezza che caratterizzava il regime repubblicano: «la più cattiva parte che abbiano le republiche deboli è essere inresolute; in modo che tutti i partiti che le pigliono, gli pigliono per forza; e se vien loro fatto alcun bene, lo fanno forzate e non per prudenza» (I xxxviii 11; cfr. I xxxviii 17-19 per l’illustrazione degli eventi).
M. fu un testimone diretto della capitolazione di A., giacché venne inviato in missione nella città per due volte, il 15 agosto e il 17 settembre 1502 (LCSG, 2° t., pp. 294-96 e 320). Egli si occupò della pacificazione del territorio e della smobilitazione delle truppe.
Nelle sue lettere, M. ragguagliò i Dieci circa i timori che serpeggiavano tra i cittadini di Arezzo. Essi, infatti, avevano paura che Firenze infliggesse loro una pesante punizione; dal proprio canto, la Repubblica fiorentina si proponeva di castigare in modo esemplare i capifila della rivolta, evitando, tuttavia, di inimicarsi la maggior parte della popolazione (LCSG, 2° t., pp. 298 e 325-26). Nel frattempo, spinto dalla «necessità» innescata dai fatti dell’«accidente di Arezzo», il regime fiorentino varava la «legge nuova» che istituiva il gonfalonierato perpetuo, conferendo «nuovo ordine» alla città (Discorsi I ii 8-9). A partire dal settembre 1502 le autorità fiorentine deliberarono una serie di misure repressive. Esse contemplarono liste di proscrizione, condanne capitali, confische di beni e un irrigidimento del controllo amministrativo sul governo municipale di Arezzo. Tuttavia, si tenne conto della «qualità» dei condannati, evitando di punire anche le loro famiglie (LCSG, 2° t., p. 325); inoltre, si rinunciò ad attuare il pur progettato inurbamento di una parte della popolazione del contado, quella più legata alla supremazia fiorentina: un trasferimento forzato che apparve impraticabile e che forse non avrebbe dato gli esiti sperati.
Nell’estate dell’anno successivo la situazione tornò a farsi difficile, poiché le milizie papali e quelle del Valentino minacciarono di invadere il territorio di A., certe di trovare l’appoggio dei cittadini esasperati dalla repressione fiorentina. In questo contesto, tra giugno e luglio 1503, M. compose il discorso Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati. Sulla scorta del modello dei Romani, egli criticò severamente la condotta di Firenze dopo la rivolta dell’anno prima. La Repubblica non aveva saputo scegliere tra la strada della riconciliazione e quella della punizione senza sconti: «A me non pare che voi alli Aretini abbiate fatto nessuna di queste cose, perché e’ non si chiama benefizio, ogni dì farli venire a Firenze […]. Non si chiama assicurarsene lasciare le mura in piedi» (Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati § 26). In particolare, M. giudicò un grave errore il mancato inurbamento degli abitanti del contado: qualora assunta con coraggio, tale decisione poteva rafforzare il controllo sulla città soggetta.
Questo, almeno, era l’insegnamento che proveniva dalla vicenda di Furio Camillo, il quale aveva soggiogato le città latine ricorrendo al trasferimento forzato della popolazione:
i Romani aveano due modi: l’uno era di rovinare le città e mandare gli abitatori ad abitare a Roma; l’altro, o spogliarle delli abitatori vecchi e mandarvi de’ nuovi, o lasciandovi i vecchi, mettervi tanti de’ nuovi che i vecchi non potessero mai né macchinare, né deliberare alcuna cosa contro al senato (Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati § 16).
Memore dell’endemica tendenza alla ribellione che aveva caratterizzato, nel lungo e nel breve periodo, le relazioni di A. nei riguardi di Firenze, la Repubblica avrebbe dovuto sapere che «quando si ha da giudicare cittadi potenti, e che sono use a vivere libere, conviene o spegnerle o carezzarle». Viceversa, Firenze aveva scelto di seguire una «via di mezzo», che aveva provocato «ignominia» e «sdegno» nei sudditi aretini, facilitando la loro adesione ai disegni espansionistici dei Borgia (tutte queste citazioni sono in Discorsi II xxiii 32-33).
Bibliografia: Lo stato territoriale fiorentino (secoli XIV-XV). Ricerche, linguaggi, confronti, a cura di A. Zorzi, W.J. Connell, Pisa 2001; R. Black, Studies in Renaissance Humanism and politics. Florence and Arezzo, Farnham 2011; Arezzo nel Medioevo, a cura di G. Cherubini, F. Franceschi, A. Barlucchi, G. Firpo, Roma 2012.