ARIA
. Come termine musicale la parola aria ha due diversi significati fondamentali, entrambi correnti tanto nell'uso antico quanto nel moderno. In primo luogo, in senso figurato somigliante a quello di motivo, si usa per indicare l'andamento di una cantilena di carattere melodico, come un inno nazionale, una barcarola veneziana, una villanella napoletana, una canzone o un Lied tedesco, un song scozzese o irlandese, un Ländler austriaco, ecc. Fra le forme musicali, sia vocali sia strumentali, si chiama poi aria un pezzo di forma chiusa, costruito secondo un variabile ma determinato schema strofico, che può tanto stare isolato a sé quanto servire da elemento integratore del melodramma, dell'oratorio, della cantata, della suite e del concerto strumentale.
Già nella terminologia musicale del '300, aer, alla latina, torna in senso di modus, ossia di quella divisione fondamentale dei valori di durata delle figure musicali, derivata dai metri della poesia latina, con la quale il mensuralismo franconico stabilì, verso la metà del sec. XIII, le prime sicure leggi delle lunghezze dei suoni e delle loro sottodivisioni nel tempus. Così l'adoperò, in un piccolo codice della Marciana fatto conoscere da Santorre Debenedetti, un anonimo trattatista italiano, quando, per descrivere l'andamento della musica nei madrigali nostri del '300, dice: volunt etiam esse de tempore perfecto et aere italico; si quis aliquando miscetur tempus aeris gallici, bonum esset. Verso la metà del '400, il pesarese Guglielmo Ebreo, nel suo Trattato dell'arte del ballo, prescrive che il compositore di danze "trovi il tinore, o vero il suono, il quale sia aieroso"; e si serve anche di aiere per indicare quell'atto "di aierosa presenza ed elevato movimento", col quale il ballerino traduce nel movimento del corpo l'andamento della musica. Che la denominazione di aria fosse poi diffusa e di moda nel '400, appare chiaro da una lettera del 1460 inviata da certo Nicolò Tedesco, vivente in Ferrara, al marchese di Mantova, nella quale propone a maestro di canto un Giovanni Brith, abilissimo "in cantare moderno massime arie alla veneziana". Nei primi anni del'500, Nicolò Sagudino, segretario dell'ambasciatore veneziano in Inghilterra, si doleva che certi organisti inglesi non eseguissero la musica "con troppo bono aiere" e dava così alla parola lo stesso significato di gusto col quale l'usò cinquant'anni dopo l'organista spagnolo Sancta María (con buen ayre); e al tempo stesso, in Italia, i compositori nostri attribuirono ad aer il significato meno indeterminato di modulo melodico composto sulla prima strofa di un testo lirico popolaresco, da ritornellarsi sulle altre. Il testo poteva essere scelto a piacimento, purché appartenesse, nel ritmo e nel metro, alla forma per la quale l'aer era stato composto. Tali sono gli Aer de versi latini e gli Aer de capituli di Antonio Capreolo e di Filippo Lurano, dati alla luce sul principio del'500 dal Petrucci, il quale, nella silografia della sua stampa, li chiamò "modi de cantar versi latini, capituli, sonetti, ecc.". Questi aer preludiano al comporre omofono e solistico proprio dell'aria venuta in seguito, giacché lasciano predominare la cantilena principale nella parte acuta del cantus: tendenza resa anche più evidente dalle trascrizioni ricavate dalla stessa letteratura alla quale appartengono gli aer pubblicati nel 1509 da Franciscus Bossinensis, in cui il cantus viene affidato a una sola voce di soprano, mentre le altre parti sono riprodotte dal liuto accompagnatore. In omaggio appunto al canto solista valorizzante l'aria della cantilena, Baldassare Castiglione scriveva, nel Cortegiano, di preferire "il cantare alla viola, perché tutta la dolcezza consiste in uno solo, e con molta maggior attentione si nota e intende il bel modo e l'aria".
In pieno '500, durante la grande fioritura del madrigale e delle minori forme liriche anche polifoniche, mentre nella migliore lirica d'arte prevaleva l'uso di porre in musica gl'interi testi poetici, alla parola aria non rimase che il significato generico onde vennero, ad esempio, chiamati ariosi i madrigali, prediligenti l'omofonia, di alcune raccolte apparse fra il 1555 e il 1584. L'originaria tendenza alla monodia e ai ritornelli strofici non poté quindi trovare sviluppo nella lirica d'arte, che verso la fine del '500, al momento in cui il nuovo stile monodico recitativo vinse la battaglia dichiarata al contrappunto. L'aria monodica, annunziata dal canto del Caccini a Firenze e del Bientina a Pisa nel 1589, durante le feste di quella società cortigiana, appare nella raccolta di madrigali e arie dello stesso Caccini, pubblicata nel 1602 col titolo di Nuove musiche, ma costituita di composizioni in parte esistenti già un decennio innanzi. In quanto allo stile, queste arie, accompagnate dal liuto o da altro strumento polifonico, non offrono che una mescolanza di elementi recitativi, melodici, ornamentali; e vuol essere qui rilevato che, nel senso attribuitole dal Caccini, ariosa era pure la sprezzatura ornamentale composta di passaggi e di gruppetti, ove si manifestava l'arte canora dell'esecutore. Nelle arie del Caccini, svolte sopra un testo a più strofe, i periodi della composizione musicale seguono la struttura strofica della poesia; solo le riprese della musica sopra una o più strofe variano di numero e di luogo, a seconda della lunghezza del testo. Con gli stessi elementi formali e stilistici l'aria penetrò contemporaneamente nel melodramma; ma trovandosi quivi nella condizione di essere sottoposta alle esigenze dell'azione, le accadde di dover frequentemente rinunziare al periodo strofico, concentrare i suoi elementi stilistici in brevi frammenti disseminati nel recitativo, perdere insomma i contorni di forma chiusa con cui era costituita in pezzo staccato nella lirica da camera, e in tal guisa dar luogo a quel melodico fraseggiare che si chiamò arioso. Quando però, anche nel melodramma, le fu possibile seguire la forma strofica ritornellata, l'aria non mancò di delinearsi chiaramente: lo dimostrano il prologo dell'Euridice del Caccini e le strofe del canto d'Orfeo "Vi ricorda, o boschi ombrosi", alternantisi col ritornello strumentale nella prima Favola in musica di Claudio Monteverdi. Nel prologo dello stesso Orfeo, anzi, il Monteverdi, col variare la musica solistica delle varie strofe e col riprendere quella dei ritornelli non senza qualche modificazione di tono, crea il modello di una nuova forma d'aria che troverà poi molti imitatori e servirà di schema alla composizione del concerto solistico nelle sue strumentali alternanze dei tutti e del solo; mentre nell'altra aria "Possente spirito" di Orfeo, nel terzo atto della stessa favola, egli crea il prototipo dell'aria "di bravura" e segna il primo passo della fusione fra l'elemento vocale e lo strumentale che condurrà all'aria di Alessandro Scarlatti.
Intanto che in Italia, nella musica strumentale, il termine aria trovava applicazione col senso generico di andamento o motivo, - Arie di canzon francese di Marc'Antonio Ingegneri, Sonata in aria francese di Adriano Banchieri -, echi del rinnovamento quivi in corso furono le arie composte in Francia da quel Sieur Savornin tres excellent en chant et en la composition des airs de musique, che nel 1582 rappresentava nel castello di Montiers la parte di Giove nel Ballet comique de la Royne del piemontese Baltazarini; gli Airs mis en musique a quattro e cinque voci, che il Le Roy pubblicava a Parigi nel 1595; le Ayres, monodiche ma senza traccia di stile recitativo, di Jones, Campion, Rosseter, apparse nel 1601 in Inghilterra. La Francia, che verso la lirica musicale fondata sul couplet e la partecipazione di questa lirica al ballet manifestò sempre un'inclinazione particolare, già nel '500 preparava i suoi Airs de cour vocali e trascritti per liuto, ai quali diede poi grande sviluppo il gusto monodico nel '600.
L'apparizione delle arie da camera di Caccini trovò in Italia immediato seguito nelle raccolte di arie del reggiano Domenico Maria Melli (1602) e in quelle del Peri, Rasi, Brunelli, Visconti, Saracini, Vitali, Frescobaldi, venute dopo, senza per altro che lo schema melodico dell'aria divenisse più stabile di quel che non fosse stato col Caccini. Il Melli, ad esempio, nel terzo libro delle sue arie del 1609, ne offre di tre tipi: nella forma strofica con musica ritornellata secondo l'antico aer; nella madrigalesca, in cui ogni strofa è diversamente posta in musica; in una terza forma ibrida, mescolando il primo col secondo di questi due tipi, onde il Melli costruisce dei cicli di tre madrigaletti a due strofe ciascuno, con la ripetizione della musica della prima strofa sulla seconda. Frattanto, mentre le arie a due e tre voci manifestano l'attaccamento di alcuni fra i nuovi autori alla composizione polivoca prima in auge, sorgono, già nel 1610 ad opera del Rasi, le ariette a una voce, in cui la canzonetta a più voci d'una volta si fa monodica. Comincia pure ad apparire nell'aria l'influsso della musica di danza, con le Arie in Gagliarda e in Corrente, pubblicate nel 1607 dal Calestani, e fra il 1613 e il 1618 dal Cifra; poi con le Arie di Romanesca, di Ruggieri, di Passacaglia del Frescobaldi. Entra così nell'aria vocale il principio della variazione sopra un basso melodico ripetuto a ogni strofa mentre il canto varia: processo di grande importanza per gli effetti che produsse nella musica strumentale. Nella stessa atmosfera di rinnovamento monodico e di orientamento della polifonia verso l'omofonia, si diffondono intanto in Francia, con svolgimento preponderante nella lirica da camera e nella musica di danza, i citati Airs de cour, de table o Airs bacquiques, sinonimi di Airs àcouplets, con Pierre Guesdron a maggiore rappresentante; gli Airs de danse ed Airs de ballet, composti sui tipi tradizionali della sarabanda, passacaglia, corrente, ecc., dai raggruppamenti dei quali escono la Suite strumentale e, nell'opera francese, i Divertissements dansés. E come in Italia trovano favore le Arie da chiesa e le devote, diverse dalle altre soltanto nel testo spirituale, germogliano in Francia gli Airs de dévotion. La Germania, già invasa dalla corrente madrigalesca venuta dall'Italia, dal 1638 trova nel suo Heinrich Albert un fecondissimo compositore di arie varianti fra il tipo di Caccini e il Lied, al quale tengono dietro tanti altri, compreso quell'Adam Krieger, maestro dell'aria con ampî ritornelli strumentali di forma monteverdiana, che alla studentesca di Lipsia dedica l'opera sua. Anche l'Aria variata, sul genere frescobaldiano, trova seguaci all'estero, e W. Ebner, fra i tanti, ne offre un esempio ragguardevole nell'Aria.... XXXVI modis variata, ac pro cimbalo accomodata, uscita a Praga nel 1648.
Mentre fuori d'Italia l'aria penetrava dovunque con le forme ricevute dai nostri maestri, nella terra che le aveva dato origine si verificò uno svolgimento che procurò ad essa forme più stabili, determinate, artistiche. Fattore di una più netta distinzione fra il recitativo e l'aria, fu la rinuncia del primo all'elemento arioso, quale si constata già nella commediola del Ruspigliosi, Chi soffre speri, posta in musica nel 1639 da Mazzocchi e Marazzoli.
I compositori dei primi melodrammi veneziani del '600, senza giungere a una semplificazione altrettanto radicale del recitativo, si valsero spesso metodicamente delle due forme chiaramente differenziate, e le loro arie se ne giovarono per prendere contorni di forma chiusa, assumere elementi di carattere popolare come la barcarola, ammettere la voce di uno strumento solista dialogante col canto e, così concertate, divenire, dietro l'esempio dato dal Cavalli, modello alle arie concertate con uno o più strumenti solisti, che troveranno poi perfezionamento in Bach.
Altra forma tipica uscita da questo svolgimento, la cui importanza diviene capitale nella storia dell'aria del '700, è quella dell'Aria col da capo (schema melodico: a b a), detta così perché la sua terza parte non era che una ripetizione più o meno variata della prima. Schema antichissimo, comune ai tipi metrici contenenti la ripresa in cui si ricantavano i versi d'introduzione della stanza. Schema prediletto dai compositori italiani anteriori all'avvento del madrigalismo cinquecentesco, esso riappare prima fra le musiche da camera nelle arie di Domenico Belli, che sono del 1616, e poi, sistematicamente adottato, in quelle numerosissime di Luigi Rossi, morto nel 1653. A tale data Cavalli e Carissimi avevano ancora innanzi a sé venti anni di vita per produrne di ugual forma, Cesti ne aveva quindici, mentre Stradella era fanciullo e Alessandro Scarlatti doveva ancora nascere. Il melodramma, campo aperto al virtuosismo canoro, non trascurò, fin dagli inizî, la tripartizione dell'aria; ma fu necessario che, dopo essersi costituito come una successione di recitativi e di arie, esso trovasse nelle due strofette delle arie, sistematicamente accodate ai lunghi recitativi del libretto metastasiano, una forma stabile convenzionale adatta al canto virtuoso, perché l'aria col da-capo, frammezzata dai ritornelli strumentali, pervenisse al punto culminante del suo sviluppo. Così, mentre accenni a tripartizione si trovano già in alcuni melodrammi del Cavalli, solo nell'Eteocle e Polinice del Legrenzi (1675) lo schema dell'aria col da-capo mostra nettamente l'ordinamento delle tre parti e nella Teodora dello Scarlatti (1693) offre un primo esempio della sua facoltà estetica di svolgersi con contrasti di movimenti e di caratteri: agili e pieghevoli all'elemento virtuoso nella prima parte in cui è tollerata la ripetizione delle parole; tranquilli e melodici nella seconda; atti all'improvvisazione dei virtuosi nella terza. Ciò spiega le denominazioni di Grand'aria e di Aria di bravura che le furono date; mentre si chiamarono Ariette quelle composizioni minori ma assai favorite che i cantanti si prendevano l'arbitrio d'introdurre nei melodrammi a soddisfazione del proprio gusto, in sostituzione delle arie originali. Definita secondo il carattere, l'aria si chiamò anche cantabile, di portamento, di mezzo carattere, parlante, agitata, d'agilità, d'imitazione; nei momenti più drammatici, poi, l'aria era preceduta da un recitativo accompagnato, ove non mancavano momenti melodici detti ariosi. Dal costume e dalle convenzioni che dominarono il teatro lirico settecentesco, l'aria si ebbe i nomi di aria di convenienza, di baule, di seconda parte, del sorbetto, di paccotiglia, sotto i quali si celò spesso l'arietta. Finché, dopo essere stata discussa dai polemisti (Raguenet e Lecerf) e dagli enciclopedisti, non venne il Gluck a restituire l'aria alla dignità della sua funzione lirica nella rinnovata atmosfera dell'opera. Intanto l'aria strumentale, che senza forma definita ma con andamento piano e melodioso aveva nella prima metà del '700 trovato posto nella suite e nel concerto solistico quale tempo di mezzo, viene plasmata in Francia da un allievo del nostro Somis, il Leclair, nel Concerto per violino sopra uno schema armonico, in cui a un primo periodo svolto nel modo minore segue un secondo in maggiore. È lo schema della romanza, adottato nel tempo in cui il Viotti compose i suoi concerti. Nelle opere teatrali della maturità del Mozart, in quelle del Rossini e dei compositori della prima metà dell'Ottocento, l'aria non ebbe uuo schema fisso, ma, sola o seguita da un secondo tempo di movimento rapido, conservò in generale i requisiti di cantabilità che la distinguevano dalle altre forme nella storia della musica.