ARIANESIMO
. Dopo il pullulare dell'eresia gnostica e la fine delle persecuzioni, la controversia ariana si deve considerare, tra le grandi crisi attraversate dal cristianesimo antico, la più grave e ricca di conseguenze. È un succedersi di polemiche e sforzi molteplici per chiarire concetti e definire termini, di concilî e scomuniche, di aperte violenze e sottili maneggi diplomatici. Ma è, anche, la formazione d'un nuovo mondo. Quando la crisi si manifesta, troviamo una Chiesa in cui, eccetto il caso di un risoluto e scandaloso rinnegamento dello stesso Vangelo, è lecito ancora a un vescovo manifestare opinioni personali, seguire una propria politica, ignorare fino a un certo punto i colleghi e le autorità dello stato, pur di persecutrici fatte tolleranti o benevole. Alla fine, troviamo e definito un dogma - dogma fondamentale della Chiesa cristiana - e fissato un simbolo di fede universale, e palese la necessità di altre definizioni; troviamo la Chiesa stessa disciplinata con maggior rigore nei tre grandi patriarcati, con un organo nuovo, il Concilio ecumenico, e tutta raccolta, in Occidente, attorno al papa di Roma; mentre già si manifestano i segni premonitori di quello che sarà il distacco definitivo della Chiesa latina dall'orientale. Troviamo, infine, posto ormai il problema dei rapporti tra questa società autonoma d'origine divina e lo stato, che, non riuscito a estinguerla, ora la blandisce per farsene tutore, prestandole al tempo stesso il braccio secolare, dopo aver cercato di farle proclamare una dottrina più rispondente ai fini del dominio politico e affermando ora una coincidenza d'interessi, momentanea e foriera di nuove lotte. E la controversia ariana s'innesta su altri avvenimenti grandiosi, la profonda trasformazione costituzionale dell'Impero e della società sotto Diocleziano e Costantino, l'adozione del cristianesimo come religione ufficiale, le migrazioni dei popoli germanici e la caduta dell'Impero d'occidente. Questo, attraverso scoppî di odio popolare e astuti calcoli politici, eroismi di martiri e cortigianesca pieghevolezza di versipelle, fatiche e dolori d'ingegni che titanicamente s'ergono di fronte al mistero per negarlo, o piamente nel virile riconoscimento di esso sentono trionfare la loro dignità umana, arzigogoli avvocateschi di manipolatori di maggioranze alla ricerca di una formula, e aneliti di anime buone verso l'unità: accadimenti accidentali, fini e passioni spesso anche non nobili, ambizione e umiltà, viltà, superbia e testardaggine, abnegazione e amore di pace, chiaroveggenza che giunge alla severità più implacabile, debolezza o bonarietà che persuadono ad accomodamenti indecorosi. Ma, tutt'insieme, una grande pagina di storia. Tramonta il mondo antico, e confusamente già s'intravvede quello che sarà il Medioevo.
Fu detta cavillazione oziosa di teologi più sottili che pii. Ma erano in giuoco non solo problemi, e tra i più ardui, di metafisica e teodicea, bensì il modo stesso di rappresentarsi la redenzione e l'essenza stessa del cristianesimo. Non solo il problema che ci è posto dalla nostra condizione di mortali assetati di certezza e di eternità, il problema di ogni filosofia e di ogni vita, essere e divenire, universale e particolare, noumeno e fenomeno, Dio e il mondo; ma, per il cristianesimo, con la creazione del mondo e del genere umano, la salvezza, la redenzione dal peccato. Questo bisogno di salvezza non era esclusivo del cristianesimo: ma esso non poteva ricorrere a miti orientali per colmare, mediante complicate teorie emanatistiche, l'abisso tra Dio trascendente e questo mondo del divenire e la materia, abisso che il pensiero del tempo ammetteva senza discussione. Un ἅγιος λόγος, un mito, come quelli dei misteri o delle sette gnostiche, con tutto l'astruso simbolismo di queste ultime, cozzava sempre contro i dati della tradizione evangelica: Gesù di Nazareth, che patì, fu crocifisso, morì sotto Ponzio Pilato. Ma l'uomo Gesù era al tempo stesso il Messia predestinato e profetato; era il Cristo risorto, datore e garante d'immortalità ai suoi fedeli. Era il Verbo, e il Verbo era in principio, ed era presso Dio. Se non che la salvezza da lui procurata sarebbe stata solo apparente qualora solo apparente fosse stata la sua umanità; e s'egli era un uomo, soltanto ispirato, non diverso dai profeti, cosa diveniva la garanzia da lui data? Ma come si conciliava la sua divinità con il monoteismo? Dirlo pienamente e realmente Dio, non era cadere in un diteismo? e farne una divinità subordinata, non era abbassarlo al livello di una creatura? Tra queste alternative si dibatte, con le molteplici risposte date al quesito principale, accentuando ora l'uno, ora l'altro aspetto del problema, la teologia del sec. II e del III; dal bisogno di soddisfare queste esigenze razionali della fede trae origine anche il tentativo di Ario. Sulla genesi immediata del quale non ci soffermeremo: ché ciò esigerebbe una minuta e difficile disamina d'un grave problema critico e storico, del quale pure è urgente la soluzione: quale sia, precisamente, la posizione dogmatica di quel Luciano d'Antiochia, che conosciamo come discepolo di Paolo di Samosata, e maestro di Ario ed Eusebio di Nicomedia: epigone, cioè, ed iniziatore di due sistemi radicalmente opposti, benché animati da un medesimo interesse: quello, cioè, di affermare più pienamente l'unità di Dio, il monoteismo. Ma non sarà inopportuno tener presente il concetto della trascendenza di Dio, quale era ormai universalmente accolto dalla filosofia greca e da molti pensatori cristiani.
Ario era un presbitero di Alessandria, al quale il vescovo Alessandro aveva affidato la direzione della chiesa Baucalis. Già discepolo di Luciano, era stimato assai per la vita ascetica e la dottrina. Il suo carattere non riusciva altrettanto simpatico, ma nelle accuse dei padri della Chiesa si ripetono fors'anche motivi tradizionali, che tornano a proposito di tutti gli eretici. Intorno al 317 o al 318, il suo insegnamento attrasse l'attenzione del vescovo Alessandro; nonostante il suo intervento, Ario continuò. Un concilio, nel 321, lo depose, insieme con altri cinque preti e sei diaconi di Alessandria, con due vescovi, Secondo di Tolemaide (in Cirenaica) e Teonatte di Marmarica, e con altri due preti e quattro diaconi della Mareotide. Ario si rifugiò in Palestina, a Cesarea; poi presso un antico condiscepolo, Eusebio vescovo di Nicomedia, che gli accordò la sua protezione. Ancora una volta, come al tempo di Origene, l'episcopato asiatico si schierava contro il patriarcato di Alessandria. La situazione si faceva così più grave.
I pochi frammenti giunti fino a noi (due lettere, brani della Thaleia, una formula di fede), ci permettono di ricostruire abbastanza bene il pensiero di Ario. Egli voleva salvare il monoteismo e la trascendenza di Dio, unico, non generato, eterno. Parlare di generazione equivaleva dunque ad attribuire a Dio un cambiamento, la possibilità di comunicare la sua essenza (che sarebbe stata, in questo caso, divisibile e composta, anziché semplice); parlare di unità di sostanza divina nel Padre e nel Figlio era, pertanto, un affermare o l'assurdo, o due dei. Il Figlio era intermediario tra Dio e il mondo, in quanto il Verbo era stato creato prima del mondo, a questo fine, dal nulla (ἐξ οὐκ ὄντων), poiché in origine nulla esisteva fuorché Dio, e prima del tempo (πρὸ αἰώνων), che era incominciato col mondo: ma in una sorta d'istante temporale, perché, se creato, non poteva essere eterno: e se eterno, si doveva dire increato, ossia un secondo Dio. Creato, dunque, il Verbo, in seguito a un atto del libero volere di Dio, che non può essere sottoposto a necessità: il che presupponeva la preesistenza della volontà divina al Verbo stesso, "primogenito di tutta la creazione" (πρωτότοκος πάσης κτίσεως: Colossesi, I, 15, secondo l'interpretazione arbitraria di Ario e dei suoi seguaci). "Vi fu un quando in cui non era, e prima di venire all'esistenza non era, e anche il suo essere fatto ebbe un principio" (ἦν ποτε ὅτε οὐκ ἦν, καὶ οὐκ ἦν πρὶν γένηται, ἀλλ' ἀρχὴν τοῦ κτίζεσϑαι ἔσχε καὶ αὐτός).
All'indomani della sua vittoria su Licinio (323), Costantino, ansioso di ridare all'Impero unità anche morale, trovava così in Oriente i cristiani divisi e in lotta, come già nell'Africa dilaniata dallo scisma donatista. Si può comprendere come cercasse di ottenere l'unione. Falliti i tentativi di piegare Alessandro o di ridurre Ario al silenzio, egli accettò dunque il consiglio di convocare i vescovi, non più di questa o quella regione, ma di tutto l'Impero. Sarebbe stato come il simbolo dell'unità della Chiesa, e nel tempo stesso, accanto all'imperatore, che si proclamava vescovo per le cose esteriori, lo strumento del governo spirituale, come il Consistorium principis quello del governo temporale. Con queste intenzioni, senza dubbio, Costantino convocava il concilio di Nicea; e con queste egli si adoperò affinché, a eliminare ogni futura controversia dottrinale, si adottasse una formula unica della fede, da servire come paragone dell'ortodossia dei vescovi e, quindi, delle loro chiese. Ma i vescovi erano divisi. I più provenivano dalla Siria e dall'Asia minore, erano quasi tutti sotto l'influsso del pensiero di Origene e temevano, più che altro, il monarchianismo e l'adozionismo di Sabellio. Conservatori, in sostanza, per ciò che riguarda la situazione del momento, pensavano che Ario poteva avere esagerato, ma che peggio sarebbe stato l'esagerare nel senso opposto. Perciò, respinto il simbolo proposto da Eusebio di Nicomedia, come troppo favorevole ad Ario e quindi inaccettabile agli alessandrini e all'Occidente (e la fede popolare non avrebbe accolto una troppo palese e netta negazione della divinità del Cristo), vi fu come un momento d'incertezza. Allora Eusebio di Cesarea, lo storico della Chiesa, vescovo e biografo aulico, propose una nuova formula, forse lo stesso credo battesimale della sua chiesa. In esso, grazie all'energia del diacono alessandrino Atanasio, che assisteva il suo vescovo, s'introdussero però alcune aggiunte: poche, ma decisive. Il credo di Nicea termina con una condanna dell'arianesimo, che, se non lo nomina, non è perciò meno esplicita, ripetendo le frasi stesse dell'eresiarca; all'epiteto di "generato" (γεννηϑέντα) applicato al Figlio (notevole l'uso di questa parola, anziché "Verbo") segue una duplice spiegazione: "non fatto" (οὐ ποιηϑέντα), "cioè dell'essenza del Padre" (τουτέστιν ἐκ τῆς οὐσίας τοῦ Πατρός); e queste parole sono a loro volta seguite da quella, che doveva diventare il segnacolo dell'ortodossia: "consustanziale al Padre" (ὁμοούσιον τῷ Πατρί). Il termine homousios, se poteva appagare gli Occidentali, per i quali era equivalente a consubstantialis, usato già da Tertulliano, fu combattuto dalla maggioranza. Obiettavano che non si trovava nella Scrittura (ma appunto per dare di questa una spiegazione chiara e definitiva occorreva un termine ad hoc) ed era stato usato da Paolo di Samosata. Soltanto l'energia di Atanasio e l'autorità di Osio di Cordova, il consigliere ecclesiastico dell'imperatore, poterono vincere la riluttanza degli Orientali. Inoltre, a eliminare la cristologia di Ario, secondo la quale il Verbo aveva assunto nell'uomo Gesù il posto della parte superiore dell'anima, lo "spirito" (πνεῦμα) o "ragione" (λόγος), si aggiunse alla frase "disceso ed incarnato" (κατελϑόντα καὶ σαρκωϑέντα) la determinazione ἐνανϑρωπήσαντα, "fatto uomo". Uomo completo, con carne, anima e spirito (o ragione) umana: con che si presupponeva la coesistenza delle due nature, umana e divina. Tuttavia, nella formula finale di anatema si usavano come sinonimi i due termini usia, (οὐσία, "essenza") e hypostasis (ὑπόστασις, substantia), che soltanto più tardi sarebbero stati definiti esattamente; mentre in questa confusione e nella difficoltà di rendere entrambi esattamente in latino (in cui essentia è grammaticalmente impossibile, e fu foggiato tardi, proprio per rendere οὐσία) era il germe di altre lunghe e gravi discussioni.
Ottenuta l'unione, Costantino pensò a imporla: i vescovi che non avevano sottoscritto e Ario furono mandati in esilio; con essi anche Eusebio di Nicomedia e Teognide di Nicea. Ma la formula che incorporava l'ortodossia era stata approvata più grazie all'energia di una minoranza attiva ed energica che in seguito a una discussione, capace di convincere tutti del pericolo rappresentato dall'arianesimo. L'Occidente, per cui la controversia non aveva ancora un senso concreto, poté appagarsene e accettarla quasi passivamente; l'Oriente vi lesse invece il sabellianismo e temette che si fosse fatto un passo falso o per lo meno precipitato. L'unione e la sconfitta dell'eresia non erano ancora opera d'una reazione spontanea di tutte le forze vive operanti nel seno stesso della Chiesa, che pure aveva saputo, da sola, eliminare lo gnosticismo. L'ortodossia doveva, con il suo sforzo e con dolori suoi, meritare la vittoria, conquistata ora con l'appoggio dell'imperatore; e questo appoggio cercarono ora di acquistarsi gli ariani.
Non fu cosa difficile. Il cauto e abile Eusebio di Nicomedia (Atanasio designò per un pezzo i suoi avversarî col nome di eusebiani) seppe ben presto riconquistare la sua influenza sulla corte, farsi richiamare dall'esilio, raccogliere intorno a sé un partito, sfruttando i vecchi dissapori tra i vescovi della Palestina e dell'Asia e quelli dell'Egitto, guadagnandosi il favore delle donne della famiglia imperiale, facendo giungere sino a Costantino consigli e accuse. L'imperatore dovette accorgersi che la maggioranza dei vescovi, nell'Oriente ridivenuto la parte più importante dell'Impero, non era affatto ostile ad Ario; dovette sentire che la dottrina di lui era, ben più dell'ortodossia, vicina a quel vago monoteismo, di sapore sincretistico, in cui egli stesso era stato educato. Inoltre Ario faceva del Cristo una creatura, superiore sì agli uomini, ma da loro non sostanzialmente dissimile: un maestro, assai più che un redentore. Dio, la creazione, la redenzione ricevevano da lui una spiegazione tutta logica; bandito ogni mistero, perdevano di valore anche i riti e i sacramenti, e (poiché ogni uomo, facendo dominare in sé la ragione e con l'esercizio delle virtù, poteva attuare da sé la propria redenzione, senza bisogno di aiuto soprannaturale) la Chiesa diventava una società tutta umana, non più perfetta e d'origine divina. Diventava con ciò uno strumento di governo, ligio agli ordini dell'imperatore, che accentrava in sé ogni potere.
Incominciò così la reazione anti-nicena. Vivo l'imperatore, che considerava il concilio opera sua, non lo si colpì direttamente. Ma nel 330 un sinodo radunato in Antiochia condannava il vescovo Eustazio, per sabellianismo e per aver detto male di Elena, madre di Costantino, devota alla memoria del martire Luciano; e questa accusa di lesa maestà procurava ad Eustazio l'esilio in Tracia. Al suo posto, sedati i disordini, s'insediava Eufronio, prete di Cesarea (in Cappadocia). Atanasio, fatto vescovo d'Alessandria nel 328 alla morte d'Alessandro, impigliato nella doppia lotta, contro gli ariani e gli scismatici meleziani, fu anch'egli esiliato assai presto. Fu falsamente accusato di violenze contro questi ultimi, che senza dubbio (lo provano alcuni papiri pubblicati da J. Bell, Jews and Christians in Egypt, Londra 1924) egli trattò severamente. Si tentò d'imporgli la riammissione di Ario, che aveva presentato all'imperatore un simbolo ambiguo, ma da lui ritenuto soddisfacente. Nonostante altre accuse, tuttavia, dal 332 al 334 Atanasio fu lasciato ad Alessandria. Ma ben presto ricominciarono gli armeggii contro di lui. Un concilio, riunito a Tiro nel 335, ordinò un'inchiesta, i cui risultati si conoscevano già: ebbero occasione di segnalarsi per zelo antiniceno due vescovi occidentali, Valente di Mursa e Ursacio di Singiduno (l'odierna Belgrado) che troveremo poi sempre tra le file ariane. Ricorse all'imperatore: fu accusato di avere tentato d'impedire che da Alessandria partissero i convogli di navi col grano per Costantinopoli. Fu esiliato a Treviri. Si condannava anche, accusandolo di sabellianismo, non senza fondati motivi, Marcello vescovo d'Ancira (in Galazia), uno dei principali sostenitori dell'homousios. Ario era rimasto a Costantinopoli, e l'imperatore cercò d'imporlo al vescovo Alessandro: al quale la morte improvvisa dell'eresiarca evitò il dolore e lo scorno. Con ciò, nel giro di soli dieci anni, i principali sostenitori del simbolo di Nicea (di questo non si parlava) erano posti fuori combattimento. Eusebio di Nicomedia (trasferito nel frattempo a Costantinopoli) battezzava Costantino, che moriva il 22 maggio 337. La successione dava luogo a una sanguinosa tragedia: infine l'Oriente toccava a Costanzo, anch'egli voglioso di unità e di dominare la Chiesa. Debole e sospettoso, vano e facilmente impressionabile, era già della stoffa dei teologizzanti imperatori bizantini e aveva un'invincibile antipatia per Atanasio. Questi, con gli altri vescovi esiliati, era ritornato in Alessandria dopo la morte di Costantino; nella primavera del 340 n'era di nuovo espulso con la violenza, mentre veniva insediato l'intruso vescovo ariano, Gregorio il cappadoce; e si rifugiava a Roma, dove faceva conoscere le meraviglie dell'ascetismo egiziano, e il vero carattere della controversia. Papa Giulio convocava un concilio, nel 341, che assolveva Atanasio e Marcello. Da questo momento in poi, la chiesa di Roma protesterà sempre contro le condanne emanate a sua insaputa dagli Orientali. Ma questi, radunati in Antiochia per l'inaugurazione della Basilica d'oro, eretta da Costantino (concilio ἐν ἐγκαινίοις, in encaeniis o in dedicatione), adottavano tre nuove confessioni di fede. Tutte scartavano l'homousios: una (la seconda, attribuita a Luciano) dichiarava essere il Figlio "immutabile e inalterabile, della divinità ed essenza (o: "dell'essenza della divinità") e della volontà e potenza e gloria del Padre invariabile immagine" (ἄτρεπτόν τε καὶ ἀναλλαίωτον, τῆς ϑεότητος οὐσίας τε καὶ βουλῆς καὶ δυνάμεως καὶ δόξης τοῦ Πατρός ἀπαράλλακτον εἰκόνα). La terza, più esplicitamente delle altre due, era diretta contro Marcello d'Ancira: la teologia del quale non è il caso di esporre qui. Una quarta formula, anch'essa molto vaga ed equivoca, benché condanni l'arianesimo, veniva emessa poco dopo, o da un nuovo sinodo, o dai vescovi inviati in commissione a Costanzo. Ma gli Occidentali non volevano saperne di nuove formule, dopo la nicena, specie se redatte senza la loro partecipazione. Papa Giulio, Osio e Atanasio persuasero Costante (che, dopo la vittoria su Costantino II, nel 340, dominava tutto l'Occidente) a prendere l'iniziativa della convocazione di un nuovo concilio universale. Dopo laboriose trattative tra i fratelli, si stabilì che questo si sarebbe radunato a Sardica, sul confine tra le due parti dell'Impero. Nella primavera del 343, vi convennero i vescovi; gli Occidentali erano in maggioranza; e, avendo essi rifiutato di ratificare preliminarmente le condanne di Atanasio e Marcello, gli Orientali si ritirarono lì presso, ma sul territorio di Costanzo, a Filippopoli. Scomunicarono anche Osio e papa Giulio; mentre il concilio di Sardica, scartato un simbolo proposto in cui la parola usia viene respinta come ereticale in favore di hypostasis (e perciò Teodoreto lo conserva), approvati varî canoni molto importanti in materia disciplinare, perché sanzionano la posizione privilegiata della chiesa di Roma di fronte alle altre, a loro volta condannavano i capi del partito avverso, Acacio di Cesarea, Giorgio di Laodicea, Ursacio di Singiduno, Valente di Mursa.
Era lo scisma, e lo scisma voleva dire la guerra; perciò fu evitato; ma non si rinunciò ai tentativi d'imporre l'arianesimo. Un grave scandalo provocò il concilio convocato ad Antiochia per la Pasqua del 344, quando fu scoperto l'intrigo ordito dal vescovo Stefano e dal magister militum Saliano, che avevano introdotto nascostamente una prostituta nell'alloggio del vecchio vescovo Eufrata di Colonia, con la speranza di sorprenderlo, e rovinare così moralmente il rappresentante degli Occidentali. Stefano, deposto, fu sostituito da Leonzio, l'arianeggiante che, tra ortodossi ed ariani, si destreggiava con mediocri scappatoie. Il sinodo ripubblicò la quarta formula del 341, con così ampie aggiunte e spiegazioni da meritarle il nome di "prolissa" (μακρόστιχος): era in sostanza conciliativa, e diceva il Figlio essere della medesima hypostasis del Padre (evitando così l'homousios); condannava Marcello e il suo seguace Fotino, vescovo di Sirmio. Ma proclamava il Figlio "uguale al Padre in ogni cosa"; e la prolissità medesima generava confusione. A Milano, in un nuovo concilio, gli Orientali ottenevano la condanna di Fotino; ma si ostinarono nel non voler condannare, a loro volta, Ario. Moriva intanto l'intruso Gregorio (345); e Atanasio, dopo essersi fatto ripetutamente pregare da Costanzo, ritornava in Alessandria; Ursacio e Valente si ritrattavano innanzi a papa Giulio.
La tregua durò qualche anno. Ma nel gennaio 350 Costante veniva assassinato; il 28 ottobre 351 Costanzo sconfiggeva l'usurpatore Magnenzio presso Mursa, e il merito della vittoria era attribuito alle preghiere dell'ariano Valente. Rimasto solo imperatore, Costanzo poteva attuare il suo disegno di unificazione religiosa in senso ariano. Un concilio tenuto nella stessa città di Sirmio (351) condannava ancora Fotino, ed emetteva una nuova formula, cioè la quarta antiochena seguita da ventisette anatematismi. Il nuovo papa Liberio era tradito dai vescovi della Gallia, dove il concilio di Arles (353) ascoltava l'imperatore in persona accusare Atanasio: solo Paolino di Treviri resistette e fu esiliato. Nel 355, a Milano, mentre Giuliano era proclamato Cesare per la Gallia, scoppiava un tumulto, allorché gli Occidentali presentarono il credo di Nicea. A Milano s'insediò Aussenzio; Eusebio di Vercelli, Fortunaziano di Aquileia, Lucifero di Cagliari, e, dopo il concilio di Béziers, Ilario di Poitiers venivano esiliati; poco dopo anche Osio di Cordova, e papa Liberio sostituito dall'antipapa Felice I. Si faceva scoppiare ad Alessandria un tumulto: le truppe imperiali insediavano un nuovo intruso, Giorgio, anch'egli cappadoce: durante un assalto alla sua chiesa, Atanasio riusciva a fuggire, trovando sicuro asilo tra i monaci.
Pareva così sgominata l'ortodossia. Ma l'unità delle coscienze non si ottiene con la forza. I vincitori stessi erano divisi: quei conservatori orientali, che temevano l'homousios per orrore del sabellianismo, non si sentivano di proclamare il Figlio addirittura "dissimile" (ἀνόμοιος) dal Padre. Ma così fecero gli ariani puri, guidati da Aezio ed Eunomio; così un concilio di Sirmio (357), nel quale il nuovo vescovo, Germinio, con Ursacio, Valente e pochi altri, approvava una formula (la "bestemmia" di Sirmio) che respingeva con il termine ὁμοούσιος anche l'ὁμοιούσιος ("simile in essenza") sostenuto da un importante gruppo di vescovi, il cui capo era Basilio di Cesarea. Fu il partito detto semiariano: sosteneva ancora una certa subordinazione del Figlio, ma incominciava a vedere nell'arianesimo un pericolo, e aveva il merito d'insistere sulla distinzione delle persone che alcuni dei niceni puri, nel calore della lotta, avevano alquanto trascurata: partito di ortodossi, in sostanza, o abbastanza vicini all'ortodossia, specie qualora si tenga presente la parte che rappresentarono in seguito. Ma intanto si costringeva il decrepito Osio a firmare la "bestemmia" di Sirmio, approvata altresì da un concilio antiocheno del 358, al quale partecipavano anche il vescovo della città, Eudossio, e Acacio di Cesarea.
Questi ultimi guidavano il terzo partito, che contava per sé stesso pochi aderenti, ma aveva forti appoggi a corte e intendeva evitare appunto il pericolo che la coalizione antinicena si disfacesse, appena vittoriosa. Abolito il termine οὐσία, per rendersi accetti agli ariani, costoro sostenevano che il Figlio è "simile" (ὅμοιος) al Padre: con ciò, e magari proclamandolo "simile in tutto", essi speravano di conciliare i semiariani. Ad Ancira, nel 358, avevano tentato, con l'aiuto dell'autorità imperiale, di far prevalere la "bestemmia" di Sirmio; ma i semiariani, con Basilio, ebbero la meglio. Si parlava di somiglianza del Figlio al Padre "secondo l'essenza" e "secondo la divinità" (κατὰ τὴν οὐσίαν e κατὰ τὴν ϑεότητα), si ottenne per un momento l'appoggio della corte; e Basilio cercò di sfruttare la vittoria sino in fondo. Atanasio e Ilario di Poitiers, che nel soggiorno in Oriente aveva potuto familiarizzarsi con le questioni dibattute e si accingeva a ridestare la coscienza teologica degli Occidentali, mostravano di voler recedere dal loro atteggiamento intransigente; papa Liberio, lontano dal suo gregge e senza comunicazione con gli amici, probabilmente male informato e suggestionato, desideroso di ottenere la pace anche a costo di un grave sacrificio, qual era l'abbandono di Atanasio, si lasciò indurre a firmare una o due formule che implicavano la rinuncia all'ὁμοούσιος niceno. D'altro canto, Basilio volle eliminare l'ala estrema del partito ariano e ottenne che Aezio, Eunomio ed Eudossio venissero esiliati. Acacio corse ai ripari; un concilio di Sirmio adottò nuovamente la condanna di Paolo di Samosata, la seconda formula (di Luciano) approvata ad Antiochia nel 341, e la prima di Sirmio (del 351), che a sua volta conteneva la quarta antiochena e gli anatematismi contro Fotino. Gli anomei, o ariani puri, si unirono ad Acacio, che temeva, da una vittoria di Basilio, di perdere troppo della sua influenza; e, mentre Ilario di Poitiers col suo De synodis mostrava una certa propensione verso Basilio, si tornò a proporre la riunione di un concilio generale. Costanzo ne volle due: che dovevano radunarsi, quello degli Occidentali a Rimini, quello degli Orientali a Seleucia di Cilicia. Entrambi avrebbero dovuto approvare la formula di fede, redatta in una riunione tenuta a Sirmio, sotto la presidenza dell'imperatore, nel maggio 359. Il termine οὐσία veniva respinto, e si proclamava il Figlio "simile al Padre in tutto, secondo che le Scritture dicono e insegnano". Ma queste venivano interpretate diversamente; e l'idea stessa di somiglianza implica una differenza essenziale, ché altrimenti si dovrebbe parlare di identità.
Il concilio di Rimini, sotto la presidenza di Restituto di Cartagine (in assenza del vescovo di Roma, poiché Costanzo ormai non sapeva chi scegliere, tra Liberio e Felice I), dapprima votò nuovamente il credo di Nicea, condannando Valente e Ursacio. Questi ricorsero all'imperatore; il quale non ricevette la delegazione del concilio ortodosso, mostrando ogni favore ai messi della minoranza, che avevano approvato la formula ufficiale. Ma a un certo punto anche i rappresentanti degli ortodossi cedettero; e a Niké, in Tracia (presso Adrianopoli), firmarono la formula di Sirmio, omettendo anche le parole "in tutto" dopo "simile". Così poterono ritornare a Rimini, dove i vescovi, desiderosi di tornare alle loro sedi e abilmente circuiti nel frattempo, approvarono il loro operato, e mandarono all'imperatore una nuova missione. Parecchi credettero di tutelare l'ortodossia con varie aggiunte: la buona fede e l'impreparazione teologica di questi vescovi è dimostrata dal fatto, che accolsero senz'accorgersi del tranello la formula stessa di Valente, secondo la quale "il Figlio non è una creatura come le altre creature". A Seleucia, la maggioranza era composta di semiariani; e Ilario si unì a loro. Acacio tentò dapprima di far escludere Basilio, poi, vista respinta la formula da lui proposta, si ritirò. La maggioranza approvò allora il credo di Luciano e condannò Acacio; ma il comes Leonatte sciolse il concilio, e così Acacio ebbe le mani libere. Condannò il termine "dissimile" (ἀνόμοιος) e Aezio; ottenne poi, a Costantinopoli, che i delegati del concilio firmasssero la formula di Niké, con le aggiunte di Rimini. Invano Ilario, quando le due missioni s'incontrarono, cercò d'illuminare gli Occidentali; questi rimasero legati a Ursacio, e un concilio, convocato a Costantinopoli, rendeva ufficiale la formula di Niké. Il Figlio era "simile al Padre", non si doveva più parlare né di οὐσία né di ὑπόστασις. Alla condanna di Aezio fecero riscontro quelle dei semi-ariani: Basilio d'Ancira, Eustazio di Sebaste, Macedonio di Costantinopoli furono esiliati. A Costantinopoli fu chiamato Eudossio, da Antiochia, sostituito a sua volta da Melezio di Melitene e poi, divenuto sospetto anche costui, da Euzoio, l'antico compagno di Ario. Era il trionfo dell'arianesimo, nella forma in cui sarebbe perdurato tra i popoli germanici, presso i quali si diffondeva appunto allora; e, insieme, il trionfo della confusione. Ma l'unità religiosa pareva raggiunta; quando, ancora una volta, una situazione ecclesiastica tutta fondata sulla politica veniva rovesciata dagli avvenimenti politici.
Mentre, nella primavera del 360, si procedeva a queste sostituzioni di vescovi, le truppe della Gallia proclamavano augusto il giovine Giuliano; egli iniziava la sua marcia verso l'Oriente, e la morte di Costanzo gli dava il trono. Gli esiliati potevano tornare alle loro sedi; Atanasio stesso rientrava in Alessandria e vi teneva nel 362 un sinodo. Si ammise che i vescovi, ai quali erano state estorte firme, potessero essere riammessi alla comunione degli ortodossi semplicemente quando le avessero ripudiate tornando al credo di Nicea. Si chiarì che hypostasis poteva essere adoperato nel senso, che poi prevalse, di "persona", e anche come sinonimo di usia: cosicché, secondo l'interpretazione che se ne dava, erano frasi ugualmente ortodosse tanto "tre ipostasi" quanto "una ipostasi". Si affrontarono le due nuove questioni, dello Spirito Santo e della persona del Cristo, affermando la piena divinità del primo e la coesistenza delle due nature nel secondo. Con ciò, il sinodo che aveva intenti di pacificazione apriva da una parte la via a nuove discussioni e segnalava dall'altra il distacco di Atanasio (come, d'altra parte, egli aveva abbandonato Marcello d'Ancira, almeno nella teoria: ché non si lasciò mai indurre a condannare apertamente l'antico compagno di lotte e d'esilio) da Apollinare di Laodicea. Tuttavia, una questione di disciplina doveva ancora ostacolare per lunghi anni il ritorno all'unità: quella dell'episcopato di Antiochia. In questa città, fin dal tempo del vescovo arianeggiante Leonzio, v'erano tre gruppi: la chiesa ufficiale, sotto il vescovo ariano (che ora era Euzoio); un gruppo ortodosso, che teneva riunioni liturgiche a sé, sotto i presbiteri Flaviano e Diodoro, ma era rimasto in comunione con Leonzio prima, e, dopo la parentesi di Eudossio, con Melezio, riaccostatosi egli pure all'ortodossia; un terzo gruppo ortodosso intransigente, sotto Paolino. Euzoio, il vescovo mandato da Costanzo, era un anomeo dichiarato e un intruso, vivo Melezio; ma, a ristabilire l'unità, sarebbe bastato che tutti gli ortodossi si fossero uniti a quest'ultimo. Con alquanta precipitazione, invece, Lucifero di Cagliari concesse l'ordinazione episcopale a Paolino che s'affrettò ad aderire ai deliberati di Alessandria, contenuti nella lettera sinodale scritta da Atanasio (il Tomus ad Antiochenos). Melezio dal canto suo, nel 363, sottoscriveva il simbolo di Nicea. Così cominciava lo scisma antiocheno; a Melezio si continuò, in Occidente, a rimproverare la condotta precedente, contro lo spirito del concilio di Alessandria; Eusebio di Vercelli censurò l'opera di Lucifero che poi, non contento di avere seminato i germi dello scisma in Oriente, ne iniziava ora un altro in Occidente. Dove, già nel 360, un concilio di Parigi accettava l'homousios pur senza condannare esplicitamente l'homoiusios (si trattava d'interpretarlo rettamente), e Ilario ed Eusebio lavoravano a tutt'uomo per riparare al male fatto a Rimini, cercando d'isolare sempre più i vescovi tenacemente ariani, fra i quali Aussenzio di Milano.
A poco a poco, il problema si avvicinava alla sua soluzione: mentre da una parte si temeva oramai assai meno il sabellianismo, e si comprendevano i pericoli dell'arianesimo, dall'altra si sentiva maggiormente il bisogno di salvaguardare con l'unità di essenza anche la distinzione delle persone. Apollinare di Laodicea, con il suo errore, avviava inoltre la discussione verso un altro quesito, quello della persona stessa del Cristo; e con ciò, dalla pura teodicea, si tornava alla soteriologia e alle esigenze della pietà che Atanasio in realtà non aveva mai perdute di vista. E la mutata politica imperiale, con la reazione pagana di Giuliano, ridava alla Chiesa il senso del pericolo, come nei tempi eroici delle persecuzioni, e insieme quello della propria unità e autonomia. Si poteva prevedere vicina la pace: grande vittoria di Atanasio, che aveva saputo essere insieme fermo e inflessibile nella resistenza, moderato nella controffensiva; che ai dolori precedenti aggiungeva una nuova sofferenza per la fede, quale anche gli avversarî non avrebbero potuto mettere in dubbio: l'esilio cui era stato condannato da Giuliano.
Ma l'anacronistico sognatore trovava la morte nella Persia lontana (26 giugno 363). Gioviano permetteva contemporaneamente che Atanasio ritornasse ad Alessandria e che gli ariani vi tenessero riunioni. Pochi mesi dopo, anch'egli moriva, e, sotto Valentiniano e Valente, si riproduceva una situazione abbastanza simile a quella che s'era avuta al tempo di Costanzo e Costante. L'Occidente faceva ogni sforzo per cancellare la macchia di Rimini, ad eccezione di pochi vescovi rimasti ariani, come Ursacio e Valente (ma persino Germinio accettava, nel 366, l'ὁμοούσιος), e degli estremisti niceni, come Lucifero di Cagliari; in Oriente, invece, Valente cadeva sotto l'influenza di Eudossio. Nel 365 egli rimandava in esilio i vescovi, già espulsi da Costanzo e richiamati da Giuliano: e con questi Atanasio, benché in realtà lo avesse esiliato Giuliano e richiamato il successore. Ma questo esilio doveva durare pochi mesi, dall'ottobre 365 al febbraio dell'anno seguente. E i semiariani correvano alla riscossa. Un concilio di Lampsaco, era già ritornato all'ὅμοιος κατ' οὐσίαν; ma i delegati a papa Liberio sottoscrivevano la formula di Nicea, e tornavano con una lettera che concedeva, a loro e ai mandanti, la comunione con la chiesa romana; per il che il concilio di Tiana (367) manifestava la propria soddisfazione.
Eppure l'unione completa era ancora lontana. Sotto Giuliano anche gli anomei avevano profittato del famoso editto che, precisamente per attizzare fra i cristiani il fuoco della discordia, aveva revocato tutti i precedenti decreti d'esilio; molti degli acaciani conservavano le loro sedi, e Valente ascoltava i consigli di Eudossio. I semiariani, in gran parte, non accettavano la divinità dello Spirito Santo che Atanasio, informato poco prima di questa tendenza, aveva fatta proclamare ad Alessandria nel 362. In Tracia, questi "avversarî dello Spirito" (Pneumatomachi), capeggiati dall'ex-vescovo di Costantinopoli, Macedonio (onde il nome di "macedoniani"), erano i soli rappresentanti dell'homousios niceno; anzi, il nome di semiariani acquistò un significato più ristretto, e quasi tecnico, designando appunto questa tendenza. A loro volta, gli ortodossi erano compromessi da Lucifero, da Apollinare, dalla memoria di Marcello, non ancora ripudiata da tutti né completamente. E, quando non vi fossero state altre ragioni di dissenso, a rendere difficile l'unione tra omoiusiani e niceni restava la penosa e delicata questione dello scisma d'Antiochia. A liquidare la difficile situazione, a far dimenticare esilî e accuse, condanne e polemiche, occorrevano uomini nuovi. E questi vennero da una regione di cui fin'allora s'era inteso poco parlare, da quella Cappadocia inflessibilmente cristiana sotto Giuliano, ma profondamente conquistata all'eresia, che ci ha dato, in Filostorgio, lo storico ariano della controversia. Con questi uomini nuovi, i tre grandi padri cappadoci, Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzio, comincia un nuovo periodo. Valente esigeva la firma dei vescovi alla formula di Rimini: ma San Basilio, eletto vescovo nel 370, resistette; contro le misure disciplinari prese dall'imperatore organizzava nuovi vescovadi e istituti di assistenza. Quando, nell'inverno 371-372, Valente giunse a Cesarea di Cappadocia, dove l'attivo vescovo aveva creato quasi una nuova città (Basiliade), l'imperatore non osò agire contro di lui. Rifiutava però di riconoscere Pietro, il fratello di Atanasio eletto vescovo di Alessandria alla morte di lui (393), e cacciava Melezio da Antiochia, dove Flaviano e Diodoro riprendevano la direzione della chiesa ortodossa. Basilio comprese allora la necessità di allearsi con l'Occidente. Papa Damaso aveva accordato la sua comunione a Paolino d'Antiochia, sebbene il prete Vitale, da lui mandato a Roma, fosse legato ad Apollinare; e giunse fino a condannare gli errori, ma non le persone, di quest'ultimo, di Marcello d'Ancira e di Eustazio di Sebaste, che nella sua polemica con Basilio aveva avuto l'appoggio degli ariani. Invano Basilio difendeva Melezio, valendosi dell'autorità di Atanasio. E, nel 375, anche Marcello d'Ancira moriva.
Scoppiava intanto la guerra gotica: e il 9 agosto 378 lo sconfitto Valente trovava la morte. L'Impero veniva riunito nelle mani dell'occidentale Graziano, che accordava il ritorno alle loro sedi a tutti i vescovi, a eccezione degli anomei e dei fotiniani, e poi nuovamente diviso. Ma l'Oriente toccava ora a Teodosio spagnolo, pieno di zelo per l'ortodossia nicena. Pietro d'Alessandria condannava Apollinare nel concilio romano. Basilio moriva, il 1 gennaio del 379; ma l'opera iniziata stava per compiersi rapidamente. Melezio d'Antiochia, con altri 153 vescovi, accettava le formule romane, e Teodosio, battezzato nel 380, pubblicava, il 27 febbraio, un editto che proclamava come fede ufficiale quella predicata da S. Pietro ai Romani e professata allora dal papa Damaso e da Pietro d'Alessandria. Ordinava intanto che le chiese fossero consegnate agli ortodossi. In Costantinopoli, dove il vescovo Demofilo non volle rinunciare alla sua fede, scoppiarono tumulti anche contro Gregorio di Nazianzo, che vi era stato mandato a predicare. E, nonostante il tentativo di un Massimo, inviato da Pietro di Alessandria (un episodio di più che mostra la rivalità dei due patriarcati, destinata a manifestarsi con tanto vigore poco dopo, durante le controversie cristologiche), Gregorio veniva insediato in Santa Sofia. Teodosio comprese tuttavia d'essere andato troppo oltre: non era bene imporre l'ortodossia come già s'era voluto imporre l'arianesimo, non era bene che il ritorno all'unità apparisse come una decisa vittoria degli Occidentali. Il papa non fu invitato al concilio di Costantinopoli del 381, che raccolse del resto solo 150 vescovi, tutti orientali o, al più, della penisola balcanica. Si diede la presidenza a Melezio d'Antiochia; poi, dopo la sua morte, a Gregorio, che cercò di ricomporre lo scisma, ottenendo che fosse riconosciuto Paolino. Non vi riuscì e, in seguito a nuovi incidenti, si ritirò; a vescovo di Costantinopoli, alla quale, come residenza dell'imperatore e nuova Roma, il terzo canone del concilio concedeva il secondo posto nella Chiesa, veniva eletto Nettario. Teodosio emanava un nuovo decreto di unione, questa volta con Nettario di Costantinopoli (del quale otteneva il riconoscimento da parte degli Occidentali), Timoteo d'Alessandria (fratello e successore di Pietro), Elladio di Cesarea, Otreio di Melitene, Gregorio di Nissa, Anfiloco d'Iconio, Ottimo di Antiochia (in Pisidia), Pelagio di Laodicea e Diodoro di Tarso. Antiochia era esclusa, a causa dello scisma; ché, mentre il concilio di Aquileia sosteneva ancora Paolino, il partito di Melezio gli eleggeva un successore nella persona di Flaviano. Si perpetuava così lo scisma: Paolino consacrava, prima di morire, Evagrio Pontico, non riconosciuto però da nessuno; e Flaviano, ammesso alla comunione di papa Siricio e del concilio di Cesarea (di Palestina) e rimasto solo alla morte di Evagrio, trovava difficoltà nello stesso suo clero, da lui troppo duramente trattato. Non aveva però receduto dalle ostilità contro Flaviano il vescovo di Milano, S. Ambrogio, che fin dal 374 aveva preso il posto dell'ariano Aussenzio. Ed egli stesso ebbe da lottare contro l'arianesimo, per non cedere agli eretici le chiese, che l'imperatrice Giustina gl'imponeva di dar loro. Ma, più che degli antichi sostenitori di Aussenzio, e più che di una convinzione della corte o di unificazione religiosa, si trattava ora d'altro: era bisogno di aver pace dai Goti, e influenza di quelli tra essi ch'erano entrati, dopo la sconfitta del 387, nella corte imperiale. Sconfitto entro l'Impero, l'arianesimo aveva trovato il suo estremo rifugio tra i barbari. La questione, dottrinalmente, era morta, e la lotta contro l'eresia assumeva un aspetto del tutto diverso.
Un Teofilo, vescovo della Gotia, prese parte al concilio di Nicea. Ma l'evangelizzazione di quel popolo fu iniziata veramente da Ulfila, il goto, ma di origine cappadoce, secondo alcuni inviato ambasciatore a Costanzo, e consacrato da Eusebio di Nicomedia; certo è che, nel 360, egli sottoscriveva a Costantinopoli la formula di Niké. Con il subordinazionismo, egli aveva portato con sé anche il testo della Bibbia corrente a Costantinopoli, e destinato, attraverso la versione gotica e gli esemplari bilingui, gotici e latini, a far sentire anche indirettamente il suo influsso sulla Bibbia latina. Perseguitato dapprima come la religione dei Romani, il cristianesimo, sempre nella forma ariana, s'era molto diffuso quando, dopo l'urto degli Unni, i Goti si erano stanziati nelle terre dell'Impero, e anche a malgrado della ribellione. Dai Goti l'arianesimo stesso passò agli altri Germani, Burgundî, Svevi, Vandali e Longobardi. E la differenza di religione rese, ovunque, più aspri i rapporti con i Romani e ovunque fu di ostacolo alla fusione dei conquistatori coi vinti. Ma la controversia religiosa non fu che un episodio, sia pure significativo, di quella di razza, di civiltà e d'ideali. Troviamo così degli Ariani in Africa, combattuti da S. Agostino, alla vigilia dell'invasione vandalica; e il dominio dei Vandali, pur con qualche alternativa di pace, imitò, ritorcendola contro i cattolici, la legislazione imperiale contro gli eretici.
Ariani furono anche Odoacre e gli Ostrogoti: tolleranti finché la chiesa cattolica d'Occidente era in aperto contrasto dottrinale con quella di Costantinopoli e con l'Impero, ma sospettosi e persecutori non appena si delineasse, per la sicurezza del loro dominio, il pericolo d'un accordo. Ariani i Longobardi, al tempo dei quali furono numerosi i vescovi ariani in Italia, a fianco dei cattolici (Paolo Diac., Hist. lang., IV, 42), mentre l'invasione produsse notevoli danni (se pure in qualche caso e per talune regioni esagerati) all'ordinamento gerarchico della Chiesa, e mentre la differenza di religione impediva che l'episcopato assumesse, a fianco del re, quella influenza politica ch'ebbe altrove. Ariani i Visigoti, e, per influenza di questi, i Burgundî sotto Gundobado, reso però moderato dall'opera di S. Avito, vescovo di Vienne, e più dalla simpatia dei cattolici per il franco e cattolico Clodoveo, e poi dalla sconfitta che questi gli fece subire. Ma nel regno visigotico s'ebbero anche persecuzioni ed esilî di vescovi: Fausto di Riez e Apollinare Sidonio. Anche qui, la questione era politica: cattolici erano i romani soggetti, e cattolico Clodoveo, vincitore di Alarico II a Vouillé (507). Ridotti alla Spagna, i re visigoti si fecero meno tolleranti: ma il contrasto teologico fornisce appena un elemento alle fortunose vicende del regno di Leovigildo (568-586) e alla rivolta di Ermenegildo. Sotto l'influsso dello zio, il vescovo Leandro di Siviglia, Reccaredo (586-601) si convertiva al cattolicesimo, e con ciò riempiva di giubilo l'animo di Gregorio Magno, già datosi a favorire la conversione dei Longobardi, alla quale la storia e la leggenda vogliono associata Teodolinda, la regina di stirpe bavara. Lo stesso papa otteneva che, nel 591-92, passasse al culto cattolico la principale delle chiese che gli Ariani possedevano in Roma, sul pendio che dal Quirinale degrada verso la Suburra: detta poi sempre S. Agata dei Goti. Nel 593, anche l'altra chiesa, posta sull'Esquilino presso la Domus Merulana, a breve distanza dal Patriarchio lateranense, veniva anch'essa riconsacrata (Greg. M., Dial., III, 30; Epp., III, 19 e IV, 19; Liber Pontif., Vita Greg.). Ma la conversione dei Longobardi non fu né rapida né senza difficoltà: ché, per molteplici ragioni, essa suscitò prima una violenta reazione per cui salirono sul trono, l'uno dopo l'altro, i tre ariani Ariovaldo (626-636), Rotari (636-652) e Rodoaldo (652-653), e, per quanto il cattolicesimo riguadagnasse alquanto terreno già sotto il secondo (anche meno duro verso i vinti Italiani), la vittoria dell'ortodossia non fu definitiva se non sotto la dinastia bavarese inaugurata da Ariberto I (653-661). Così l'eresia, nel cui nome parve per un momento che stesse per compiersi l'unificazione religiosa dell'Impero romano, con la sottomissione della Chiesa allo Stato, secondo la tipica tendenza orientale, era diventata, in Occidente, strumento di lotta contro la romanità; e mentre l'Impero bizantino continuava nella sua politica, essa destava le energie proselitistiche della Chiesa, e, vinta, provocava in Occidente il determinarsi delle condizioni che avrebbero poi permesso alla Chiesa di proclamare la sua autonomia e la sua superiorità sul potere civile. Aveva anche permesso alla Chiesa latina di misurare le sue forze in un primo urto con la greca. Veramente, tramonta il mondo antico e si preannuncia il Medioevo.
Bibl.: In primo luogo, le opere di Atanasio, Ilario di Poitiers (specialmente il De synodis e la cosiddetta Collectanea antiariana parisina) e degli altri padri della chiesa nominati; quindi le Storie ecclesiastiche di Socrate, Sozomeno, Teodereto, Rufino e Filostorgio; in genere, non v'è scrittore ecclesiastico del sec. IV e degl'inizî del V che non abbia almeno accenni alla controversia ariana. Per tutti vedi, O. Bardenhewer, Geschichte der altkirchl. Literatur, III, 2ª ed., Friburgo i. B. 1923. E poi, sempre utile, L. S. Le Nain de Tillemont, Mémoires pour servir à l'histoire ecclésiastique des six premiers siècles, 2ª ed., VI, Parigi 1704; A. de Broglie, L'Église et l'empire romain au IVme siècle, 4ª ed., Parigi 1867-68; O. Seeck, Geschichte des Untergangs der antiken Welt, 2ª ed., voll. 3 e supplementi, Berlino 1895 segg.; gli articoli di X. Le Bachelet, in Dict. de théol. cathol., I, ii, coll. 1779-1863; di F. Loofs, in Realencykl. f. protest. Theol. u. Kirche, II, pp. 6-45; di H. M. Gwatkin, in The Cambridge Medieval History, I, Cambridge 1924, pp. 118-142; inoltre le principali storie della Chiesa, come L. Duchesne, Hist. anc. de l'église, II, Parigi 1907; P. Batiffol, La paix constantinienne et le catholicisme, Parigi 1914; dei dogmi, come J. Tixeront, Hist. des dogmes dans l'antiquité chrétienne, II, 4ª ed., Parigi 1912; J. F. Bethune-Baker, An Introduction to the early History of Christian Doctrine, 3ª ed., Londra 1923; R. Seeberg, Grundriss der Dogmengeschichte, II, 3ª ed., Erlangen e Lipsia 1923; e dei concilî, come Hefele e Leclercq, Histoire des conciles, II, Parigi 1908. Tra le più importanti monografie segnaliamo soltanto: H. M. Gwatkin, Studies of arianism, 2ª ed., Londra 1900; J. Gummerus, Die homöusianische Partei bis zum Tode des Konstantius, Lipsia 1900; J. F. Bethune-Baker, The meaning of homoousios in the Constantinopolitan Creed, Cambridge 1901 (in Texts and Studies, VII, i); G. Rasneur, L'homoiousianisme dans ses rapports avec l'orthodoxie, in Revue d'hist. ecclés., IV (1903); S. Rogall, Die Anfänge des arianischen Streites, Paderborn 1907; per la politica imperiale, v. la bibl. sotto costantino, giuliano l'apostata, e teodosio.