ARIBERTO da Antimiano
Arcivescovo di Milano, successo ad Arnolfo II, che era morto il 25 febbraio 1018. Proveniva da una famiglia appartenente al ceto dei capitani, la quale si denominava dal possesso della curtis di Antimiano, oggi Intimiano, in Brianza, ma aveva anche possedimenti nel territorio bergamasco, come appare da una carta del 28 dicembre dell'anno 1000 (Codex dipl. Langobardiae, n. 991, col. 1743), nella quale il padre dell'arcivescovo permuta beni in Albano, Alzano e Corno e in val Brembana.
Si è fatta questione dagli storici se invece Ariberto non fosse della famiglia capitaneale di Arzago; ma le circostanze che si sono addotte in favore di questa ipotesi non sembrano a sufficienza probanti.
La nascita di A. va posta tra il 970 e il 980. Egli era figlio di Gariardo, il quale viveva nel 998 e nel 1000 ed è ricordato come già defunto nel 1044. La prima menzione di A. è del 998 (Codex dipl. Langobardiae, n. 969, col. 1705, sotto l'anno 999) Egli era allora già suddiacono della chiesa milanese, cioè canonico ordinario della cattedrale di Milano nell'ordine dei suddiaconi. Era ancora suddiacono nel 1007, quando consacrò la chiesa pievana di S. Vittore di Galliano, della quale era custode. La sua elezione ad arcivescovo di Milano avvenne, come riferisce lo storico Arnolfo, consultu maiorum civitatis ac dono imperatoriae maiestatis, il che è quanto dire col consenso di quel ceto dei capitani dal quale egli proveniva e che fin d'allora aveva una parte notevole nel governo della città, e col beneplacito dell'imperatore Enrico II. La consacrazione ebbe luogo il 29 marzo 1018 dopo un mese e quattro giorni di sede vacante.
Tale nomina, avvenuta in un tempo in cui l'autorità del conte si andava sempre più affievolendo, a pochi anni di distanza dalla distruzione del palazzo regio di Pavia che scosse fortemente anche l'autorità imperiale e contribuì non poco al sorgere delle libertà comunali, fece di A. uno dei più potenti signori d'Italia. E difatti egli non era soltanto il metropolita che estendeva la sua influenza da Coira a Genova e da Torino a Mantova sopra venti e più vescovi suffraganei e aveva il diritto di coronare i re d'Italia, ma era anche il capo del ceto dei capitani della più grande città dell'Italia settentrionale. Di carattere fermo, sagace e ambizioso, seppe approfittare delle condizioni favorevoli per assurgere al più alto grado di potenza, tanto che l'imperatore Enrico III in un suo diploma dell'anno 1046 (Muratori, Antiq., VI, 217) lo ricordava come una persona che omne regnum italicum ad suum disponebat nutum. L'attività di A. fu rivolta precisamente ad accrescere l'autorità della chiesa milanese e la potenza del ceto dei capitani dal quale usciva, non senza aver tentato di favorire in tutti i modi i suoi più stretti congiunti.
Di quanto egli fece per la sua chiesa si hanno continue attestazioni. Verso il 1021, secondo il racconto di Landolfo seniore (Lib. II, cap. 20, Mon. Germ. Hist., Script., VIII, 58), che di Ariberto è entusiastico panegirista, in una dieta da lui radunata a Roncaglia a favore dell'imperatore, avrebbe impedito ad Eusebio, vescovo di Pavia, di farsi precedere dalla croce alzata, il che spettava solo all'arcivescovo di Milano. Ma si osserva che il racconto di Landolfo è inesatto per lo meno nel nome del vescovo di Pavia che non era Eusebio, ma Rainaldo. A Roma, nel 1027, in occasione dell'incoronazione imperiale di Corrado II, sostenne il buon diritto dell'arcivescovo di Milano, nei confronti di quello di Ravenna, di sedere alla destra del papa quando era presente l'imperatore, conformemente alle decisioni che vennero poi prese da Clemente II con la bolla, oggi comunemente ritenuta genuina, in data 5 gennaio 1047 (Jaffé-Loewenfeld, 4141; Kehr, Italia Pontificia, V, p. 53, n. 170).
La politica di A., fin che visse Enrico II e poi per molti anni sotto Corrado II, fu favorevole all'Impero, perché ciò accresceva la sua potenza e quella del suo ceto. Nel settembre-ottobre del 1019 egli prese parte a una dieta tenuta a Strasburgo da principi italiani alla presenza dell'imperatore. Nel dicembre del 1021 andò ad incontrare lo stesso imperatore a Verona e presenziò a un placito del 6 dicembre (Muratori, Ant. Est., I, 129; Stumpf, Die Reichskanzler, 1777). Morto Enrico II nel luglio 1024, A., seguito da varî signori italiani, nel giugno successivo si recò in Germania per fare omaggio al nuovo re Corrado II e per invitarlo a venire in Italia per ricevervi le corone reale e imperiale, ottenendo in compenso il diritto di dare l'investitura dei beni temporali al vescovo di Lodi, come già possedeva quello di consacrarlo. L'imperatore venne a Milano nel 1026: il 23 marzo emanò un diploma a favore dell'abbazia di S. Dionigi a petizione dell'arcivescovo, che egli chiama karissimum fidelem nostrum dominum Heribertum (Puricelli, De Ss. martyr. Arialdo et Herlembaldo, 427; Stumpf, 1913). In quell'occasione pare che Corrado sia stato incoronato re. L'amicizia di A. con Corrado era allora assai stretta: difatti quando nel 1026 Corrado volle punire i Pavesi della distruzione del palazzo regio e assediò e atterrò il castello d'Orba nell'Alessandrino, A. fu tra i principali incitatori del re a tale impresa, ed oltre a ciò, secondo il racconto di Vippone (Mon. Germ. Hist., Script., XI, 272), l'ospitò in luoghi freschi e montagnosi ultra Atim fluvium, cioè in quella Brianza che è al di qua dell'Adda per i Milanesi e nella quale si trovavano i possedimenti ereditarî della famiglia dell'arcivescovo. Nel marzo dell'anno dopo, a Roma, presenziò, come si è detto, l'incoronazione di Corrado II a imperatore; e per molti anni ancora durò l'amicizia tra i due uomini, poiché nel 1034 A. andò in Borgogna per unirsi all'esercito imperiale contro Oddone di Champagne (Puricelli, Ambrosiana, n. 224).
Col 1036 invece s'inizia il periodo delle lotte sostenute da A. contro i nobili e i militi minori o valvassori e contro l'imperatore. Si vuole che in quell'anno uno di quei nobili minori sia stato privato del suo feudo. Questa sarebbe stata la scintilla che indusse i nobili minori ad insorgere contro l'arcivescovo, il quale li vinse e li scacciò dalla città. Ma essi, collegatisi con gli abitanti del Seprio e della Martesana e con i Lodigiani, mossero contro Milano. Lo scontro fra il loro esercito e quello di A. avvenne a Campomalo (oggi Cantonale): esso fu sanguinoso e cagionò la morte di Alrico, vescovo di Asti, amico di A., ma non segnò il prevalere di una parte sull'altra. Sulla fine di quell'anno venne in Italia Corrado, chiamato, a quanto si dice, dallo stesso A. perché ponesse fine alla sollevazione dei valvassori. Ma Corrado si dimostrò subito favorevole ai militi minori, tanto che i capitani si domandavano se l'imperatore vellet favere coniurationi illorum (Vippone, l. c.). I motivi del cambiamento di Corrado nei riguardi dell'arcivescovo sono da ricercare nel fatto che all'imperatore dava ombra la grande potenza dell'A., il quale, durante la lunga assenza dell'imperatore, ne aveva usurpato i poteri e si considerava come il signore assoluto del regno. Di ciò è espressa menzione nel citato diploma di Enrico III del 1046. Difatti vi si legge che l'imperatore, venuto in Italia, s'accorse che l'arcivescovo, violata la fedeltà, regnum sibi invadere moliretur. Forti dell'appoggio dell'imperatore, cercarono di far valere le proprie ragioni tutti quelli che dallo strapotere dell'arcivescovo avevano ricevuto dei torti: primo fra tutti Ubaldo, vescovo di Cremona. Anche i Lodigiani, che mal sopportavano l'ingerenza dell'arcivescovo negli affari della loro chiesa, si unirono al coro delle lamentele.
L'imperatore intimò allora una dieta in Pavia, promettendo di rendere giustizia a tutti. Ma A. si rifiutò di comparire in giudizio; per il che fu arrestato e tradotto con il seguito dell'imperatore a Piacenza. Di qui riuscì a evadere rifugiandosi, a quanto pare, dapprima nel monastero di Tolla nella valle dell'Arda e passando poi per Bobbio, Tortona e Voghera, donde rientrò in Milano. Sarebbe una parziale conferma di questo itinerario la donazione di due corti fatta da A. al monastero di Tolla nel 1040. In ringraziamento a Dio per la sua liberazione dalla prigionia, A. fece poi restaurare e adornare la basilica di S. Dionigi, accanto alla quale aveva fondato un nuovo monastero e un ospedale; volle anche ricordare il fatto in una immagine votiva, cioè in una croce di legno, coperta di lastre di rame, che rimase almeno fino al sec. XVII nella detta chiesa di S. Dionigi e nella quale sotto il Crocifisso si scorgeva la figura di Aribertus indimnus (cioè indignus e non Indimianus come vuole il Savio) archiepiscopus che offriva al Redentore una basilica e aveva sotto i piedi delle catene spezzate.
Corrado II, che si era visto sfuggire dalle mani il potente arcivescovo, lo dichiarò ribelle dell'impero e venne a fargli guerra assediando Milano. Oltre a ciò il 28 maggio 1037, sempre allo scopo di indebolirne la potenza, pubblicò la nota legge in favore dei valvassori, secondo la quale nessuno senza sua grave colpa poteva perdere il feudo, e tutti i feudi, compresi quelli dei valvassori, divenivano ereditarî. Inoltre dichiarò decaduto A., e nominò in sua vece, pare anche col consenso di papa Benedetto IX, un canonico ordinario del Duomo di nome Ambrogio; la qual nomina rimase poi senza effetto, perché i capitani di Milano si opposero al nuovo eletto e ne distrussero le case e le possessioni. Continuando la lotta tra l'arcivescovo e l'imperatore, l'arcivescovo nello stesso anno 1037 mandò ambasciatori a Oddone di Champagne, contro il quale tre anni prima aveva combattuto, per offrirgli, in odio a Corrado, la corona del regno d'Italia; se non che gli ambasciatori giunsero a destinazione quando Oddone era già morto in battaglia, combattendo contro Goffredo duca di Lorena, e furono al loro ritorno arrestati da Berta, marchesa di Susa, vedova di Manfredi, e inviati all'imperatore. Questi, interrogatili, venne a sapere che anche i vescovi di Vercelli, Cremona e Piacenza avevano partecipato alla trama di A., inviando lettere a Oddone e tutti li fece prendere e relegare in esilio.
In quel tempo l'imperatore molto si adoperò per ristabilire in Roma il pontefice Benedetto IX che ne era stato scacciato, e perciò non fa meraviglia che il pontefice, per compiacergli, il 26 marzo 1038 da Spello scomunicasse A. Le molestie dell'imperatore ad A. continuarono fino all'estate del 1038, quando ritornò in Germania, non senza prima aver raccomandato ai signori italiani che gli erano devoti di abbattere la potenza di A. E i signori già si apparecchiavano a dare l'assalto a Milano, mentre l'arcivescovo dal canto suo aveva raccolto armati e fatto costruire il carroccio, quando dalla Germania giunse la notizia che Corrado II era morto (3 giugno 1039). Questo avvenimento ebbe profonde ripercussioni politiche. Ariberto cercò subito di avvicinare Enrico III, figlio e successore di Corrado II, e a tale scopo si recò in Germania, dove il giorno di Pasqua del 1040 si trovò con Enrico ad Ingelheim e si mise con lui in pieno accordo. È incerto se e quando si accordasse anche col pontefice.
Ma le lotte di A. non erano ancora finite. Difatti nel 1042 scoppiò la sommossa dei cittadini di Milano contro i nobili maggiori e minori e perciò anche contro l'arcivescovo che ne era il capo. Essi reclamavano il diritto di partecipare attivamente all'amministrazione della città, allo stesso modo che pochi anni prima, dopo la legge sull'ereditarietà dei feudi emanata da Corrado II, avevano ottenuto di parteciparvi i nobili minori o valvassori. A capo dei cittadini si pose un nobile di nome Lanzone (v.). I nobili e lo stesso arcivescovo dovettero uscire dalla città: essi speravano di potervi rientrare, quando avessero costretto i cittadini con un lungo assedio ad arrendersi per fame. Difatti i nobili, aiutati dai Sepriesi e dai Martesani, vennero ad assediare Milano e fabbricarono dei borghi presso le principali porte della città. L'assedio continuò nel 1043 e 1044. A ricondurre la pace non valse neppure Adalgerio, cancelliere imperiale, mandato appositamente in Italia. Ma quel che non era riuscito ad Adalgerio, doveva riuscire allo stesso Lanzone, il quale, dopo essersi recato nel 1044 in Germania ed avere ottenuto dall'imperatore un soccorso di milizie, prima che queste giungessero poté concludere la pace fra i nobili e i cittadini e far sì che i nobili fossero ancora riammessi in città.
Verso la fine del 1044, A. si ammalò gravemente a Monza, dove tra il 25 e il 31 dicembre fece due disposizioni testamentarie, l'una a favore dei suoi pronipoti (Puricelli, Ambrosiana, n. 245) e l'altra a favore della chiesa di Monza (Frisi, Memorie di Monza, II, n. 32, p. 35). Tuttavia egli non morì a Monza, ma a Milano, dove si fece trasportare dopo aver saputo della pace che si era proprio allora conchiusa con i cittadini. Morì il 16 gennaio 1045 e fu sepolto nella chiesa di S. Dionigi, dove il suo sarcofago rimase fino al 1783, quando, sopravvenuta la profanazione e la distruzione della chiesa, fu trasportato in Duomo.
Bibl.: G. Giulini, Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della città e della campagna di Milano, Milano 1760-65; P. Rotondi, Ariberto d'Intimiano, arcivescovo di Milano 1018-1045, in Arch. Stor. Italiano, n. s., XVII (1863), ii, pag. 54 segg.; H. Pabst, De Ariberto II Mediolanensi primisque Medii Aevi motibus popularibus, Berlino 1864; A. Amati, Ariberto e Lanzone, ossia il risorgimento del comune di Milano, Milano 1865; C. Annoni, Monumenti della prima metà del sec. XI, spettanti all'arcivescovo di Milano Ariberto da Intimiano, ora collocati nel nostro Duomo, Milano 1872; H. Bresslau, Jahrbücher des deutschen Reichs unter Konrad II, Lipsia 1879-84; F. Savio, Gli antichi vescovi d'Italia, La Lombardia, I: Milano, Firenze 1913, pp. 386-410; C. Manaresi, Notizie sulla famiglia dell'arcivescovo Ariberto da Intimiano, in Arch. Stor. Lomb., 1922, p. 394 segg.