Arlecchino
Una maschera con le toppe
Maschera di Bergamo, Arlecchino ha un nome che, per il suo vestito a losanghe colorate, è diventato nella lingua italiana sinonimo di 'multicolore'. Il suo nome è ripreso, forse, da quello di Hellequin, un diavolo buffone del Medioevo francese, e inizialmente connotava un poveretto, stupido e pronto a menare le mani. Più tardi, le sue maniere si sono ingentilite e il suo vestito ha assunto una nuova eleganza.
Nella distribuzione tradizionale dei ruoli della Commedia dell'arte, lo Zanni (dal veneto Zani, ossia Gianni) era il servo, cioè uno dei personaggi fondamentali. I gruppi principali di personaggi erano infatti tre: vecchi, innamorati e servi. Il ruolo del servo poteva sdoppiarsi: al primo Zanni veniva affidata la parte di servo furbo, che costruisce l'intrigo, mentre il secondo Zanni era il servo sciocco e ingenuo.
Durante il Cinquecento e la prima metà del Seicento si cominciò a chiamare il personaggio del secondo Zanni con un soprannome che alludeva a qualche variante nel vestito. Questo nome era usato dall'attore come nome d'arte, ma, se aveva fortuna, veniva poi ripreso da continuatori e imitatori e finiva con l'indicare un nuovo personaggio. Nacquero così, tra gli altri, Pulcinella e appunto Arlecchino. Fu un attore italiano, Alberto Ganassa, a scegliersi nella seconda metà del Cinquecento a Parigi il nome d'arte di Harlequin, un nome ripreso da quello di Hellequin, un diavolo che in antiche leggende del Duecento si divertiva a spaventare i sempliciotti. Il personaggio, irriverente, burlone, sempre affamato, per ben due secoli fu popolare presso la corte francese. Da lì cominciò a comparire nelle piazze di tutta Europa, ma le città in cui fu più conosciuto furono Parigi e Venezia.
Lo Zanni, in origine, indossava camicia e pantaloni bianchi. A poco a poco, l'abitò subì diverse trasformazioni: la camicia diventò una tunica aderente e cominciò a coprirsi di toppe colorate che, inizialmente, avevano forme irregolari e diverse tra loro. Ma all'inizio del Seicento le toppe cominciarono a prendere una forma regolare e geometrica. Si trasformarono in quadrati, rombi, losanghe, innestandosi su uno sfondo non più bianco, ma colorato: ora il vestito di Arlecchino non aveva più niente di misero, ma appariva addirittura lussuoso. Al fianco completava il costume un corto manganello, strumento delle scene finali in cui Arlecchino regolarmente dava e prendeva botte.
La maschera che ricopriva il volto dell'attore era di cuoio o di cartone cerato. Aveva profonde occhiaie e piccole orbite. Una barba ispida faceva somigliare il viso a quello di uno scimmione. Sulla fronte si intravedevano due bozzi, residuo delle antiche corna da diavolo. I capelli erano completamente coperti da una calotta nera. Nonostante il volto coperto, Arlecchino era un re della mimica che si esprimeva soprattutto nel corpo, capace di ingobbirsi o distendersi a piacimento e nella camminata che poteva trasformarsi in salti acrobatici.
Nella recitazione, Arlecchino si esprimeva spesso per monologhi senza capo né coda, come chi s'ingarbuglia in una lingua che non riesce a padroneggiare. E dal labirinto di parole da lui stesso creato ne usciva con una frase che era conclusiva solo per l'intonazione ma non per il senso.
La parlata bergamasca con cui si esprimeva poteva essere mutata a piacimento dagli attori per farsi meglio capire o per introdurre espressioni gergali. Il suo linguaggio era il più sboccato tra quelli adoperati dalle maschere della Commedia dell'arte e tale restò, graditissimo al pubblico, per tutto il Seicento. Aveva anche a disposizione un repertorio di canzonacce popolari, ricche di doppi sensi e bisticci di parole oscene. Nel Settecento venne censurato in Francia e gli attori che lo impersonavano dovettero rinunciare alle parole più espressamente sconce. Gli Arlecchini di fiera che, nello stesso secolo, a Venezia, popolavano piazza San Marco continuarono però ad adoperarle tranquillamente con gran diletto del pubblico.